mercoledì 30 maggio 2007

I BUONI PINOCCHI


Questa mattina - a Radio Radicale? - ho ascoltato, nel tempo della barba, fra l'emolliente e l'acqua di colonia, una parte del dibattito alla Camera sull'emergenza rifiuti in Campania.
Un fastidioso chiacchiericcio è sempre utile. E' come passare per una sorta di mitridatizzazione: alla fine, ti consente una possibilità di concentrazione in qualsiasi condizione.
Qualcosa però è sfuggito, al vaglio del disinteresse.
L'argomento era di qualche rilievo.
Bocchino, di AN, ha pronunciato una durissima requisitoria contro l'inerzia del governo nazionale, e le scelte clientelari del governo regionale (alla quale altri hanno replicato, dalla maggioranza).
E al Sottosegretario all'Interno Minniti, che in aula rappresentava il governo, Bocchino diceva, più o meno: lei è una persona perbene, elegante, peccato che abbia dovuto leggerci quelle bugie scritte per lei dalla burocrazia ministeriale.
La bugia, dunque, detta da una persona perbene.
Stasera, su Zapping (Radio Uno), il tema è tornato a galla: la verità.
Se Prodi promette un taglio di tasse, deve mantenere la promessa, diceva non so più chi. Niente bugie.
Fin qui, gli antefatti.
Su verità e bugia in politica bisogna andarci piano.
Non tanto per Macchiavelli e Guicciardini.
Quanto piuttosto per Moravia, che a proposito dei politici trovava corretta la categoria del "Relativo": "Assoluto", in Politica, è il Tiranno, diceva.
Ora, un certo grado di relativismo, in Politica, è non solo fisiologico, ma auspicabile.
Chi giudicherebbe, tra verità e bugia? E se verità e bugia fossero davvero nettamente separabili, tra due contendenti? Che ne faremmo del peggiore dei due? E se la verità non potesse più diventar bugia: e cioè falsificarsi, con il passare del tempo, e il mutare delle condizioni? E cedere il passo ad una verità migliore?
E infine: cosa c'è di meglio di un buon Pinocchio che piange sulla tomba della Fatina e salva il suo papà nella pancia della Balena?
L'Italia è un paese di Pinocchi.
Sappiamo tutti che la verità migliore è un po' bugiarda. E che la bugia peggiore è la verità tutta intera.

QUANTO COSTA UN RENE


Un reality in Olanda con quattro personaggi: un malato terminale che dovrà scegliere, fra tre aspiranti al trapianto, il fortunato che riceverà il suo rene. Post Mortem.
Certo. E' meno grave farselo regalare in una trasmissione oscena che comprarlo al mercato dei meninhos de rua, in Sud America (via Internet, of course).
Io però ho ancora qualche considerazione della vita, della morte, della malattia.
Del resto, capisco meno.
Ad esempio. Qualcuno ha idea del motivo per cui accendiamo ancora la televisione?
Il reality è targato Endemol, e dunque, oramai, Mediaset.
Confidiamo in un immediato spegimento da parte dell'Illuminato.

FERMO IMMAGINE


Una mostra di Enzo Sellerio, a Palazzo Branciforte.
Il titolo è "Fermo immagine", che se fosse un imperativo, saprebbe di Genesi.
La mostra - promossa da due Fondazioni: Banco di Sicilia e Fratelli Alinari - si potrà visitare dal 2 giugno al 14 luglio.
E' una mostra che riguarda tutta l'opera di Enzo Sellerio, e che dopo Palermo andrà a Siracusa, dal 20 luglio al 2 settembre, ed a Firenze, dal 12 settembre all'11 novembre.
Sul Catalogo della mostra, Carlo Bertelli definisce Enzo Sellerio “un narratore ricco di humour che invita a cogliere la stranezza surreale di certe occasioni. Mai chiedendo ai personaggi di recitare, bensì cogliendoli di sorpresa nella loro naturalezza. Anche i muri recitano per lui. Lo fanno con le scritte che li ricoprono e di cui le immagini di Sellerio mettono in luce l'assurdità rispetto al contesto. Sono voci dei palazzi del potere, ma più spesso voci plebee, come in un moderno Pitré, il grande antropologo siciliano dell'Ottocento cui i Siciliani sono debitori per aver raccolto le loro espressioni autentiche”.

