martedì 18 dicembre 2007

STORIA DI ISACCO A PALERMO


I giornali, ancora di recente, hanno detto che allo Steri, a Palermo, nascerà un “Museo dell’Inquisizione”. Io non sono d’accordo. Penso alla cacciata degli ebrei da Palermo, cinque secoli fa (così come in tutto il Regno di Spagna), e allo sterminio di quelli che vollero restare. Lo Steri conserva le poche tracce che restano di quella Catastrofe. Ed è una sorta di Nemesi: doveva cancellare, ed ora conserva. Credo che Palermo abbia un debito verso quei palermitani ebrei cacciati o torturati e costretti a rinnegare la loro fede o uccisi, e uccisi comunque, e che possa saldarlo, quel debito, facendo dello Steri una sorta di Yad Vashem. Un Museo delle vittime dell’Inquisizione. Delle vittime, e non dei carnefici. La mia proposta ha la forma di un racconto.

E’ rimasto nascosto per anni tra le preziosissime macerie accumulate dai dontotò che nel dopoguerra avevano preso possesso militare dei cortili dell’Osterio dei Chiaramonte. E’ riuscito a sfuggire miracolosamente alla vigilanza dei suoi ospiti, armati di roncole e doppiette, e a districarsi indenne tra le insidie puntute dei cerchi di rame strappati alle condutture elettriche del vecchio tribunale, le precarie torri di ruote dei vecchi camion militari, i labirinti sorti fra i cumuli di mattoni sbreccati e le tavole umidicce di panche e mobili e sedie di tortura.
A fargli compagnia, in quel girone, le carogne di un cavallo e di un cane marcescenti in un buttatoio e due metope di marmo bianchissimo inneggianti all’uomo nuovo, a braccio teso.
L’uomo che sta seduto innanzi a me sembra non avere un’età ben definita, e alla mia prima domanda - chi sei, tu? - oppone un silenzio di pietra, freddo come i suoi occhi di opale, scavati su di un viso denso di rughe desertiche, modellate dal vento.
Mi ha detto, incontrandomi, e tendendomi la sua mano freddissima, che ha il cuore gonfio di tristezza. In quei cortili e tra i palazzi che li delimitano, si trova un cimitero dimenticato, e lui, l’ultimo testimone della Catastrofe di Palermo, vuol raccontarmene la storia.
La sua storia.
Viveva nei pressi dell’antica Sinagoga, la più ricca del Ghetto, per via del contenuto del suo pozzo: la sua famiglia, che a Palermo, assai prima del Mille, era giunta al seguito di alcuni cavalieri arabi, aveva contribuito al tesoro della comunità, e lui stesso, da sarto, aveva donato, al Rabbi, le sue vesti; da mobiliere, aveva restaurato gli arredi; e da fabbro e da vetraio, aveva rimesso al loro posto le finestre distrutte dai primi accenni d’odio, dei cristiani.
Uomo di molteplici talenti, aveva custodito i rotoli di una sapienza oscura, che contemplava il prolungamento della vita, e la creazione di uomini dal fango, e di luci dal buio.
Mi state dicendo che non siete morto, gli chiedo? E lui, mi mostra il palmo delle sue mani, perfettamente lisce, come quelle di un bambino. Anche i miei piedi sono giovani, dice. Il resto, è secco, e aspetta di mutare in polvere.
Aveva, Isacco, questo è il suo nome, una moglie e sei figli, ed un giorno, aveva appena ordinato una gran festa per il bar mitzvah del suo maggiore, seppe da un cugino del Rabbi che in Sinagoga s’era discusso a lungo, tra gli anziani, dell’editto spagnolo, e che c’era da prepararsi ad una nuova fuga dall’Egitto, e che il Faraone, nelle fattezze della Regina di Castiglia, non voleva intender ragioni: gli ebrei dovevano lasciare subito il Regno, da un mare all’altro.
La voce aveva fatto rapidamente il giro di tutte le case, come l’acqua che scorre nei canali pulitissimi di un viridario e bagna uniformemente i frutti della terra, senza chiedersi di che forma siano e quale sia il loro sapore: tutti, poveri e ricchi, morigerati e peccatori, seppero allo stesso modo del loro destino. Vi fu chi si lasciò prendere dalla disperazione, e mise alla porta uno straccio di porpora, e chi, invece, si disse che erano da considerarsi tutte fandonie, e che a Palermo, gli ebrei erano da sempre ben visti, come i greci, e che se qualcosa di vero era da prendersi, in quel timore giunto sulle navi della Regina, tra i mozzi e i messaggeri, presto sarebbe sbiadito, al sole della Sicilia.
Ebbero ragione gli uni e gli altri. Sebbene molti anni dovessero ancora trascorrere, il nodo di forca infine si strinse al collo della comunità. E chi attese, guadagnò dall’incoscienza, e perse dalla ragione.
Tra la disperazione della cacciata imminente e l’euforia di un possibile ravvedimento, vi fu infatti chi mise all’incanto i propri averi, con discrezione, e ne ricavò una parte poco più che miserabile del loro valore. Per tutti gli altri, s’aprirono invece le porte dell’Inferno: vi fu chi perse le commesse, chi il diritto al pagamento, chi la licenza di svolgere le arti ed i mestieri. Chiusero le Yeshiva, e i pozzi furono scoperchiati, e depredati; le Sinagoghe ridotte a cave di pietra, e a porcilaie.
Furono rimosse le insegne, e demolite le abitazioni. L’anello del Ghetto si fece più stretto, e ancora più stretto. E più stretto.
La famiglia di Isacco subì l’onta dello smembramento, e la moglie, e i figli, furono caricati su due velieri, diretti la prima ad Oriente e i secondi in Africa, a trovar fortuna. Un giorno, dissero. Un giorno, si dissero, un giorno ci rivedremo.
Isacco provò a disfarsi del suo patrimonio. Ne ricavò insulti, e sputi. Tutto si fuse insieme, in un solo crogiuolo incandescente: l’odio, il disprezzo, la rivalsa. Negli occhi dei Gojim, dei Gentili, Isacco vide una luce che non aveva mai brillato così tanto, prima d’allora: la cupidigia. L’amore s’era interrato come l’acqua dei vecchi fiumi della città, e il mare, negli anni che seguirono, si ritirò fino a lasciarne secco il cuore. Arido come il deserto.
Isacco, senza più un chicco del metallo che per secoli la sua famiglia aveva custodito, cucito nelle vesti per il momento della fuga, che un giorno, di certo, dicevano gli anziani, sarebbe giunto, divenne un accattone, si confuse tra i rifiuti della città incancrenita. Per anni, tese la mano per raggranellare ciò che avrebbe potuto persuadere un marinaio a caricarlo in una stiva di una nave diretta ad Oriente o in Africa, dalla moglie, o dai figli. E ogni volta, il denaro, raccolto e custodito nelle sue vesti, si smarrì, fu rubato, o ceduto per un tozzo di pane.
Isacco fu riconosciuto da un buon amico, un Gojim, che lo persuase alla conversione, ed era una conversione al solo Dio del Cielo, per Isacco. Nel giro di qualche giorno, ripulito, e confortato di un giaciglio, e di vesti colorate, fu arrestato, tacciato di marranesimo e tradotto in una cella del primo carcere dell’Inquisizione.
Il racconto di Isacco si fa confuso, alle mie povere orecchie.
Non mi decidevo a morire, dice. Gli eretici, coloro che pensavano con la testa loro, venivano inceneriti. I famigli venivano scarcerati. I nobili trovavano un accordo.
I guardiani passavano. I giudici invecchiavano.
Il vecchio carcere fu chiuso e demolito.
Fu deciso che in catene giungessi, dice Isacco, insieme ai pochi conversos rimasti e ad alcune donne tacciate di stregoneria, e che solo avevano i torti di saper leggere, o far di conto, o di padroneggiare il latino ed il greco, al carcere nuovo dell’Osterio, e da qui, spiega, da quest’Inquisizione che dissero Santa non mi son più mosso. Fino ad oggi.
Scrissi le preghiere accettate nella loro lingua, ché mi salvassero la vita terrena, e nascosi le mie nelle loro empie figurazioni, ché mi salvassero la vita eterna. E per scrivere, e disegnare, usai tutte le mie miserie corporali, e le uova marce e il latte acido che le donne pagavano con le loro vergogne.
Ho visto morire tutti quanti, e il puzzo delle loro carni bruciate è giunto alle mie nari rivelandosi appieno, quasi che le polveri sospese pronunciassero gli addii, e dicessero, con i nomi, le ultime volontà dei condannati.
Il mio Atto di Fede venne dimenticato. Ripetendo i versetti della Sapienza, vidi invecchiare la corteccia del mio corpo, e fluire inspiegabilmente all’interno una linfa fresca come latte di capra.
Mi feci però incorporeo, e potevo manifestarmi ad alcuni, o solo alcuni potevano vedermi.
Durante un interrogatorio, mi scorsero due paia d’occhi, e il terrore se ne impadronì. Il Sommo Inquisitore venne ucciso, la sua testa percossa da un Frate, con violenza, contro la pietra: il sangue e le cervella dello spagnolo inumidirono il tufo e s’insinuarono nelle camere d’aria sino alle segrete, e lì giacciono ancora, tra le ossa delle streghe e dei conversos.
Il luogo che era stato dell’Inquisizione e dell’Ingiustizia divenne un Tribunale del Regno nuovo, e giunsero i carri senza cavalli, e assistetti a processi che mi ricordavano i miei, quasi che il tempo non fosse passato.
Ricordo un uomo anziano, che per un caso, giunse a scrutare tra le demolizioni, e aperse la bocca in uno sbadiglio di stupore, dinanzi ai miei graffiti. Ed altri ancora, molto più tardi. Un uomo che teneva il fuoco sulle labbra ed un altro che lampeggiava con uno strano attrezzo. Tutto fu poi chiuso, e furono padroni i dontotò.
Ora, delle donne, delle streghe che chiamano restauratrici, riportano le mie preghiere e i miei disegni al colore delle mie miserie corporali, e delle uova marce e del latte acido. E tanti, li osservano, come se ne capissero il significato.
Ora che la mia Palermo non conserva più alcun segno dei Giudei, è questo il solo luogo che ne custodisce la memoria. La memoria della loro Morte. La memoria della Catastrofe di Palermo.
Gli dico che altre Catastrofi ci sono state, e ben più sanguinose. Gli dico dei camini di Birkenau. Dell’assedio di Varsavia. Dei pogrom russi. Di Israele. Dell’undici settembre.
Gli dico della dimenticanza di Palermo per i suoi ebrei, che furono decine di migliaia. E della segreta architettura di Damiani Almeyda, di quell’Archivio ricostruito ai margini della Giudecca come una Sinagoga.
La mia Sinagoga?
Sì, Isacco, la vostra.
Gli dico che di quelle celle, che lui abitò e nelle quali non morì, e di quei graffiti, che segnarono il suo passaggio dal corporeo all’incorporeo, faranno un Museo, e gli dico cos’è un Museo. Sarà un Museo dell’Inquisizione, che tutti potranno visitare.
Degli uomini e delle donne.
Dei Gojim, dice.
Sì. Gentili. Ed ebrei.
Vorrei che fosse un Museo degli ebrei morti, dice. Un Museo dei Morti. Un Museo delle vittime dell’Inquisizione. Non dei carnefici.
Isacco va via. E per un attimo, nei suoi occhi, di vetro, si riflette il mio sguardo.