ANCORA SU SOFRI



Dettaglia le sue denunce, Adriano Sofri, apparse sul Foglio sabato scorso.
Ne leggo sul Corriere della Sera di oggi, a pagina 20.
Non un solo omicidio fu proposto all'ex leader di LC: ma un intero pacchetto. Gli esponenti dei NAP, i Nuclei Armati Proletari (in cui - scrive Federica Cavadini, del CdS - "erano confluiti gli ex di LC").
Sofri mandò a quel paese l'altissimo e coltissimo rappresentante dello Stato che gli aveva proposto quell'affare. E forse, oltre all'impunità, quell'uomo dello Stato aveva anche offerto dell'altro.
C'era del metodo in quella follia.
Penso che il dolore di chi ha perso qualcuno, negli anni di piombo, non possa essere spazzato via. Nemmeno oggi, che è passato tanto tempo.
Penso che per i famigliari dei morti, di tutti i morti, serva un po' di verità. Un po' di luce.
Un figlio o un fidanzato o un padre si perdevano dall'alba alla mattina, in un soffio: per un progetto psicotico di qualche gruppo terroristico; per un lucido disegno di destabilizzazione di una parte delle istituzioni, in combutta con chissà chi e che cosa.

lunedì 28 maggio 2007

CANDIDO INTERVISTA CAMILLERI


Tempo fa, un mio carissimo amico (un clone, direi), decise di scrivere sotto pseudonimo. Scelse quello di Candido da Regalpetra. Alludendo al Maestro di Regalpetra, ovviamente. E su Capital, diretto dal Supremo Pietro Calabrese e poi dal primo allievo Giovanni Iozzia, pubblicò - sotto l'anzidetto nome di fantasia - un po' di articoli e di interviste. Una, quella che segue, ad Andrea Camilleri. Ha quattro anni. Ma resiste.

Mettiti seduto, tranquillo. La questione è di qualche importanza.
Non ti pare, caro lettore, che da un poco di tempo a questa parte siculi e sicule presero possesso delle tue risate, delle tue letture, per non dire della tua musica, della tua televisione e del tuo cinema?
Possesso, sì. E neanche possiamo dire che lo fecero zitti zitti, ammucciuni, di nascosto.
Allora, sei seduto? Non ancora? Ma che stiamo scherzando? Te lo devo ripetere?
Ricominciamo. Il discorso è questo. Te lo ricordi il Regno delle due Sicilie? Ora ce ne sono perlomeno cinque o sei, di Sicilie in questo Regno, e il Re si chiama Camilleri. Camilleri Andrea. Che è uomo per l’appunto di ironia, essendo della terra di Pirandello Luigi, Agrigento; e di letteratura, per conseguenza; e travagliò per la televisione, alla Rai, scrivendo le scene e le battute di telefilm e sceneggiati, vecchi, ancora in bianco e nero; e per il teatro, insegnando all’Accademia d’Arte Drammatica, e al Cinema.
Ora, Camilleri scrive libri che ci vorrebbero petroliere per trasportarli tutti in libreria. Insomma. Un Imperatore, altro che Re.
Andiamo al fatto. Troppi siculi si contendono i titoli del Regno. E alla domanda - “chi è il più siciliano del Reame?” - viene difficile rispondere. E dunque, chi meglio del Re, dell’Imperatore, Camilleri Andrea insomma, può fare ordine in questa Corte di stravacanti, di attori, di registi, belle fimmine, musicisti e scrittori?
Se finalmente sei comodo, cominciamo, caro lettore!
Maestà, scusasse il disturbo, ma chi è il più siciliano del Reame?
“Difficile dire chi è più siciliano. Anche perché è difficile pensare a un comun denominatore dell’esser siciliani. Secondo me, è una partenza sbagliata. La complessità del siciliano è nota, credo. C’è un bella frase di Vitaliano Brancati: il signor x e il signor y abitano sullo stesso pianerottolo. Sono tutti e 2 siciliani. Ma quando si va dalla casa dell’uno a quella dell’altro, è come passare da un continente all’altro. I siciliani, tra loro, sono diversi fisicamente, culturalmente, psichicamente”.
Ma non sarà proprio questo ad accomunarli, la complessità?
“Naturale. C’è una domanda di Leonardo Sciascia nel Consiglio d’Egitto, formulata ad un certo punto dal Vicerè: come si fa ad esser siciliani? Come si fa a sopportarlo? Come si fa a vivere essendo siciliani?”.
Le dispiace se assegniamo qualche titolo, così, per principiare a mettere ordine? Se è d’accordo, comincerei da due attori. E il primo, Zingaretti Luca, lo facciamo siciliano sul campo, ad honorem. L’altro è Fiorello Rosario. Lo Zingaretti arriniscì a dare vita al suo Commissario Montalbano, che personaggio di fantasia è: sbirro buono, con senso di giustizia, simpatico e vincente. E il Fiorello, invece, uomo in carne e ossa, pare personaggio di fantasia: imitatore, presentatore, cantante, attore, uomo finito insomma, epperò riesce a dire cose intelligenti, e a fare una cosa intelligentissima come la Radio.
“Sempre di due attori stiamo parlando. Fiorello imita, presenta canta, ma è anche un grande attore. La capacità di trasformarsi da attore disinvolto e cantante ad uomo capace di dire cose intelligenti e serie, è tipica di un grande attore di intrattenimento. Essere siciliano qui è molto, molto relativo. Andiamo a toccare quel meraviglioso mestiere che è l’attore, che poi è la capacità di essere altro da sé. A questi livelli di bravura, sarebbe persino possibile una trasformazione di Zingaretti in Fiorello e viceversa. Quando si è bravi, ci si riesce. Non mi meraviglia per niente”.
Lo Zingaretti non aveva le carte in regola per essere Montalbano. Stando ai suoi romanzi.