In quest'antica fotografia, il prospetto dell'antico palazzo Chiaramonte Steri: fino agli anni Sessanta, fino al massacro deciso dall'Università in forma di restauro (ne scrisse Sciascia, fra l'altro).

lunedì 10 dicembre 2007

LE NOTTI DI VALPURGA


Beppe Grillo scrive nel suo Blog della sua vergogna per il nostro Paese, con la prima della Scala affollata di quei leader politici che hanno preferito Wagner ad una notte nel Reparto Grandi Ustionati, in compagnia degli operai della ThyssenKrupp.
Così avrebbe fatto Sandro Pertini, scrive Grillo. Ed ha ragione ad indignarsi, il comico genovese. Non a stupirsi, però.
Richard Wagner m'incuriosisce. Fu la colonna sonora del Nazismo.
Le acciaierie della ThyssenKrupp non se la passarono male con Adolf Hitler, per il quale fusero cannoni, missili, sommergibili e carri armati. I famosi panzer, ricordate?
Poco tempo fa, abbiamo anche letto del Massacro di Rechnitz, in Ungheria. Nel Castello della famiglia Thyssen, che da quattro anni era stato requisito dalle SS, alcuni ospiti di una serata molto speciale, il 24 marzo del 1945, furono invitati ad un singolare dopocena.
Gli ospiti - trenta o quaranta, informa Wikipedia - erano per lo più esponenti del Partito Nazista, della Gestapo e della Gioventù Hitleriana.
Una quindicina di loro fu condotta in un fienile poco distante dal Castello e invitata a sparare su duecento ebrei ungheresi, condotti lì per l'occasione. Molti prigionieri furono uccisi a bastonate.
Credo di poter immaginare la colonna sonora di quella Notte di Valpurga.
Sessantadue anni dopo, l'inferno di Torino. E la Prima della Scala. Con Wagner.

lunedì 3 dicembre 2007

IL PESO DELL'INNOCENZA


Mi hanno chiesto: perché mai Alfredo Caltabellotta, uno dei protagonisti de "I Diavoli di Melùsa", sente il bisogno di tornare in Sicilia e di affermare la totale estraneità di suo padre alla vicenda criminale nella quale, mezzo secolo prima, era stato ingiustamente coinvolto? Era un vecchio caso giudiziario, dimenticato. E lui, Alfredo, stava per morire. Perché, dunque, rimestare nel passato?
Con la colpevolezza, dico, facciamo i conti. E' l'innocenza il problema. E l'innocenza dei padri, si sa, ricade sempre sui figli.

sabato 1 dicembre 2007

IBLA BICOLORE


A Ibla c’è qualcosa da vedere subito, prima che scompaia.
E’ il colore nascosto e ritrovato della candida Chiesa di San Giorgio: il nero asfalto di capitelli, fasce e decori.
Quel colore durerà poco tempo. Poi, inevitabilmente, sparirà.
Così dicono gli esperti, che saprebbero come richiamarlo ancora in vita.
Ma non si può essere affatto sicuri che ci riproveranno, dopo la guerra di qualche mese fa.
Bisogna andare ad Ibla, per farsene una ragione.
Il Fascismo abbatté il Castello chiaramontano, e costruì una nuova strada fra Ragusa ed Herea (Hybla Hereia). Percorrerla è attraversare la storia: come se, in sospensione, restassero degli atomi, particelle infinitesime delle mura possenti, delle sale d’armi, degli alloggi dei Chiaramonte, dei Conti che vollero farsi Re e pagarono con la testa; gli successero i Cabrera, con una capra nel blasone, e Ragusa fu sottomessa alla vicina Modica per cinquecento anni.
La strada termina dinanzi alla cancellata del giardino Ibleo, in zona pedonale. Risaliamo per i vicoli, sfiorando il ristorante di Ciccio Sultano, gli emporii con le delizie iblee in vetrina: i formaggi, il miele, la cioccolata alla vaniglia e alla cannella (“come ad Alicante, in Spagna”, ricordava Leonardo Sciascia).
La strada sbuca in una sorta d’antipiazza. Orgogliosa, l’edicola espone “Sicilia Libertaria”, affissa alla vecchia persiana. A fianco, i finestroni del Circolo di Conversazione incorniciano alte librerie di noce bene incerate, e un paio d’ospiti, intenti alla lettura.
Sono le sei, e la sera è scaldata dalle luci gialle.
In piazza del Duomo, s’intravedono pochi turisti sotto la scalinata della Chiesa di San Giorgio, attratti per lo più dallo scenario dei film televisivi del Commissario Montalbano.
Come se Ibla fosse la piazza di Vigàta, e non invece il cuore di un luogo abitato da millenni, le pareti calcaree forate, le caverne mutate in case, poi in necropoli e ancora in case, le mangiatoie costruite con pietre graffite e scolpite.
La Chiesa spagnolesca disegnata da Rosario Gagliardi, la torre campanaria al centro, si erge di sbieco su questa piazza televisiva, e ad arrivarci dal basso, si allunga biancastra come la pietra che la compone. Un ologramma, al quale occorre avvicinarsi.
Alla fine dell’ultimo restauro, smantellate le impalcature, ripiegati i teli, gli Iblei non credevano ai loro occhi: al lucore del calcare, s’era aggiunta la notte della pietra pece.
In altri tempi, un banditore sarebbe andato di strada in strada: berretto, giummo e tamburo.
“Currìti, currìti!”.
Taratatàn.
“San Giorgio si fici bianca e nivura”.
Taratatàn.
Era il primo incantamento che da secoli si potesse ricordare su Ibla; o forse, un maleficio.
Fabio Granata, che è stato un eccellente assessore, prima ai Beni Culturali e poi al Turismo, ha protestato, per il restauro di una delle Chiese più importanti della Sicilia, nel Val di Noto, oramai patrimonio mondiale dell’Umanità (e del riconoscimento Unesco, buona parte del merito va proprio a Granata).
“Una delirante interpretazione dei materiali”, ha detto.
A Granata, ha risposto la Sovrintendente ai Beni Culturali, Enza Cilia: “sono trasecolata”, ha scritto, “ritengo incauti i suoi inopinati allarmismi”. Replica ton sur ton, barocco su barocco.
La vicenda è intricata. Il reato è quello di “delirante interpretazione dei materiali”. Un abuso architettonico, commesso in luogo di un intervento “puro”, neutro.
Questa purezza è un punto quasi invisibile, su una mappa antica, e malridotta. Servono storia e filosofia, per l’investigatore: dei testimoni, delle tracce.
Non sono solo in quest’arrampicata. Ho una guida, accanto. Quasi me ne dimenticavo.
“Di me non si parla”, sussurra, scorbutica.
La pietra che fonda la città è calcarea, e l’intera Ibla ne fu cava d’estrazione.
C’è un’altra presenza, sotto terra, a queste latitudini: il petrolio.
Quando il petrolio e il calcare s’incontrano, e l’olio fossile s’insinua tra i pori che innervano la pietra cotta in antichi vulcani, nasce una pietra nera, dotata di numerose qualità: elastica, resistente alle sollecitazioni, docilissima all’intaglio dello scalpellino, dello scultore. Il petrolio può ravvivarla anche a distanza di secoli.
E dunque, dove sta il problema?
Quando l’architettura discute, e non è che lo faccia spesso, s’attacca a questo genere di sciocchezze. Del resto, non si occupa.
Dipenderà dal fatto che tutto ciò avviene a Ragusa. Mi viene da pensare a Sciascia. E’ la seconda volta, questo pomeriggio
Sciascia lo frequentava volentieri, il ragusano.
Nel suo “La Contea di Modica”, scrisse che qui era da rilevare una presenza dell’invettiva e della satira più aperta e affilata che in altre parti della Sicilia, per un più avvertito gusto di libertà.
E aveva ragione. Se tutto ciò fosse accaduto altrove? Chi se ne sarebbe preoccupato, a Palermo?
Di questo, dunque, si può discutere solo a Ragusa. Per gusto di libertà.
Non è la prima volta che qui si polemizza sui restauri. Vittorio Sgarbi denunciò l’orrore della tettoia posta a protezione di quel che rimaneva della vecchia Chiesa di San Giorgio, il portale trecentesco. E qualche anno fa, per il francescano Convento di Gèsu (così: con l’accento sulla “e”), sconciato da un terremoto, si escluse il riuso dei materiali originari, ritenendosi più “puro” l’uso di mattoni di cotto. Su un manufatto di pietra calcarea. Il vero è falso, e il falso è vero.
Miracoli della dialettica.
Oggi, il sofista Gorgia da Leontini farebbe l’architetto.
Se Atene piange, Sparta non ride.
Vuole parlare di San Giovanni, di Ragusa nuova? In piazza Gramsci hanno tolto le palme centenarie e una pregevole piazzetta novecentesca per fare il parcheggio della Stazione. Indispensabile. Per Palermo, il treno ci mette sette ore: sono 250 chilometri. Per Catania, cinque ore: 100 chilometri. Dicono che alla fine dei lavori, ricostruiranno tutto com’era.
Torniamo alla Chiesa di San Giorgio, se non le dispiace. Stiamo un poco divagando. Chi era l’architetto, Rosario Gagliardi?
Un siracusano, un Genio, a giudicare dalle sue opere: perché di lui, della sua vita, ancora oggi, si sa poco o nulla (se si eccettua la devozione al Bernini e al Barocco romano). Ricevette l’incarico di rifare San Giorgio nel 1738. Nel 1693, gli iblei avevano contato i loro morti - cinquemila: quanti un secolo prima ne aveva fatti la peste – e avevano deciso di separarsi, consensualmente, tra Sangiorgiari e Sangiovannari. La nobiltà più recente si arrampicò su per il colle; la più antica rimase dov’era sempre stata. Gagliardi si guardò intorno, chiese agli artigiani. Scelse quella pietra più scura per ragioni estetiche o strutturali, chi lo sa, e forse, la utilizzò quando l’aria l’aveva già ingrigita.
Nessuna delirante interpretazione?
No, l’interpretazione c’è stata, e i restauratori potrebbero aver calcato la mano nell’imbibire la pietra di petrolio. Ma così facendo, avrebbero solo rinviato di qualche mese l’esatta coincidenza con il grigio originario.
Si può ipotizzare un lavoro di restauro “ideale”?
Che avrebbero dovuto fare, i restauratori? Individuare le esatte intenzioni di Gagliardi? O riproporre l’interpretazione che di quelle intenzioni diedero i mastri d’Officina? Senza contare che da allora, sono trascorsi quasi tre secoli: la storia avrà pure i suoi diritti, avendo modificato il lavoro altrui e impresso il “suo” colore.
E qui arriviamo a ben altri interrogativi.
Può considerarsi “puro” l’agire sulle lancette della Storia? Ridare la vita ai morti? Rimettere del petrolio in quei fori dai quali altro petrolio era evaporato secoli prima?
Come fosse l’anima, che per Democrito è fatta di atomi, e si respira.
Tra qualche mese, o tra qualche anno, dipenderà dalla mistura usata dai restauratori, il nero della pietra degraderà in grigio, e la bicromia immaginata da Gagliardi, sparirà agli occhi dei più; si manterrà una differenza quasi impercettibile, che sarà colta, come segno distintivo, pure da chi oggi s’imbizzarisce al solo parlarne.
Converrà che ad Ibla c’era un barocco bianco, e che ora è bicolore.
Il Barocco appartiene solo al Seicento, e niente di significativo, ad Ibla, è stato riedificato prima del 1739. Di “Barocco siciliano” parlò per primo Anthony Blunt, nel 1968. Gli architetti di Ibla avevano una visione manualistica del Barocco. Lavoravano su immagini. Ma il risultato è unico. Guardi con i suoi occhi. Ha mai visto niente del genere?
Restiamo in silenzio, davanti a San Giorgio. Sono le otto, e il freddo entra nelle ossa. Si torna a casa, a Ragusa nuova, a San Giovanni. In macchina, a sorpresa, il mio Cicerone, o Virgilio che sia, ossimoro vivente, accademico e saggio, difende la polemica di Granata.
Pure se non la condivido, non è del tutto infondata: potrebbe avere un’efficacia preventiva; evitare future manipolazioni; riaccendere i riflettori su Ibla. Gagliardi - con la sua Chiesa di San Giorgio, un capolavoro assoluto - non riuscì ad opporsi alla decadenza. E nel Novecento, le case popolari tornarono a svuotare i quartieri di Herea, uno per uno. Soltanto ora Ibla si sta ripopolando, e i prezzi delle vecchie case sono saliti a dismisura.
Mi volto verso di lui. Sul sedile accanto, però, non c’è nessuno. Soltanto libri, ritagli, appunti. Sintesi di mille conversazioni, ricordi, impressioni.
Nell’aria, dev’esser rimasto anche qualche atomo dei Cabrera. A metà del Quattrocento, abolirono di fatto il feudalismo, concedendo ai contadini il possesso delle terre, in enfiteusi. Senza aspettare l’Illuminismo, il Costituzionalismo e il 1812. Ciascuno sarebbe stato proprietario del suo: della sua terra, del suo denaro, della sua casa; sicché, il ragusano ebbe ed ha ancora una sua borghesia, ante litteram, un risparmio ordinato, una civile convivenza.
Nel 1808, l’abate Paolo Balsamo, di Termini Imerese, venne nel ragusano a dorso di mulo. Economista e uomo politico, studi in Inghilterra, Balsamo sapeva di numeri e di caratteri, e nelle sue accurate relazioni, ricorrevano i paragoni con lo Yorkshire e la campagna piemontese. A Ragusa, scriveva, “abbondano quelli che si chiamano capitalisti”, e “sono sparse le mezzane fortune”.
Ma il tempo, anche qui, sta cambiando ogni cosa.
Quegli atomi, dei Chiaramonte e dei Cabrera, sono tutto quel che resta dell’incantesimo che ha fatto di Ragusa un’isola nell’Isola (senza mafia, finora, e con una pasta umana di buona qualità). Incantesimo che si deve ai Siculi, ai primi abitatori dell’Isola, e che è sopravvissuto a romani, bizantini, arabi, svevi, angioini e spagnoli.
Né ossa né ruderi sono rimasti per queste strade.
I profumi, semmai.
Gli atomi di Democrito, l’anima del passato.