“No. Era tutto sbagliato, ragionando con il vecchio schema del phisyque du role. A cominciare dall’età: Montalbano oggi ha 53 anni: io ho scritto che è nato nel 1950. Montalbano, poi, ha capelli e baffi. Zingaretti, invece, anche se più giovane e calvo, dà l’idea di essere l’unico possibile Montalbano. Io non ho mai detto è lontano dal mio personaggio. Io sapevo che era uno straordinario attore. Valeva la mia esperienza”.
Sì, perché lei fu suo professore, all’Accademia.
“Io lo considero mio nipote. E lui, mi tiene per zio. Ricordo che quando cominciò a fare questo personaggio, ebbe una crisi di impatto, come accade spesso agli attori, e mi fece la prima e ultima telefonata dal set, dicendomi: Andrea, da dove lo devo prendere questo personaggio? E io più o meno gli risposi: da te stesso, e non rompere i coglioni. Non ci furono altre parole”.
Solo in Sicilia ci possono essere nipoti adottivi, e difatti il rispetto si esprime nella ziitudine, nel dare a qualcuno dello Zio. E poi, il modo di parlare dice tutto: “da dove lo devo prendere questo personaggio, da quale verso…”
“Sì, Zingaretti è un siciliano ad honorem”.
E dunque, passiamo alla cerimonia della spada? Che titoli gli diamo a questi due, il Fiorello e lo Zingaretti?
“Principi, senz’altro”.
E Baglio Aldo?
“Quello di Aldo, Giovanni e Giacomo? Io mi ci diverto da matti con loro. Merita senz’altro un marchesato”.
Il Baglio pare uno che lavora all’antica. Grande artigiano da avanspettacolo. Un classico contemporaneo.
“Anche questo è un bel problemino. Non è che conti molto l’innovazione. Conta, semmai, quanta intelligenza metti in quello che fai. Ora, per quel che riguarda noi siciliani – e qui ho uno scatto d’orgoglio – devo dire che siamo leggermente più reattivi di molti altri. Perché siamo dei bastardi”.
Nel senso letterale? Nel senso che siamo figli di molti padri?
“Proprio. E’ come la storia del cane di razza. Ha un bel pedigree, ma è po’ scemo. I cani di strada sono più reattivi. Tornando ad Aldo Baglio, che mi fa ridere davvero assai, mi sembra che incarni una delle nostre maschere, Giufà. Giufà ha due facce, è stupido e intelligente. E’ il nostro Bertoldo. Baglio ha veramente grande tradizione”.
E Ficarra e Picone?
“Li seguo da molto tempo. Sono due palermitanazzi, in senso buono. Nel loro lavoro c’è una cosa, una sorta di intelligenza del gioco, che arriva immediatamente e ti lascia presuppore un risvolto che non è quello che vedi: un sottotesto, un’allusione continua”.
Meritano almeno un Granducato.
“Perlomeno”.
La spada pesa. Se la vuole riporre un attimo, le volevo fare una domanda. Ma come se lo spiega questo fenomeno di colonialismo siculo nel territorio difficilissimo della comicità?
“Mica si può avere il ciclo continuo. Era inevitabile che avvenisse una sorta di ritorno. Questo succede spesso. Abbiamo avuto l’epoca catanese di Angelo Musco, al quale il grande D’Amico dedicava pagine e pagine, ed era in grado di farsi capire in tutta Italia. Poi venne De Filippo, che era napoletano. Sono fatti ciclici. Non so quanto durerà. Ma bisogna anche dire che questo è il tempo dei comici siciliani alla ribalta, non il tempo della caricatura della Sicilia. Ricordo quegli spaventosi doppiaggi, con un siciliano improbabile, che diventavano una parodia involontaria. Questi nuovi comici, al contrario, fanno parodia con i loro linguaggi della loro realtà, e l’autenticità paga”.
I siciliani fanno ridere. Ed è una buona notizia. Ma sanno anche ridere di sé. Prenda La Russa Ignazio e Schifani Renato. Fatti a pezzi da Fiorello e Marcoré. Eppure, uno va in diretta a farsi fare il verso – “digiamoolo!” – e l’altro si mette con la famiglia davanti alla televisione a ridere del suo riporto!
“Si vede che sono dei buoni siciliani. A quella domanda di Sciascia, come si fa ad esser siciliani, una volta risposi: con l’ironia e l’autoironia. E questo non corrisponde al canone del siciliano irascibile, che è di per sé falsificante”.