venerdì 30 novembre 2007

LA NUOVA ANTIMAFIA


Il 2007 sembra esser l'anno della svolta.
La maggior parte dei siciliani, recita un sondaggio, si dice convinta che la mafia sarà sconfitta, e i risultati concreti di questi ultimi anni, rendono concreta quest'ipotesi: i colpi inferti a Cosa Nostra, i no alla mafia pronunciati dagli imprenditori e dai lavoratori.
Ma in questo formidabile 2007 accade anche dell'altro.
Tra ieri e oggi, a Palermo, per iniziativa dell'Università cittadina e di altri atenei italiani, si è tenuta una due giorni sulle Mafie e gli strumenti penali di contrasto, in tutt'Europa.
Tra le tante cose delle quali si è parlato, una più di altre ha meritato titoli e spazio sui giornali: il gran numero di inchieste, oltre settemila, per il reato di concorso esterno in associazione mafiosa, e la percentuale ridottissima di sentenze, intorno all'8 per cento. Si può ipotizzare che le condanne siano la metà. E non è di certo un bell'ipotizzare.
Ora, in tanti, hanno chiesto che questo reato - d'origine giurisprudenziale, e cioè "inventato" dalla Corte di Cassazione - sia finalmente tipizzato: trasformato in fattispecie, inquadrato con apposita norma esplicita dal Parlamento.
Forse questo è un primo segno tangibile di un processo culturale più ampio, che conduce a far dei due maggiori problemi della Giustizia Italiana, l'efficienza e le garanzie delle parti, le facce di una stessa medaglia.
Se più generale, la questione dovrebbe indicare la necessità di un disboscamento del Codice Penale e di una semplificazione del Codice di Procedura Penali: meno reati e un vaglio più stretto per quelle indagini che i pm chiedono di condurre a giudizio. E per quel vaglio, che in Italia è costituito dai Gip e non dai Gran Giurì, occorrerebbero forze e risorse.
Un processo culturale che accosti efficienza e garanzie, poi, sia detto per inciso, potrebbe spingersi fino ad una più netta divisione di compiti tra le forze di polizia.
Sarebbe opportuno che di questa nuova temperie, che forse sarebbe piaciuta a Leonardo Sciascia, si tenesse conto, nel dibattito sul Testo Unico Antimafia che presto sbarcherà in Parlamento, nella forma di una Legge delega al Governo.
Palermo lancia un segnale.
Nessun doppio binario è possibile. Non si può pensare a Tribunali Speciali Antimafia. Quel che è accaduto con il Terrorismo non è ripetibile. Ma la lentezza endemica della Giustizia Italiana, quando contamina i processi di mafia, determina conseguenze orribili. Per lo Stato e per i Cittadini.

mercoledì 7 novembre 2007

I ROLEX DEI BOSS


Leggo che i boss Salvatore e Sandro Lo Piccolo, padre e figlio, largheggiavano in generi di lusso: orologi rolex, scarpe di gran marca, cachemire e flanelle (acquistati negli empori della ricchezza cittadina, con i 40.000 euro al mese e le stock option del pizzo); che il figlio frequentava i pub della città, la movida palermitana; che i poliziotti, in quel covo di Giardinello, così chiassoso, poco elegante, hanno ritrovato una sorta di Decalogo del perfetto mafioso, stilato dall'erede di Provenzano alla guida di Cosa Nostra: un prontuario di virtù virili, immagino, dall'omertà all'obbedienza.
Mi pare di cogliere in questi fatti una contraddizione: per quegli uomini, i segni esteriori della ricchezza contavano qualcosa, e la funzione di quei segni (l'attrazione del consenso altrui) prevaleva sulle inviolabili regole della latitanza, sin da quella aurea: la dissimulazione, l'invisibilità.
Quanta differenza con Bernardo Provenzano, arrestato, con la sua cicoria e la sua ricotta, in un vecchio casolare del corleonese!
Forse, a decretar la fine della mafia - insieme alla rivolta sociale, e alla repressione di polizia - sarà la televisione, con la pubblicità: rolex, scarpe, cachemire e flanelle.

lunedì 5 novembre 2007

LA TESTA DI COSA NOSTRA


L'hanno preso. Che sia o no l'erede di Bernardo Provenzano, Salvatore Lo Piccolo ora è in manette. E con lui, il figlio Sandro.
Fuori, adesso, resta Matteo Messina Denaro. Il boss di Castelvetrano preoccupa gli investigatori più del suo (ex) concorrente al trono di Capo dei Capi, perché ritenuto più violento.
La partita che si chiude oggi, decapita definitivamente la mafia palermitana: e in che modo, gli investigatori lo scopriranno analizzando il materiale ritrovato nel covo di Giardinello, dov'era in corso un summit.
Ma l'altra partita, quella che si apre oggi, riguarda, più generalmente, il futuro della lotta alla mafia in Sicilia.

sabato 3 novembre 2007

LA SCOMPARSA DI ASCIOLLA



E' morto, ad 85 anni, Enzo Asciolla. Fu un giornalista, uno tra i più talentuosi cronisti di nera e giudiziaria de La Sicilia di Catania.
Nel 1961, riuscì a mettersi sulle tracce di Paolo Gallo, e a ritrovarlo in vita.
La sua inchiesta passò alla storia come il Caso del Morto Vivo. E negli Usa, avrebbe certamente meritato il Pulitzer.
Questa è la storia.
Nel 1954, per il presunto omicidio di Paolo Gallo, era stato condannato il fratello di quest'ultimo, Salvatore Gallo. Mancava un cadavere, però: quello della vittima. Il pubblico ministero aveva richiesto l'ergastolo sulla base di un'indagine che si potrebbe eufemisticamente definire approssimativa, che aveva messo insieme pochi elementi indiziari: le accuse rivolte dalla moglie di Paolo Gallo all'indirizzo del cognato (indicato come violento) e una pozza di sangue rinvenuta dinanzi all'ovile del casolare in cui, assai poco pacificamente, convivevano le due famiglie.
Enzo Asciolla condusse la sua inchiesta insieme all'avvocato Salvatore Lazzara, succeduto a Piero Fillioley nella difesa di Salvatore Gallo, e dinanzi alla manifesta ostilità degli investigatori, e dei magistrati.
Poté contare sul sostegno del giornale e dei lettori, su quei due contadini che s'erano fatti incarcerare pur di far mettere a verbale che loro, Paolo Gallo, l'avevano visto vivo, e sulla confessione della moglie di Paolo Gallo: Mio marito è vivo, e si nasconde ad Ispica. Non torna perché ha paura del fratello (della confessione, Asciolla parlò ad Antonella Ferrera, della Rai, soltanto nel 2003).
La soffiata della moglie giunse tardivamente, sette anni dopo la condanna all'ergastolo di Salvatore Gallo. E Asciolla, che non s'era mai rassegnato alla sconfitta, vinse finalmente la sua battaglia. Ma dovette intervenire il Parlamento, a modificare il Codice di Procedura Penale: secondo i giudici, infatti, nonostante Paolo Gallo fosse indiscutibilmente vivo, non si poteva scarcerare il suo (ex) assassino: mancava la giusta fattispecie dell'articolo sulla revisione dei processi (tesi poi contestata dagli studiosi di Procedura Penale).
Fu il penultimo atto della tragedia del Morto Vivo. Pochi anni dopo, Salvatore Gallo morì per i postumi d'una malattia contratta in carcere.
Salvatore Lazzara è morto nell'estate del 2006. Ora, con Enzo Asciolla, scompare un altro testimone di una vicenda che riuscì ad indignare l'Italia, e che ho reinventato nei miei Diavoli di Melùsa.

Nelle foto, Salvatore Gallo (in divisa da carcerato), e Paolo Gallo, il Morto Vivo.

giovedì 1 novembre 2007

IN MORTE DI G.R.