Sono diventati due maschere, il La Russa e lo Schifani. O no? Che facciamo, glielo diamo un titolo?
“Niente titoli. E le dico la verità. A me viene molto difficile chiamarle maschere, che poi sono simboli, figure esemplari. Loro sono due uomini politici – dai quali peraltro sono lontano mille miglia - che reagiscono bene alla satira, non reagendo, ridendo a denti stretti. Reagire è la cosa più brutta che si possa fare contro la satira. Ci fu un grosso personaggio politico che ricorse al giudice contro un atto di satira. Io lo trovai delirante. Un uomo politico sa che è esposto alla satira. Deve reagire solo alla diffamazione”.
Torniamo agli attori. Che ne dice di Lo Cascio Luigi, che coi Cento Passi fece un figurone?
“Anche lui è stato allievo mio. E’ cresciuto benissimo, e continuerà a crescere. E’ un tipo alla Zingaretti. Mi dispiace non poterli vedere vecchi. Sono vini di classe, e miglioreranno con il tempo”.
Diventerà Principe, insomma. E i registi? Ce ne sono tanti, ormai. C’è Torre Roberta, milanese di nascita e palermitana di adozione. C’è Scimeca Pasquale. E c’è Tornatore Peppuccio. Uno, il Tornatore, che ha assimilato il grande cinema, o il cinema dei grandi, e che muove la cinepresa come un grande pennello. Epperò, si disse pure che i suoi colori, a volte, sapevano di melassa.
“Io non vedo tutta questa melassa nell’Uomo delle Stelle. E proprio quel finale va letto in un altro modo. Qualsiasi cosa sia una rinunzia, non è mai una melassa”.
Il Tornatore racconta spesso un sentimento alla volta: con Nuovo Cinema Paradiso, la nostalgia; con Una pura formalità, la paura della morte; e con Maléna, l’erotismo.
“Noi uomini siamo anche uno alla volta. La sua forma narrativa è quella di una cosa alla volta: ma bene, però”.
Principe, abbiamo capito. Parliamo di musica? Anche qui sono tanti i siculi. C’è Battiato Franco, c’è Consoli Carmen, c’è Sollima Giovanni, violoncellista e compositore. E ce ne sono altri ancora.
“Battiato lo ascolto ma non posso dire di nutrire molta simpatia nei confronti della sua musica. Ma lo facciamo Conte. La Consoli mi piace tantissimo. Trasgressiva, moderna, mi piace anche per questo. Sollima, poi, lo considero tra i più importanti compositori italiani, per quel che ho sentito fino a questo momento. Gli diamo un Granducato”.
E la Consoli, Maestà?
“Principessa. Anche se non voglio spodestare la bellissima nostra attrice, Maria Grazia Cucinotta”.
Di belle donne ce ne sono assai, in Sicilia. C’è Riccobono Eva, che comparve in televisione e fece strage di telespettatori. E poi Valle Anna, già Miss Italia, che per qualche anno, da ragazzina, visse a Lentini, e potrebbe chiedere il passaporto. E La Rosa Marina, che frequentò il Grande Fratello e si spogliò davanti a un fotografo.
“Bé, la Riccobono giustamente aspira al titolo, e ha tutte le carte in regola per acquisirlo. La Valle? Boh, faccia lei. Cavaliera, magari. Marina La Rosa non la conosco: il Grande Fratello è escluso dal mio orizzonte. Senta, ma una domanda, io, gliela posso fare?”
Sicuro.
“Di letteratura non ne parliamo?”.
Mancanza! Può essere mai che non ne parliamo?
“E qua i talenti sono tanti. Tanti e importanti. Vincenzo Consolo lo facciamo principe da subito. Un ducato va a Giuseppe Bonaviri: ce ne scordiamo troppo spesso. Dietro, vengono una schiera di aspiranti nobili, che fa piacere farli conti: Roberto Alajmo, con il suo Repertorio dei pazzi della città di Palermo. E poi Santo Piazzese, Giosuè Calaciura, Piergiorgio Di Cara, Silvana Grasso e Silvana La Spina”.
Grazie, Maestà. Anzi, torno a chiamarla Professore, ché la Repubblica non ci dispiace. Se abbiamo scherzato sui titoli, lo si deve al ritorno dei Savoia, pure se preferiamo il purissimo giglio dei Borboni.