Detesto i razzisti e i razzismi, le difese della razza ariana, le comparazioni genetiche, gli sproloqui dei Nobel, i vorrei dire e non dico dei bravi commentatori serali, gli arabofobi e gli antisemiti, i KKK e le nostre piccole Vandee. E più ancora, però, disprezzo gli ipocriti, e i nasconditori della polvere sotto i tappeti. Per questa ragione, chiedo loro: cosa ci racconterete, della morte della signora Giovanna Reggiani? E cosa racconterete, a suo marito, per consolarlo? Che bisogna portar pazienza? E che radere al suolo l'inferno di Tor di Quinto è una prepotenza?

mercoledì 31 ottobre 2007

IL NUOVO DI EDMONDO BERSELLI


E' il più bravo di tutti. Ed ora, torna in libreria, con un volume che so già mi piacerà quanto e forse più degli altri. Non ne so nulla, fatta salva un'anticipazione letta sull'Espresso.
Ne conosco il titolo - "Adulti con riserva. Com'era allegra l'Italia prima del '68" - e la casa editrice: Mondadori.
E lui?
Lui è Edmondo Berselli, che mi aveva già deliziato con "Il più mancino dei tiri" e "Venerati maestri" (ve li raccomando!).
Berselli è autore di scrittura colta e grassa, ebanista di legni stagionati e tirati a lucido, ragionatore reazionario per quel che po' che basta.
Mi viene in mente, descrivendolo, che ogni giudizio contiene i germi del pregiudizio altrui.
Bene.
Se non apprezzate quelle virtù rabelaisiennes, e siete affezionati a certe modulazioni asinine della lingua e del pensiero - soggetto, predicato e complemento; tesi, antitesi e sintesi; logica e caos - Berselli non fa per voi. Tenetevene alla larga.

martedì 30 ottobre 2007

DOPO I GIORNALISTI, GLI HACKERS


In un tempo non lontano, ai giornalisti si sostituiranno i nipotini degli hackers, e magari li chiameremo seekers, truth seekers, cercatori di verità.
Cresce il numero d'informazioni che i pochi possono contendere ai molti, e al tema della difesa della Privacy s'aggiunge quello dell'impossibilità di tutelare i diritti individuali, nel gran mare di Internet, solcato da pirati in doppiopetto.
Le prede son destinate a crescere, per via dell'abolizione della moneta, e della sua sostituzione con i pagamenti telematici; della progressione inarrestabile verso il voto elettronico (embrione della democrazia elettronica); dell'accumulazione di dati sensibili da parte di soggetti economici ed istituzionali.
Ai giornalisti - a quei lavoratori intellettuali che hanno fin qui provato, bene o male, a tutelare le libertà - succederanno i possessori dei saperi tecnici indispensabili alla conservazione delle libertà residue.

lunedì 29 ottobre 2007

LE STRAGI IMPERTINENTI


Il giornale che leggo con maggiore interesse ogni mattina, il Corriere della Sera, e che per questo potrei definire il mio giornale, ha titolato oggi sulle stragi di clandestini consumatesi dinanzi alle nostre coste.
La scelta del Direttore di dedicare il titolo principale del suo e nostro quotidiano ad un argomento così scomodo, e impertinente (nei confronti della mediocrità del dibattito politico e culturale italiano), è esattamente ciò che possiamo aspettarci da Paolo Mieli. Che le banche ce lo conservino a lungo.

LE VERITA' NASCOSTE


I libri non cambiano il mondo. Raccontano il cambiamento, però, e in certe occasioni, provano ad anticiparlo.
Il carattere visionario di certe letterature è dunque solo apparente, e il profetismo di certi autori è solo un'etichetta.
E' invece il frutto di un ragionamento, di un divertimento sui segni che anticipano, in ogni epoca, i cambiamenti.
Ne deriverebbe, se tutto ciò fosse vero, che non vi è, né può essere invocata, una supremazia del realismo sulle altre forme del narrare, e che il cosiddetto impegno è una forma volgare di quella più alta forma di narrazione che legge la realtà e ne riproduce una differente, per restituire - con la manipolazione - una verità che si è nascosta.

venerdì 26 ottobre 2007

I DIAVOLI: PRIMA TAPPA, SIRACUSA


Ho chiesto alla Rizzoli, la casa editrice del mio nuovo romanzo, I Diavoli di Melùsa, di collaborare con Legambiente e di aggiungere, alle ordinarie presentazioni del libro, alcuni eventi in quei luoghi d'Italia nei quali le devastazioni ambientali hanno provocato maggior sofferenza: degli incontri che, a partire dal romanzo, raccontino del Passaggio, di quel tempo in cui si scelse di rinunciare al Passato in nome di un Futuro indistinto.
Inizieremo domani pomeriggio, a Siracusa: luogo simbolo, al centro del Val di Noto.
Nella Sicilia Orientale, e per la precisione da Gela verso Oriente, sono tanti i luoghi da risanare: Augusta, Melilli, Priolo, la stessa Gela e tanti altri.
Un tempo, laddove ora sorgono gli stabilimenti petrolchimici, le raffinerie, c'erano le dune modulate dal vento, le spiagge assolate, i casali di pesca, le campagne coltivate a grano, le masserie.
Mi hanno raccontato che, per un soffio, per un alito miracoloso, la Sicilia non ha ceduto, alle compagnie multinazionali, anche le spiagge di Marzamemi e di San Vito Lo Capo. Era tutto pronto. Stabilimenti, strade e speculazioni. E poi, la solita trafila: inquinamento delle falde, sversamenti a mare, modificazioni del dna, aborti, tumori.
Ci saranno persone diverse, domani pomeriggio, nella Sala dedicata ad Archimede, al Palazzo Comunale - per ruolo, cultura, convinzioni - unite dalla consapevolezza che l'onore perduto della Sicilia si riacquista solo a partire dal risanamento ambientale.
Un popolo che perde l'aria che respira, la terra sulla quale cammina, i colori degli alberi e l'odore del mare, non sa più distinguere tra il bene e il male, ed è preda del Caos, della violenza.
Vale per la Sicilia, vale per il Pianeta.
Siracusa è la prima tappa di questo viaggio, che toccherà Piombino, Porto Marghera, Taranto. E altre città.

ALCAMO, I LIBRI E LE ETICHETTE


Ho partecipato qualche giorno fa al Festival di Letteratura Cieli Letterari di Alcamo, promosso dalla Pro Loco e culminato, domenica 21 ottobre, nel Primo premio letterario intitolato a Ciullo d'Alcamo (Cielo, si diceva nelle nostre scuole).
Il programma mi ha regalato una conversazione con Santo Piazzese, amato autore palermitano ed eccellente osservatore della nostra città.
Un anno fa, l'ideatore e organizzatore della Rassegna, Vito Lanzarone, che di mestiere fa il libraio, aveva promosso degli incontri letterari nelle scuole di Alcamo. E mi aveva della sua idea di far fare, a quella rete di relazioni messa su con fatica ed entusiasmo, per la sua città, un salto di qualità.
Mi pare che ci sia riuscito.
Lanzarone ha coinvolto tanti autori, più o meno famosi, e in tanti hanno assistito alle manifestazioni, lettori alcamesi e delle città vicine; da Palermo c'è chi ha deciso di far qualche chilometro in più del solito, la sera, per assistere agli incontri.
Ai corsi di scrittura, poi, si sono iscritti in 180.
Domenica, a conclusione della manifestazione, la proiezione del bel documentario di Floriano Franzetti (A proposito di Palermo: gli scrittori del mistero) e dell'intervista, in video, ad Andrea Camilleri, e ancora, la premiazione della casa editrice Sellerio (con la consegna del premio nelle mani di Antonio Sellerio).
Tra i tanti scrittori, vorrei ricordarne uno soltanto (oltre al Maestro empedoclino): Nino Vetri, che ha da poco pubblicato, proprio con Sellerio, il suo primo libro: Le ultime ore dei miei occhiali. Non è un romanzo, e non è un noir. E' fuori da queste ed altre categorie. Ed è molto bello, soprattutto.
Per Alcamo, è una chance in più, quest'attivismo culturale, che aveva già un punto di forza in Giuseppe Cutino, regista teatrale e direttore di Artisti per Alcamo. E' la conferma che in provincia, talvolta, si può far meglio che nelle città più grandi.
Potrei finire qua, se non dovessi dar conto di una notazione - in tempi di magra per il parastato, un'istituzione che sa d'archeologia come la Pro Loco suscita un Amarcord dell'Italietta alla Fabrizi e Billi & Riva - e di un piccolo appello: perché non la finiamo con l'etichetta dei noiristi palermitani? Sarà pure elegante, il nero, ma non puoi indossarlo ogni giorno, in ogni stagione. Franzetti ha usato la dizione scrittori del mistero. Mi pare azzeccata.

mercoledì 24 ottobre 2007

ANCORA SU EBREI E INQUISIZIONE


Sul Post dell'otto d'ottobre, ho scritto che "L'Università di Palermo ha promosso una bella iniziativa. Le Vie dei Tesori. Ma ha anche perso una buona occasione". (Quella di dar vita ad) "una testimonianza concreta e visibile" (dello sterminio del popolo ebraico che per secoli visse in Sicilia). "Una sorta di Yad Vashem. Anche qui, anche a Palermo. Il Museo dell'Inquisizione progettato dall'Università è un Museo dedicato alla memoria dei carnefici. Mi piacerebbe che, prima di quella, si pensasse alla memoria delle loro vittime".
Su queste ultime due frasi, e sulla perdita di "una buona occasione", ho ricevuto delle critiche, garbatissime ma ferme, da parte di una delle promotrici delle Vie dei Tesori (un'iniziativa che, peraltro, io ritengo complessivamente ben fatta e capace di suscitare altre buone iniziative).
Mi è stato detto: non hai (non ho, ndr) tenuto conto di una conferenza fatta sullo sterminio e sulla cacciata degli ebrei della Sicilia, degli studi che si stanno promuovendo sull'argomento e di un convegno che si terrà nel marzo prossimo.
Faccio dunque pubblica ammenda. Il 13 ottobre si è effettivamente tenuta una conferenza sul tema. Una dei due relatori ad un incontro battezzato "I segreti dell'Inquisizione", Maria Sofia Messana, si è soffermata sulla questione. Però. Io ho scritto quel Post 5 giorni prima dello svolgimento della conferenza. E nulla, nel programma delle manifestazioni, lasciava presagire che di quell'argomento la relatrice avrebbe trattato. Così come, nel programma, nulla si dice a proposito di: ebrei, giudei, israeliti, stirpe di Mosé, figli di David, marrani, conversi. Salvo un accenno, più generale, nel tema di un altro dibattito: "Sabato 20 ottobre - ore 19.00 - Cripta delle Repentite: Santi, pentiti, convertiti (Giuffrida, Montanari, Salerno, Torcivia)". I convertiti (ebrei ed altri). I conversos. Non avendo seguito tutti i dibattiti, non sapevo si fosse discusso dell'argomento. In metà di un incontro su 39. Ripeto. Faccio pubblica ammenda.
In più - sia sull'occasione perduta sia sul tema: Il Museo dell'Inquisizione o delle vittime dell'Inquisizione? - vorrei aggiungere. Si è sempre parlato, finora, a proposito della destinazione futura dell'edificio annesso al palazzo che fu della "Santa Inquisizione", lo Steri (e cioè delle "Carceri della Santa Inquisizione"), della volontà di dar vita ad un "Museo dell'Inquisizione". Con semplificazione giornalistica, certo. Mai smentita, però.
Proponevo che - con un "Museo delle vittime dell'Inquisizione", e con l'arbitraria esaltazione di una parte della più complessa storia dell'Inquisizione medesima: la vicenda ebraica - si raccontasse la vicenda di quella Comunità laddove resiste ancora qualche segno della sua presenza. Gli altri segni, a Palermo, sono stati doviziosamente cancellati: le case, le botteghe, le sinagoghe.
Preciso pure ciò che dovrebbe esser chiarissimo (il malinteso è sempre in agguato). Con la frase "Il Museo dell'Inquisizione progettato dall'Università è un Museo dedicato alla memoria dei carnefici" volevo dire solo quel che avevo scritto: un Museo "dell'Inquisizione" è dedicato all'Inquisizione, e dunque alla sua storia (orribile), ai suoi metodi di persuasione (diabolici), alla sua intenzionale volontà di sterminio. Non attribuivo pertanto a questa volontà di dedicarlo all'Inquisizione, alcun significato che non fosse quello sano e condivisibile d'indurre alla ripulsa morale i visitatori.
Il punto è: mi sembra uno spreco.
Avevo chiesto che si privilegiasse la memoria delle vittime non per un'oziosa disquisizione nominalistica (del genere politically correct), bensì per rimediare, sia pure con gravissimo ritardo, ad un'antica colpa della nostra Comunità (di Palermo e non della sola Università): la cancellazione della Catastrofe, della Shoah, che nella nostra terra colpì la Comunità ebraica: la ghettizzazione prima, e lo sterminio o la cacciata di chi restava, poi.
Nelle nostre scuole, di questo non si parla. Sappiamo degli arabi, dei normanni. E più indietro, dei fenici e dei romani. Più avanti, dei francesi e degli spagnoli. Qualcosa sappiamo a proposito dei bizantini. Ma degli ebrei? Delle città ebraiche fondate in Sicilia? Salemi non vi ricorda forse Shalom? E sappiamo forse della convivenza tra arabi ed ebrei? E del declino di quello spirito, che indusse a formidabili atti di violenza, e d'indifferenza?
L'occasione di ricordare è persa, se è persa, dall'intera Comunità di Palermo, ancora una volta. La mia proposta, però, testardamente, resta in piedi: un Museo delle vittime dell'Inquisizione, che racconti, attraverso ciò che è raffigurato dentro quel Palazzo, quel che avvenne fuori, tra le strade e i vicoli della città, a Palermo e a Trapani e altrove in Sicilia.
La nemesi è in questo. Nel luogo che servì a cancellare, sono rimaste le ultime tracce di ciò che si voleva rassegnare all'oblìo.