SIGARETTE, BEVANDE GASSATE E G. W. BUSH


Provo a smettere di fumare. E di conseguenza, rompo i rapporti con il secondo alleato della nicotina: il caffé. Il primo, il c.d. stress, me lo tengo. Per il momento.
Sui giornali, leggo che il Nimesulide, detto anche Aulin, fa male. Lo butto via. Pazienza per le contratture muscolari, e per il resto.
Leggo che anche le bevande gassate potrebbero far male. E non solo per lo stomaco gonfio. Stop alla Coca Cola. Per via pure della caffeina. E alla Ferrarelle.
Leggo che in una busta di spinaci surgelati una donna incinta ha trovato i resti di un topo. Indagini immediate, e sequestri, in tutta Italia. Guarderò con più attenzione, nelle buste dei surgelati.
A Palermo, poi, i gas inquinanti, e le microparticelle, hanno superato di nuovo i livelli di guardia. Che faccio? Mascherina?
Non è che stia accadendo tutto in pochi giorni, d'improvviso. E' solo che ci faccio attenzione. Al tracollo.
Dipenderà da George "Dabliu" Bush, forse. Dal suo no ad Angela Merkel, e al documento europeo per un aumento di soli "2" punti della temperatura da qui al 2050. Soltanto? E per Bush, si potrebbe anche fare di più. Tre, quattro gradi.
Io, intanto, provo a smettere di fumare.

LA LETTERA DI SOFRI SUL TERRORISMO


Tra sei mesi, avranno inizio le celebrazioni solenni del quarantesimo anniversario del '68. Del decennio che gli successe, si parlerà più o meno bene, più o meno male.
Si parlerà, o si proverà a farlo, anche del tentativo armato di trasformazione dello Stato e della Società. Ci sarà pure chi insorgerà contro l'insozzamento del '68 con il terrorismo.
Eppure, la morte di tanta gente ha precipitato il nostro Paese nella barbarie.
Il ricordo civile delle vittime è solo una recente acquisizione, e i libri dei loro famigliari si vendono meno dei libri dei loro assassini.
Tra tutti gli interventi sul passaggio dalla protesta alla violenza, letti negli ultimi mesi, quello apparso sabato scorso sul Foglio, a firma di Adriano Sofri, è il più duro, e credo il più sincero. Andrebbe letto. E' diretto ad un giovane. Un giovane aspirante assassino.

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sabato 26 maggio 2007

UNA CITTA' A MISURA DI BAMBINO


Servono mille parole, a volte, per dire una cosa.
Oppure, un paio di esempi.
O un solo punto di vista.
Provate a guardare Palermo dal punto di vista di un bambino.
Cerca un parco dove passare una giornata.
Cerca un giardino, dove giocare con altri bambini: che sia bene organizzato, attraente, pulito, protetto.
Cerca una strada da percorrere in bicicletta: che sia sicura, e che gli consenta di passeggiare insieme ai genitori, e di accorgersi della sua città.
Cerca una scuola: che sia pulita, moderna, attrezzata.
Pensare una città "a misura di bambino" equivale ad un cambiamento profondo, nel nostro modo di organizzarla.
Palermo è tra le città più verdi d'Europa: ma quanti parchi sono in grado di reggere il confronto con altre città europee?
Palermo ha molte belle strade: ma quante sono libere dai gas e dal traffico?
Palermo ha molte scuole: ma quante abbisognano di un radicale ammodernamento?
Una buona idea è già uno slogan.
Al Sindaco Cammarata, e al Consiglio Comunale, li propongo entrambi.

venerdì 25 maggio 2007

TUTTI GLI ANTI DEGLI ANTA


Sono diversi dagli anti di chi gli anta non li ha.
Chi ha superato i quaranta, può facilmente disorientarsi. Per ragioni filosofiche. Economiche. Ormonali.
Prendiamo l'antipolitica. Questa polemicuccia di fine maggio.
Certo. Può dar fastidio che uno o due milioni di persone, in parte senz'arte né parte, vivano ciucciando le mammelle dello Stato. Consiglieri d'ogni consesso. Amministratori d'ogni minestra.
Ma questa è la scelta d'un Paese che ha scelto l'assistenza come Missione. I precari come assistiti. I politici come assistenti.
La politica, però. È un'altra cosa. È studio. È ragionamento. È accalorarsi, in un dibattito. Pianto ed entusiasmo. Giuliano Ferrara sintetizzò, una volta: sangue e merda.
Ora, penserete, cita la Polis. Giusto. E la citazione è scontata, lo riconosco.
Serve solo a dire una cosa.
I greci parlavano di politica in un luogo magico. Che era il Teatro. In quel Teatro, la politica era rappresentata. E sollevava grandi questioni.
A noi non manca la politica. In Italia. Manca il Teatro. Mancano le grandi questioni. E gli attori. Ci accontentiamo di comparse.
L'antipolitica rischia di favorirle, ancora una volta.