lunedì 22 ottobre 2007

IL CORAGGIO DELL'OCCIDENTE


Ci vuol coraggio, per provare a guardarsi intorno con una certa onestà intellettuale.
Il Presidente iraniano dice che Israele, "l'Entità", va cancellata.
Il rappresentante iraniano ai negoziati internazionali sull'atomica si licenzia (su richiesta che dall'alto arriva, immaginiamo), perché troppo moderato.
Gli esperti dell'Aiea sostengono che tra 5, 8 anni al massimo, l'Iran avrà la sua atomica.
Gli Stati Uniti non vogliono rimanere alla finestra, e studiano un attacco convenzionale dall'alto (bombardamenti), ultimo passo prima della guerra sul terreno.
E così, con l'aggiunta dell'Iran dilagherebbe quel conflitto che già oggi coinvolge Afghanistan, Iraq e Siria (forse pronta al gran passo, per via dell'entente con l'Iran svelata da Israele e del primo atto di guerra sul suo territorio: il bombardamento di siti nucleari proprio da parte di Israele).
Un allargamento che rischia di coinvolgere altri Paesi - dalla Turchia all'Egitto - e di destabilizzare ulteriormente paesi più piccoli ma non meno importanti, Arabia Saudita in testa.
Ci vuol coraggio a restar tranquilli, mentre si studia - a Washington, Mosca, Pechino, Teheran, Damasco, Ankara, Il Cairo - sullo svolgimento di una possibile Terza Guerra Mondiale.
Non son tra quelli che difendono i cattivi - Ahmadinejad, i Talebani, Osama e Al Qaeda - e se la prendono con l'Occidente e le sue colpe coloniali ed imperiali.
Ma, per la miseria, vorrei che fosse tutto un brutto sogno.
Non c'è un luogo in cui ragionar di queste cose: l'Onu è preda di interessi oscuri e trasversali, e non vi è diplomazia che tenga, dinanzi alla scommessa folle di alcuni, dico di Cina e Russia, innanzitutto, di far saltare il banco e prender tutto il piatto, costi quel che costi.
E così, nel bel mezzo di questo caos, la Russia annuncia il riarmo, la Cina sostiene il regime assassino della Birmania, ed entrambi impediscono ogni pressione sui fondamentalisti islamici che costituisca un'alternativa alla guerra.
Negli Stati Uniti, infine, è bene cominciare a dircelo, si son commessi errori, si son dette bugie, si son fatte immonde speculazioni.
La risposta? Sarebbe l'Europa, se fosse in grado di darsi un'autonoma politica estera (forse con nuove istituzioni comunitarie), e se fosse in grado d'intrecciare nuove e inedite alleanze, a partire dal continente africano e da quello asiatico; se fosse in grado d'indurre il nostro sistema occidentale, Europa e Americhe, ad un'effettiva apertura alla collaborazione sui temi autentici della cooperazione allo sviluppo sostenibile.
Non è populismo. E' buon senso.

sabato 20 ottobre 2007

SALVIAMO I BLOG


Nessuno può dire che un altro è un ladro o un assassino: a meno che quello non lo sia davvero, e che ciò non risulti da una sentenza passata in giudicato.
Nessuno può insultare il prossimo, denigrarlo, provocargli un danno esistenziale, o economico: a parole, su carta, su un Blog.
E dunque, che servano delle regole e delle responsabilità è fuori discussione.
Quel che davvero non va, nel disegno di legge del governo sulla registrazione dei Blog come testate giornalistiche, è la previsione di norme autorizzazioni procedure.
Il fatto è che il Blog si costruisce semplicemente: si progetta, si monta, si arricchisce quotidianamente.
In Italia come altrove, l'autore è solo dinanzi al suo computer.
E in Italia, far qualcosa in modo semplice è davvero un fatto eccezionale.
Se ci si dovesse scontrare con la Burocrazia, sarebbe la fine d'ogni entusiasmo.
Il Blog è l'ultimo spazio di libertà che ci è concesso: non dall'arroganza dei politici (che hanno tante armi per ridurre qualcuno al silenzio), bensì dall'inerzia del burocrate.

giovedì 18 ottobre 2007

SCRITTORI DEL MISTERO


Bisogna portarsi appresso i propri oggetti incompresi, ciò che per la strada abbiamo raccolto senza averne intuito il senso o l'utilità.
Così, l'estate scorsa, è capitato d'inciampare in una polemica sul tradimento degli scrittori "noir" palermitani: della loro città.
Molto di buono è giunto da quell'oggetto incompreso.
C'è un documentario, di Floriano Franzetti e Chiara Lo Cascio, che opportunamente è stato dedicato agli Scrittori del Mistero: palermitani, di nessuna scuola, e di nessun tradimento.
Dal quale, ricavo che vi è almeno un fraintendimento visibile, orbitante intorno a quell'oggetto incompreso.
Se si debba scrivere "per" qualcosa, o "di" qualcosa.
Doris Lessing afferma che nel dar vita ad un Manifesto Politico, si uccide il romanzo.

In Friendly Fire c'è il sito della società di produzione di Franzetti e Lo Cascio, La Tulipe Noire.

ABBIAMO BISOGNO DI EROI?


Ci sono delle frasi che per la loro apoditticità mi hanno sempre attratto.
Ho girato loro intorno, come un'ape sul favo.
Mi sono avvicinato loro, provando a scovare un appiglio logico, un barlume di contraddizione ed una luce che la risolvesse: giacché la perfezione del ragionamento è nel superamento della contraddizione, e non nella sua assenza (il resto è Fede).
"Felice la terra che non ha bisogno di eroi" è una di quelle frasi: Bertolt Brecht la introduce in un dialogo della sua "Vita di Galileo".
Suggestiva.
Oscura.
A me ha sempre fatto pensare ad una "Terra" grigia, priva di emozioni, di vittorie eroiche, per l'appunto, del Bene sul Male: mi pareva che dietro la sparizione di quel conflitto, incarnato da eroi ed anti eroi, si nascondesse la scomparsa dei principii che quegli antagonisti incarnavano.
Ci penso ogni qual volta m'imbatto nelle nostre paurose definizioni della Paura.
E mi dico: fortunati noi, per i nostri eroi.

lunedì 8 ottobre 2007

EBREI E INQUISIZIONE, A PALERMO



L'Università di Palermo ha promosso una bella iniziativa. Le Vie dei Tesori.
Ma ha anche perso una buona occasione.
Sono stati restituiti ai cittadini luoghi e testimonianze della loro storia. Tanti e accurati sono stati i restauri.
Nella corte del Palazzo Chiaramonte, dello Steri, sorge una costruzione che fino al secolo scorso allo Steri era collegata: in quel complesso, l'Inquisizione aveva avuto il suo tribunale e le sue prigioni.
Una scala, ed era quella di Cisneros (ne scrive Sciascia, nel suo Morte dell'Inquisitore), conduceva dall'aula delle udienze alle celle.
Le mura delle celle conservano ancora alcuni dei graffiti e dei disegni lasciati dai tanti prigionieri che le occuparono: i colori si devono all'urina, allo sperma, alle feci, al sangue, e a quel poco che i prigionieri potevano comprare dai loro aguzzini.
Ai ritrovamenti commentati da Giuseppe Pitré, se ne sono ora aggiunti degli altri.
Tanti dei prigionieri erano colpevoli della loro fede. Erano ebrei, o conversi (conversos); parte di quella ricca e dotta comunità che a Palermo fiorì insieme agli arabi, ai bizantini e ai nativi. E in Sicilia, v'erano città che contavano in decine di migliaia gli ebrei.
In quei segni, tracciati faticosamente sugli intonaci, c'è una parte di quella storia sanguinosa, che a Palermo è stata rimossa, e non solo con la demolizione della nostra Giudecca (dalle parti di via del Giardinaccio) e delle tante Sinagoghe (solo di una citazione, contenuta nel disegno architettonico dell'archivio storico, siamo debitori: a Damiani Almeyda).
L'editto del 1492 venne qui ritardato, nella sua concreta attuazione. Poi, anche a Palermo, si compì la cacciata degli ebrei.
Credo che si dovrebbe ricordare quella parte della nostra storia. Con una testimonianza concreta e visibile. Una sorta di Yad Vashem. Anche qui, anche a Palermo.
Il Museo dell'Inquisizione progettato dall'Università è un Museo dedicato alla memoria dei carnefici.
Mi piacerebbe che, prima di quella, si pensasse alla memoria delle loro vittime.

SCIASCIA, STENDHAL, NAVARRO


A proposito di Leonardo Sciascia, avevo scritto: "Tra la terra e il cielo, tra il Mistero e la Luce, Sciascia non ha mai scelto per davvero. E in questa contrapposizione, in questa dialettica, ha scritto del suo meglio.
Se proprio dobbiamo celebrar qualcosa, è il funerale del nostro rimpianto: di un intellettuale capace di tagliare ogni nodo, con una spada.
"A Sciascia, che scrisse di molte eresìe, siamo debitori, in fondo, di una sola grande lezione, che potremmo sintetizzare così, con parole nostre: Non c'è Ragione senza Memoria. Nella conoscenza di quel che è stato, e nella libertà, che un autore può concedersi, di plasmar la storia, è la comprensione del presente".