IL DIZIONARIO DEI PERSONAGGI DA ROMANZO


Ne scrisse uno Gesualdo Bufalino. Tutt'ora insuperato. Ma sono trascorsi degli anni, ed è come fossero secoli. La televisione ha cambiato la nostra lingua, ed era già accaduto, al tempo del ribellissimo Bufalino. Ora, ci si è messo anche il Web, che ha cambiato il mondo. A far nuovi dizionari, si dovrebbe tener conto di questo. Un esempio. Partendo dalla prima lettera dell'alfabeto. Abbondio. Don, per completezza. Come lo descriverebbe, oggi, Alessandro Manzoni? Come un pretonzolo tutto macchie sul talare? O come un prete ragazzino, o un laico, timoroso del suo tempo? I Don Abbondio, ai giorni nostri, si sono evoluti. Sorridono. Ostentano vite quasi normali. Si son fatti maestri dell'arte della dissimulazione. Ma il coraggio, quello, ancora non se lo possono dare. E' tutto in quel quasi. Quasi normali.

QUATTRO MINUTI


Spettrale, l'atmosfera del film. In un carcere. Anziana insegnante di piano dal passato nerissimo, allieva giovanissima condannata per omicidio. E un milieu, tutt'intorno, di reietti ancora tentati dalla vita. Si può anche piangere. E il film, che come al solito è bellissimo (non essendo stato girato in Italia), ci parla del realismo, della necessità di scritture cinematografiche più accurate, e coraggiose. Di recitazioni e di costruzioni di personaggi. Le poesie più belle sono, quasi sempre, un po' sporche di sangue.

VOGLIA DI BALZAC


Che ciascuno la pensi a suo modo. Ma sulla Commedia Umana non può esservi dibattito. I tipi, i caratteri, descritti da Honoré de Balzac, sono quelli che intravvediamo ancora, in certi nasi aggrottati, paurosi che un centesimo scivoli dalle tasche cucite segretamente nel pastrano; in certi tremori, che svelano il tradimento; in certi scoppi d'ira, apparentemente improvvisi come piogge estive, e covati a lungo, invece, in segno di rivolta per la gioventù altrui, e per la rabbia d'aver rinnegato ogni cosa, ogni promessa. La Commedia Umana è la Letteratura. È Esiodo. È Omero. È Aristofane. È Apuleio. È Shakespeare. È Brancati. Ed è gran parte di quel che sta tra l'uno e l'altro. Osservare i Caratteri con attenzione è un piacere appena più lieve del riprodurli.

giovedì 24 maggio 2007

PAESAGGI URBANI



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ANTROPOLOGIE CITTADINE


Tempo fa, fui coinvolto in una polemica "inqualificabile" su cosa fosse opportuno narrare della città. Risposi, insieme ad altri, con l'arma che uso di più, l'unica in realtà: l'ironia. Penso però che anche di altro dovremmo occuparci, nei libri: di quella mutazione antropologica metropolitana che comincia ad interessare anche Palermo, dopo aver riguardato le grandi città del mondo. Abbiamo anche noi, a guardar bene, le tribù, che si costituiscono per tentativi di approssimazione, le violenze di strada, che infrangono codici di antica data, i colori di guerra, ovvero l'aspetto esteriore, i linguaggi, i riti quotidiani, nelle grandi are collettive. Palermo comincia a somigliare ad altro dalla sua storia. E questo, piaccia o non piaccia ai polemisti un po' retrò, è "il fatto" di cui dovremmo occuparci. Ciascuno a suo modo.