Ora, sono trascorsi pochi giorni, nell'introduzione di Natale Tedesco alle "Storielle siciliane" di Emanuele Navarro della Miraglia (pubblicate da Sellerio nella Collana "Biblioteca siciliana di Storia e Letteratura"), leggo un giudizio di Navarro su Stendhal (e Tedesco lo giudica adattissimo allo stesso Navarro): "Pretendeva di agire secondo i dettami della ragione, ma fu perennemente dominato dalla fantasia e fece ogni cosa per entusiasmo".

La frase s'attaglia a Sciascia come a Stendhal e a Navarro. E fra i tre c'è un filo robustissimo. Tutto si tiene, come sempre.

giovedì 4 ottobre 2007

I FUNERALI DEL NOSTRO RIMPIANTO


Pensavo che fosse oramai giunto il tempo di celebrare i funerali di Leonardo Sciascia: quelli del Mito, dopo quelli dell'uomo. E lo pensavo da lettore di Leonardo Sciascia. Il Contesto, per spiegarmi meglio, ritenevo fosse stato spogliato, con gli anni, di quel contesto culturale (e politico) che lo aveva reso assai provocatorio nei confronti dell'establishment comunista, e democristiano a ben pensarci (oggi diremmo Casta), e che pure l'aveva reso comprensibile, agli occhi dei lettori. E su quel filone, ritenevo fossero incastonati anche altri scritti: giornalistici, per lo più.
Pensavo che occorresse recuperare l'altro Sciascia, ancora vivissimo: quello, anzitutto, de Il Consiglio d'Egitto (e dell'arabica impostura dell'Abate Vella, che, se non fosse stata struccata dall'austriaco Hager, avrebbe forse comportato la fine anticipata del latifondismo nell'Isola); e quello delle Parrocchie di Regalpetra, di Nero su Nero, del Giorno della Civetta, delle Feste Popolari: lo scrittore terragno, legato alle tradizioni profonde della Sicilia, a danno del pamphlettista ipocritamente rimpianto (ad ogni cantone di giornale, fino a pochi anni fa).
Lo pensavo, e lo penso ancora. Tra l'imperfetto ed il presente, però, c'è un frammento, che impedisce a quel pensiero di girar bene come dovrebbe: il frammento di un diverso ragionamento, scacciato, per affetto, e rientrato a forza.
Tra la terra e il cielo, tra il Mistero e la Luce, Sciascia non ha mai scelto per davvero. E in questa contrapposizione, in questa dialettica, ha scritto del suo meglio.
Se proprio dobbiamo celebrar qualcosa, è il funerale del nostro rimpianto: di un intellettuale capace di tagliare ogni nodo, con una spada.
A Sciascia, che scrisse di molte eresìe, siamo debitori, in fondo, di una sola grande lezione, che potremmo sintetizzare così, con parole nostre: Non c'è Ragione senza Memoria. Nella conoscenza di quel che è stato, e nella libertà, che un autore può concedersi, di plasmar la storia, è la comprensione del presente.

sabato 22 settembre 2007

DIARIO DI UNA ESCORT


Sono una persona per bene, cosa credi? Vivo in affitto, risparmio e non fumo. Mai passata con il rosso. Non ho nemmeno la macchina! Pagherei pure le tasse, se potessi. Tutte quante. Dalla prima all’ultima lira. L’ho chiesto, una volta, a un politico. Fai una bella legge, con i tuoi amici, per farci pagar le tasse. Lui mi ha guardato come fossi diventata scema e si è messo a ridere. Un sorriso stretto stretto. Misurato. Preoccupato. Se tu paghi le tasse, mi ha detto, devi indicare chi ti ha pagato. Devi rilasciare una fattura, tenere un registro contabile. E se vuoi allargarti, metti un’insegna per strada e i fotografi si piazzano con il coso, con il treppiede, dall’altra parte del marciapiede. Con le telecamere. La tua faccia diventa quella di una professionista. Tipo in America. La squillo dei vip. E la mia, diventa la faccia di un cliente, sui giornali, insieme alla tua. Io non ho voglia di esser fotografato, messo in copertina come uno – scusami tanto, neh? – che va a puttane. Tengo famiglia. Niente scandali. Un tipo onestissimo, però. I suoi soldi, lui come tutti gli altri, me li dà in contanti.
Mille, 2 mila euro. La tariffa è di 5 mila, per un week-end lungo. Pagati da venerdì a domenica, quest’anno, in un albergo svizzero. In montagna, sulla neve. Come due ricchi stronzi. Fuoristrada a noleggio e abiti sportivi. Quando è successo, l’amico, uno di quarant’anni, mi portava in giro, mi pagava per la mia faccia, la mia classe, i miei occhiali da sole a specchio, e per gli sguardi invidiosi della gente, sulle piste. Per la carrozzeria. Niente robaccia, bello, è tutto naturale. Mi pagava anche per il sesso, naturalmente. Io ero a disposizione, quando gli faceva comodo, in camera. Una camera doppia: la suite costava troppo. Al mattino, doveva essere una specie di caccia grossa. L’orso all’attacco e io che scappavo via, terrorizzata. Dopo pranzo, a parti rovesciate: una cosa lenta, passiva. Io a far quasi tutto. La sera era totalmente sfinito. Un colpo e via. Stanco morto.
Io, invece, non me la posso permettere, la stanchezza. Ho un istruttore personale, in palestra. Il trainer. Lo pago, lo so io quanto, per mantenermi elastica. Lui non sospetta nemmeno che il mio secondo lavoro sia quello più importante. Non sa neanche che ce l’ho, un secondo lavoro. Gli piacerebbe scoparmi gratis. E anche a me piacerebbe. Ma dovrei smetterla con la fitness. E lui, il ragazzo, è davvero bravo a farmi sudare. Un’ora al giorno che non si regge… Per lui, sono la signora Tal dei Tali, nel commercio. Una che ha un sacco di soldi.
In palestra non ho mai agganciato. E per la verità, io non aggancio mai. Non per lavoro. Ma è in palestra, sugli step e sui tapis-roulant, che ho conosciuto il mio fidanzato. L’ultimo: 32 anni, scolpitissimo. Un destino da avvocato, stabilito da due generazioni: dal nonno e dal papà. Solo che lui ha lasciato casa e ora fa l’agente immobiliare. Guadagna da far paura. Uno squalo bianco.
Ci vedevamo nei fine settimana. Liberi cinque giorni su sette. Intesa perfetta. L’ho lasciato un anno fa, quando stavo per dirgli tutto: gli avrei chiesto di decidere. Poco prima, avevamo avuto una piccola conversazione. Parlavamo di donne e di uomini. Di donne che si fanno campare e degli uomini che le campano. Parlavamo di una donna molto bella, che ha un solo cliente: uno famoso, più vecchio di lei di trent’anni. I due si sono sposati. Hanno anche fatto un figlio. Il mio fidanzato ha cominciato a scherzarci su. Poi ne ha dette un paio che mi hanno fatto star male. Niente moralismi, ha detto, non siamo mica all’oratorio… Ha fatto tutto un giro di parole per dire che lei aveva tutto il diritto di salire sul banchetto e lui di comprarsela all’asta. Ho pensato che non avrebbe retto alla rivelazione: era fatto in modo diverso da come me lo ero immaginato. La scorza era troppo dura. La polpa doveva essere troppo morbida. Per forza.
Se gli avessi detto tutto, sarebbero state lacrime. O insulti: più probabile. Ho fatto finta di niente e 15 giorni dopo, gli ho telefonato e gli ho detto che non provavo più niente per lui. Eravamo stati insieme per tre mesi. Abbastanza… L’ha presa bene. Andrà avanti così. Senza impegno. E tra vent’anni, quando si sarà stancato del tran tran, se ne troverà una con la metà dei suoi anni. Sicuro.
Non si piange. Sono io che ho scelto. E ho fatto bene. Un’ora dopo la telefonata, ho preparato una borsa, ho chiamato un taxi e sono andata in treno fino a Bologna. Ho viaggiato in prima classe. Lì fanno ancora a gara ad alzarsi per cederti il posto.
Ho un altro amico, lì a Bologna. Uno che lavora in campagna. Un bel tipo da pubblicità, da manifesti all’Autogrill. La faccia allegra e tutto il resto. È uno che vende salumi in mezzo mondo. Roba di qualità. È uno che sa scegliere bene. Ha due ex mogli, tre figli, un pochinino di pancia ma niente di grave, una Maserati, una villa in collina e una villa al mare. E poi, dulcis in fundo, ha me. Che non è poco, se vuoi. Siamo stati a cena con un paio di suoi amici, una coppia malissimo assortita, a festeggiare i suoi 52 anni. Pensavo che lei fosse lì come me, a lavorarsi il tizio. Poi, non appena i due hanno cominciato a parlar di soldi e di affari, di vecchie case e buone occasioni, il mio amico ha tirato su la mano: «Ohi, ma siete scemi? È il mio compleanno. Mica una riunione». E quelli hanno fatto finta di offendersi. Poi, lei ha tirato fuori dalla borsetta di Prada una busta, con una fotografia in bianco e nero. «Guarda che la casa è questa» gli hanno detto. E lui è rimasto a bocca aperta. «Noi abbiamo cacciato l’anticipo. Il resto devi mettercelo tu. Buon compleanno». Sai cos’era il regalino? La casa dov’era nato il mio amico, quella dei suoi genitori. Erano anni che tentava di comprarsela, come in un film. E loro, c’erano riusciti. Una roba americana. Carramba che sorpresa!
Abbiamo passato la notte a ricordare. Sua madre, suo padre, i suoi fratelli. Non proprio tutta la notte, per la verità. Prima si era messo a giocare. Giochi da ragazzini. Chissà cosa gli era tornato in mente... Un gran porco, però. Porco come i suoi porci. Simpatico da far paura. Poi, mi ha raccontato della sua famiglia. Al mattino, mi ha riaccompagnato alla stazione centrale: 1.500 euro in contanti e un bacio in fronte. Ho temuto d’essermi giocata un amico. Una specie di conversione, una roba religiosa. Mi ha richiamato dopo tre giorni, per fortuna. Diceva che ne aveva già le scatole piene, del restauro della casa di mamma. Voleva andare in vacanza, in Africa, a Natale. Con me, che già conoscevo un poco il continente. Tariffa piena. Per le spese, nessun problema. Copriva tutto lui. Viaggio, vitto, alloggio, extra ed escursioni. Un vero signore. Si è sposato per la terza volta, adesso. E mi ha scaricata. «Sai com’è» mi ha detto. «Metto la testa a posto». Se avessi un commercialista anche per questo lavoro, starebbe ancora piangendo.
Io viaggio moltissimo. In aereo, per lo più. Ho una Millemiglia stracarica di punti. Viaggio anche sugli aerei privati. Un mio amico, un grassone francese, uno del cinema, una canaglia, ne ha una piccola flotta. Un jet e due vecchi aerei a elica. Vecchi è solo un modo di dire. Sono due aerei di lusso: pelle e radica di noce dappertutto.
Niente alcol. Mai. E niente droga. La cocaina e le altre schifezze. Le pillole. Devi essere sempre all’altezza. Guardare lontano. Il mio è un lavoro pulito. Il guantino e il medico non bastano. Servono solo a evitarti una malattia tra dieci anni. Tutto il resto, quello che paghi subito, lo sputtanamento, è roba di un attimo. Basta passare per una che cerca di guadagnarci a ogni costo. Basta perdere la classe. Gira la voce e i clienti ti evitano come se avessi la lebbra. Ogni tanto sparisco, per un po’, e una volta su due non rispondo al cellulare. È una cosa volgare farsi trovare sempre a disposizione. Come rifarsi con il silicone. Da disperate. Meglio una ruga che un canotto.
Sparisco, quando non ne posso più. Metto la segreteria telefonica. «Sono fuori. Se vi va, cercatemi tra un mese. Non lasciate un messaggio». C’è un posto dove vado sempre e non mi conosce nessuno. Ho una casa piccolissima, da due anni. Tre stanze, un caminetto e una mansarda. È la mia casa. Quella dove riesco a dormire fino a tardi, a far la spesa, e a cucinare. Ci tengo i miei quadri. Un patrimonio. E i miei libri.
Quali libri leggo? Roba triste. Vecchia. Non ti dico Carolina Invernizio ma quasi quasi. Sono una romantica. Non mi credi? Basta vedere quanto amo la mia casetta. Era un rudere, quando l’ho trovata, su internet. Volevo comprar qualcosa e l’ho trovata a 3.500 chilometri da Milano. L’ho rifatta pezzo per pezzo, piano piano. Una rompiscatole, con l’impresa: pagavo in contanti, volevo il massimo. Le cose, i mobili, i piatti, la biancheria, li ho comprati là vicino, a due lire. È lì che andrò a vivere, tra qualche anno. Ci andrò a passare la pensione. Conosco già tutti. E loro non conoscono me. Non completamente.
Qui non ho nessuno da salutare. I miei amici, certo. Ma sapranno consolarsi presto, senza di me. Il mercato è sempre in fermento. La mia famiglia? Sono una figlia unica, e i miei genitori sono morti, tempo fa.
Che cos’altro vuoi sapere? Come ho cominciato: ci scommetto. È la curiosità di tutti quanti. I primi cinque minuti sono sempre dedicati ai complimenti e alla confessione. Cinque minuti imbarazzanti. «Sei fatta bene. Ma com’è che hai fatto? Sì, insomma, a far questo mestiere, la escort?». E io, tranquilla, per non mortificarli, gli rispondo che la Escort, per quello che ne so, è una vecchia macchina, orrenda, da due lire, di periferia. Io, invece, sono una gran signora. Una spider di lusso, che così belle ne vedi solo a Portofino, a Monte-Carlo. Un’Aston Martin. L’hai mai vista un’Aston Martin, da vicino? Se la sfiori, la capisci subito la voglia di saltarci addosso, a una macchina così.
Facciamo che è andata così. Ero in vacanza, un’estate, in una città sull'Adriatico, per caso, con tre amici. Tre ragazzi. In tenda. Una sola tenda. Ambiente molto promiscuo. La sveglia tardi. Un panino. I pomeriggi al mare. Niente ombrellone e sdraio, che costavano una cifra, già a quei tempi. Si stava sull’asciugamani a scottarsi, senza crema. E poi la cena, con la pizza, su una panchina, e alla fine, la discoteca: fino al mattino dopo. Una vita da animali. Da infarto.
Dopo una settimana, i ragazzi hanno litigato. Se le sono date di santa ragione. Calci e pugni. Senza una ragione apparente. Erano gelosi, immagino. Di me. Sono scesa dalla macchina e sono entrata in un bar. Ho chiesto di telefonare. In quel cesso di bar, davano tre stanze a pensione. La padrona, una bionda rifatta alla meno peggio, ha ascoltato la mia telefonata. Ha cominciato a farmi domande. Le ho raccontato tutto. Mi ha lasciato stare per due giorni. Centomila lirette in tutto. Le ultime. Quando alla Posta sono arrivati i soldi dei miei, sono tornata a casa, in treno.
L'anno dopo, la signora mi ha proposto un lavoro estivo. Vacanze gratis in Riviera. Lì ho incontrato uno. Mi ha aspettato fuori, fino alla fine del mio turno, e mi ha portato in giro. Ho passato con lui la notte che immaginavo e al mattino mi ha lasciato un regalino: il mio stipendio di un mese. Ho riso e pianto. Mi sentivo Pretty Woman. Mi era piaciuto. E ci avevo pure guadagnato. Senza sentirmi in colpa. Dopo una settimana, la signora ha capito e mi ha messa alla porta. Lui mi ha subito preso una casa in affitto. Insomma, è stato l'inizio e la fine di tutto. Lo sbaglio e la lezione. La lezione era che non c'era niente che io non potessi fare. Lo sbaglio era pensare che quel che avevo fatto, l’avrei potuto fare sempre.
Con quello lì è durata abbastanza. Aveva moglie e figli. Una famigliola esemplare. E un sacco di soldi da spendere in allegria. Non me ne sarebbero capitati tanti di quegli uomini. Anche se ho un privilegio, io: posso scegliere, non è che vado per strada a battere. Sono una professionista.
Vuoi che ti dica una cosa vera? Vado ai materassi con degli sconosciuti, a volte. Molto raramente. E se non mi piacciono, sparisco. Se mi richiamano al cellulare, rispondo con una scusa, o non rispondo proprio. Ho un giro piccolissimo, e controllato. Niente alberghetti miserabili. Niente serate al ristorante per far casino. E non c’è una sola foto mia su internet. E sì che ci ho pure il book.
È di quando pensavo a far la modella. Le passerelle, le fotografie. Un sogno da ragazzina. Mica avevo illusioni, però. Sapevo già come andava il mondo. Avevo fatto le mie esperienze. Pensavo che con il mio personale e con due salti sul divano, avrei pure potuto farcela. Un mese dopo, ho mollato. Mi avevano fatto fare il giro delle case, ed era tutto un gira gira di ragazze a dieta, con il naso rifatto e le narici infiammate. Mi è rimasto solo il book. In un cassetto. Ma sono rimasta una modella, per un po’. Fa tanto per l’immagine. È l’etichetta che fa il prezzo: il trucco e il bel vestito. Non quello che c’è dentro.
Lavoro all’antica: contatti diretti. Telefono. Mai avuto un uomo, un protettore. E nemmeno un agente. Si fanno chiamare così, adesso, ma la sostanza è sempre quella.
Di filmetti, non ne ho fatti mai. Non so se mi piacerebbe. Un amico avrebbe voluto presentarmi a un suo amico: una specie di produttore, diceva. Mi ha raccontato di certi film che non finiscono nei pornoshop o nelle edicole. Film che si vendono a migliaia di euro. Per un solo cliente. Il protagonista. Ho detto di no. Non mi era piaciuto, il lavoro. Non avevo capito se glielo dicevano, prima delle riprese, al cliente, che era il protagonista di un film, e quanto doveva pagare per avere l’originale. Hai capito di cosa sto parlando? Era un giro di quelli pericolosi. E io non ho voglia di far la pedina di qualcuno. E così, ho salutato l’amico. «Non m’interessa il settore scandali» gli ho detto.
Va tanto, per ora. Lo so bene. Va sempre bene. Vuoi sapere cosa penso della signorinella pallida che stava per restarci secca col deputato? Semplice: è lei che ha torto. Torto marcio. A parte la coca, che, se è quello lì che l’ha portata in stanza, lei poteva pure rifiutare. E poi, se ci fosse un albo professionale, la signorina sarebbe da radiare di botto: non per la droga, chi se ne frega… Il fatto è che non si parla mai dei clienti. Mai, mai, mai. Negare sempre. È parte del contratto. Figurarsi se si possono dare i nomi, i numeri, i soldi. Alla polizia. Ai giornali.
E poi, ho un’altra regola: lavoro con un cliente alla volta. Uno che mi guardi negli occhi. Ho detto no anche alle mogli e alle amichette. Si fa in due e stop. E senza macchine fotografiche né telecamere. Cosa mi piace? Mi piace quello che faccio. Mi piace il piacere. Piacere e provare piacere. Non è solo godere.
Ci sono due modi per fare del sesso come si deve. C’è quello dove siamo perfetti in due. Vedi la mia pelle? La senti? Seta. Cotone. Velluto. Niente smagliature. Niente grasso, rotolini. Niente cellulite. Quanti uomini conosci che possono dire la stessa cosa? Sono pochi. E sai cosa? Sbagli di grosso se pensi che gli uomini perfetti non vanno mai con una puttana. Con quel genere di uomini, io devo entrare in competizione. E sono io che perdo, per dovere professionale, anche quando posso vincere facilmente. Faccio finta, capito? Il copione è sempre quello. Facciamo a chi si stanca prima. Una scopata occidentale. Oppure, niente scopare. Guardare. Sognare. Straparlare. Qui ci sarebbe da scrivere dei bei libri… Che tenerezza!
Poi, ci sono gli uomini che se ne fregano dell’aspetto fisico. Non è che diventano dei mostri. Ma non seguono diete tibetane e non fanno dieci chilometri di corsa al giorno. In questo caso, io devo dare il meglio di me. E tiro fuori lo spirito orientale. Yoga. Un uomo che si scopre capace di una resistenza di un’ora, e che un’ora dopo lo rifà, è un uomo che improvvisamente torna a essere sicuro di sé, felice. E io, per loro, per i miei amici, sono una vera artista. Impagabile.
Per capire queste cose, non devi studiar molto. Devi solo rallentare. Il ritmo cardiaco, il respiro. Devi capire che le cose per andar bene, devono solo andare più lentamente. Ma gli uomini lo hanno dimenticato. E sai perché? Hanno impiegato migliaia di anni per farsi di coccio. Di pietra. Un poco alla volta. Vale per tutti, il discorso. Se vai più lento, dopo un po’, capisci di cosa sto parlando. Se vai più lento, e osservi con attenzione chi ti sta di fronte, o sotto, o sopra, capisci cosa sta pensando il tuo amico, o la tua amica. Capisci di che cosa ha bisogno. Cose che magari non ha mai trovato il coraggio di confessarsi. E godi di più. Ovviamente. Si dice riportare a lamiera. Io faccio questo. A richiesta. Riporto gli uomini a lamiera.
Sono nata al Sud. Nata lì e dopo due anni, via. Ma sono proprio un’altra persona, adesso. A parte la scuola, l’ambiente, è la Riviera che ti smonta e ti rimonta. Ed è lì che ho fatto gli anni duri, d’estate. Si parla chiaro, da quelle parti. E impari che d’oro, il tesorino, non ce l’ha nessuna. Te lo spiegano che hai 14 anni. Dopo l’estate al bar, non sono più tornata. Non definitivamente, voglio dire. Ho fatto la barista, la fattorina, la commessa. E mi sono iscritta a un corso di gestione alberghiera. Due anni, tutte le mattine. Lavoravo, studiavo, e arrotondavo: con quel tizio. Poi, è finita. Quando doveva finire. Io, nel frattempo, avevo messo da parte un tesoro. Il corso prevedeva di far pratica. Mi è toccato un piccolo albergo. Facevo quel che il titolare mi diceva di fare: lui dava le indicazioni generali, e io pensavo al resto. A bottega. Fino all’esame finale. Dopo tre mesi, il titolare dava retta più a me che al suo socio. Dopo sei mesi ero ancora lì, stipendiata. Per quel che facevo nella sua stanza, sul divano, sulla scrivania.
Mentre stavo con lui, lavoravo con altri amici. Poi, ho aperto un bar tutto mio. Avevo finalmente una copertura. E potevo cominciare a spendere quel che guadagnavo.
Se ho paura che possa succedermi qualcosa? No. Devo solo stare attenta. Anche alle cose che sembrano senza importanza. Ti faccio un esempio, per capire. Una volta ero stata a cena con un amico. In casa di amici suoi, con tanta gente. Uno ha capito la situazione. Dovevano esser state le abitudini del mio amico, a incuriosirlo, certe sue vecchie storie. I raccontini da maschi. Per farla breve. Qualche settimana dopo, a una festa, in un locale frequentato da amici (altri amici, non di letto), ho incontrato il furbo, quello che aveva capito tutto. E lui ha subito iniziato a farmi la corte. In modo discreto ma insistente. Mi ha divertito. Mi ha fatto ridere. A un certo punto, però, ho visto che parlava con un altro tizio. Il tizio ha cominciato a fissarmi. Io ho smesso di ridere. Ho preso la mia borsa e sono scappata via.
Non mi metto in mostra, in vetrina. Pensavo che quei due avrebbero diffuso la voce, e che il mio quasi anonimato fosse oramai prossimo alla fine. Mi ha preso una gran paura. Il furbo mi ha chiamata al cellulare, l’indomani. Aveva capito perché ero andata via così in fretta. E voleva scusarsi. Aveva detto al suo amico, che era arrivato in macchina con lui, che sarebbe stato meglio se si fosse trovato un passaggio, per tornare a casa. E quello aveva capito: la ragazza di fronte, seduta al bancone, da sola. Il furbo ha chiesto di vedermi. Io gli ho detto di sì. Per rassicurarmi. Mi sembrava una persona perbene. Uno giusto. E poi, ho cominciato a vederlo con regolarità.
Ma se fosse stato uno scemo… Rischiavo di cambiar mestiere. Perlomeno. Di paura vera non ne ho mai avuta. Non per questo lavoro. Devo dire tanti no. Stare sul chi vive. Il mio è un giro niente da ridere. Di gente coi soldi. Di gente che vive in un modo che neanche si immagina. Tante volte, quello che vedono i miei occhi e sentono le mie orecchie è roba top secret. E io me ne dimentico in fretta. Sono come un medico: il paziente prima di tutto. E poi, mica posso mettermi a rovinar dei bravi padri di famiglia.
La polizia o la Benemerita, poi, non possono contestarmi nulla. Decido di me come mi pare. Le Fiamme gialle mi preoccupano un po’ di più, sinceramente. Ma io vorrei pagar le tasse. Cosa credi? E più di tutto, ho paura dello sputtanamento. Ho un sistema. Chi vuole stare con me deve chiedermelo direttamente, senza intermediari, e deve dirmi il nome e il cognome dell’amico che lo manda. Io dico che ha sbagliato, e chiudo. Se mi garba, faccio un controllo, e se va tutto bene, allora se ne riparla. Tutti garantiscono per tutti. Una catena di Sant’Antonio. Posso sbagliare, certo, ma finora ha funzionato.
Vuoi sapere come funziona? Praticamente? Della richiesta di appuntamento, sai tutto. Mi vesto morbida. Niente di appariscente. Tutto a finire sopra il ginocchio. Tengo gli occhiali. E sono pure veri. La perversione della segretaria, no? Ho un paio di gradi in meno.
Mi piace che quando ci vediamo per la prima volta, sia tu a inseguirmi. Parlo poco. Ti guardo, di sfuggita. In modo che tu te ne accorga, ovvio. Ti seduco. Come se mi piacessi davvero. Santo cielo, potrebbe anche capitare... Mi aspetto che sia tu a provarci. Ti struggi un po’… E alla fine, c’è la giusta soddisfazione.
C’è quello che parla tanto, che finge d’essere uno di mondo, e che parla di figa come se fosse entrato col carrello al supermarket della scopata: a un tanto al chilo, sullo scaffale. Insopportabile. Devo esser brava brava brava. Se capisci cosa penso di te, è finita la magia. E se penso che sei un cretino, addio al contante. E comunque, devo farci il callo. Uno su tre è sempre un cretino. Sempre, t’assicuro. Ho le mie statistiche. Anni e anni d’esperienza…
Se l’atmosfera t’imbarazza un po’, dico io, è pure meglio: è la donna che comanda in queste cose. Se sei tu che resti in disparte, sono io che piano piano devo tirarti fuori del guscio, come un tartarughino. Magari sei stanco di comandare: in ufficio, in fabbrica, a casa tua. Andiamo a cena, generalmente. Senza troppa fantasia.
Ci sono volte, quando siamo fuori, lontani dalle città, che azzardiamo quel po’ di vita normale... E ci scappa pure una passeggiata. Ma sono cose che costano, sai? Paghi tutto il pacchetto. Oppure, si va dritti alla questione.
Niente casa mia. Dove vivo, pensano a me come a una comune mortale. In un buon albergo. O a casa tua. Se ti devo spiegare, è come se ti dessi la chiave della macchina. Perdo il controllo di me. Tu puoi spogliarmi, strusciarti, far quello che ti pare. Senza andare a sbattere, ovvio. Attenti alla velocità. È un’illusione che dura poco. Ricomincio subito a guidare. E se serve, non te ne accorgi nemmeno. Se capisco che può venir fuori una buona serata, che possa piacere anche a me, stai tranquillo che ci metto il sentimento. Il massimo che posso aspettarmi, poi, da una serata, è che piaccia anche a te, e che ti piaccia davvero: se la usi, la fantasia, o se ci abiti, nella tua fantasia. È qui che ci possiamo perdere davvero.
Che cosa c’è di spontaneo nel prendere un appuntamento con due settimane d’anticipo, con una che conosci poco o non conosci affatto? E se arrivi in tachicardia, dopo aver preso la pillolina, il coso, il Cialis, il Viagra, è fatta. È solo fatica di gambe e addominali. Per te e per me.
Sennò, è tutto naturale. Di pilloline, io non ne tengo. Ed è questo il bello. La tua testa, il tuo sangue che circola e che va su e giù, e che finisce da quelle parti. È una gran bella fatica, se hai passato i vent’anni. Io apprezzo la buona volontà, e poi non rischi l’infarto. Ti do una mano. Hai tempo per la battuta. Qualcosa di più. Chiaro. Devi farti un ripasso di tutte le materie, se è roba naturale. Elettricità. A ogni contatto, è una piccola scossa, che finisce da tutte le parti. Il tempo che serve, a far tutto, è poco, se ci pensi. Bisogna dilatarlo, il tempo. È tutto un lavoro di testa. In cinque minuti è una roba da marito e moglie. Un’ora è da professionisti. Con due ore siamo all’opera d’arte.
Prendi il bolognese che ti dicevo prima. Nelle mani ha il ricordo delle salamelle riempite a una a una. Ha due mani, il bolognese, che paiono badili. Una forza che non ti dico. Se io mi perdo, in quelle mani, finisco in una specie di ottovolante. E alla fine, c’è il giro della morte.
Con lo sportivo, in montagna, è una corsa al record. Tensione nervosa e risate da copertina. Anche se poi, nello specifico, ti dà anche soddisfazione. Mica un pivello… E io non sto mica con le mani in mano.
Quanti sono i politici che si servono dalla sottoscritta? Vuoi i nomi? Le abitudini? Gli indirizzi? Passa ad altro. Te l’avevo detto. Niente rivelazioni.
Cosa vorrei fare dopo? Dopo questa parentesi? Intanto, ci vuole un po’ di tempo. Sono messa ancora bene, mi dicono. Me la cavo. E poi, se tra un anno mi capita Richard Gere col mazzo di fiori a far la serenata dalla strada, non so se resisto. Dico davvero.
Faccio il miliardo di Paperon de Paperoni e poi mi ritiro. Pazienza per le tasse arretrate. Vuol dire che farò una donazione. Beneficenza. C’è gente che ha bisogno. Voglio fare un sacco di viaggi. Ne faccio tanti anche adesso. Viaggi di piacere. Ho visto un po’ di mondo. L’America da tutte le parti. New York. Washington. I parchi naturali. La Scandinavia. D’estate. Anche il Polo Nord. Ma mi piace Berlino, più di tutto. È la capitale del mondo. Lì potrei lavorare alla luce del sole. Con il sindacato delle puttane, le ferie e un conto in banca. E se uno scemo si mette a dar fastidio, puoi chiamare la polizia. Non guadagnerei di meno. È sempre il mercato che decide. Se c’è l’offerta, stai sicuro che c’è pure la domanda. A Berlino sono stata tantissime volte. Sai che cosa mi piace? Sono una qualunque, a Berlino. Sulla metropolitana. Per strada. Mi ci vedi nei musei? Quasi non faccio altro, a Berlino. Vado per musei. Poi mi piace Parigi. Mi piace Londra. Vado a comprar vestiti, lì. Gli aerei costano un niente. A Palermo, invece, ci sono stata per lavoro. Mi ricordo l’aeroporto, il mare. E una villa antica, in periferia. Era uno che ci aveva tre o quattro cognomi. Alla fine, mi ha regalato una specie di carta preziossima della sua famiglia. Roba del Quattrocento, almeno. Ce l’ho ancora, da qualche parte.
E poi, l’Africa. Quella nera: ci andavamo con gli aerei e le jeep, e sui camion. E l’Oriente. L’India. La Thailandia. Tutto quello che non finisce sulle cartoline e sui giornali. Le rovine, le baracche, le ragazzine per strada e quelli che partono da Berlino o da Roma a dargli la caccia. Con i dollari in tasca. Sai quanto mi fa schifo questa gente? Sono quelli che vorrebbero dire a me come ci si guadagna da vivere onestamente.
Ecco, voglio viaggiare. Nella mia seconda vita voglio vedere cose nuove. Anche le cose brutte. Mi sento come se avessi imparato tutto quel che c’era da imparare, a far questo mestiere. E invece, ci sono tante cose che non so.
Volevi un raccontino che poi finisce con me in bianco che faccio due bambini e vivo felice con un bel giardino? La redenzione, no? Non sarebbe difficile. Ho pure un lavoro vero. Il bar. Ho tre persone che lavorano per me. Perché il primo lavoro non l’ho mai mollato. E mi va anche benino, adesso. Mi piacerebbe. Un bel film. Una vita nel peccato e poi, finalmente, un uomo che mi salva. Ma ce ne sono rimasti di uomini così? Fammi sapere. Mi raccomando. E paga il conto. Io ho preso solo una minerale.

giovedì 20 settembre 2007

FIGLI DI BLADE RUNNER


Quando discutiamo d'ambiente, in realtà parliamo del salvataggio della vita umana sul Pianeta (quest'ultimo sa salvarsi da solo, con uno shock climatico, eliminando ciò che turba il suo equilibrio). E ne parliamo, spesso, a scopi detersivi delle nostre coscienze; con la consapevolezza, per di più, che vi è, o può esservi, una via "corretta" allo sviluppo, eco compatibile: che l'ambiente può essere un business.
La domanda che ci si faceva qualche tempo fa, che ricorreva nel primo accenno d'ambientalismo, più romantico dell'attuale, era: non ci sarà un virus, nell'idea di sviluppo? Un virus nocivo alla convivenza, anti umano.
Mi chiedo, ora che anch'io entusiasticamente mi voto all'eco-nomia, se noi, figli di Blade Runner, non dovremmo essere un po' romantici, passatisti, per esser davvero contemporanei.