P.S. E un antropologo che ci spieghi queste tribù, non c'è?

mercoledì 23 maggio 2007

IL SILENZIO ANTIMAFIA


Ha fatto più rumore, oggi, alle 17.58, il silenzio suonato da una sola tromba con straziante basso continuo di sirena dinanzi all'albero Falcone, che non il clacson delle auto infastidite da quindici minuti d'attesa nei pressi di via d'Amelio, al passaggio di uno dei due cortei in ricordo della strage di Capaci. Ha risuonato, quel silenzio, per chi c'era e per chi non c'era, per chi è rimasto a casa, per chi non si è nemmeno affacciato alla finestra. Un magistrato ha detto, giustamente, che siamo al ricordo, di quel che è accaduto. Non ancora alla Memoria.

CAPACI COME PEARL HARBOUR


Ero a casa dei miei, fuori città. Era un luminoso pomeriggio di quasi estate. La televisione era accesa, come sempre. Un fastidioso sottofondo, un collegamento con il mondo.
Le scritte cominciarono a dettare un rapido crescendo. Esplosione. Bomba. Attentato. Forse. Forse. Forse. Falcone!
Poi, gli aggiustamenti, a pochi secondi l'uno dall'altro, nel corso dell'Edizione Straordinaria del Telegiornale.
Ferita la scorta. Ferito Falcone. Ferita la moglie. Gravi condizioni. Morti!
Bastarono pochi minuti perché la tragedia dispiegasse tutta la sua potenza, oscurando il cielo di Palermo.
Ricordo che tutto cominciò con la morte di Salvo Lima. Si ipotizzò che Cosa nostra avesse detto basta; o che Cosa nostra, al contrario, avesse voglia di dar vita a qualcos'altro, insieme ad altri.
Ricordo che, rapidamente, in quel crescendo del '92, si pensò ad un'ipotesi folle: l'Europa; Maastricht; i cambiamenti politici, e i cambiamenti finanziari; Cosa nostra; Mani Pulite, poi Tangentopoli; il Crollo della Prima Repubblica.
Si pensò, in poche parole, che tutte queste cose potessero esser delle tessere di un solo grande mosaico.
Si pensò agli interessi di alcune grandi potenze, nazionali e multinazionali.
Io pensai che questo pensiero fosse eccessivamente astratto: dietrologico, si diceva fino a qualche anno fa.
Mi par di capire, adesso, che quest'astrattissima opinione - che fu d'improvviso messa nero su bianco da alcuni politici visionari - riemerga con qualche concretezza.
Ora che qualche anno è trascorso, immagino che vi sia una sola reale differenza tra le guerre apertamente dichiarate (come in Colombia, Perù, etc.) e quelle che lasciano al clamore degli eventi (una strage a Palermo anziché un semplice omicidio a Roma), il compito di suggerire la loro esistenza.
Una sola differenza: la posta in gioco.
Le guerre occulte, a differenza di quelle apertamente dichiarate, puntano all'intero piatto.
Capaci fu per l'Italia una sorta di Pearl Harbour.
Chi avrebbe dovuto capire, non capì: dopo Lima e Falcone, infatti, vennero Borsellino e Salvo. A chiudere il cerchio, furono le bombe di Roma, Firenze e Milano.
Fu il massimo della violenza esercitabile contro un'opinione pubblica schiacciata dal dolore, e dalla velocità degli eventi.
La vecchia Italia era crollata, e sulle sue macerie, si stava svolgendo una guerra terribile.

martedì 22 maggio 2007

LA MAFIA, I COMPLICI


Lirio Abbate, giornalista dell'Ansa, a Palermo, è un buon giornalista. Uno di quelli che sa osservare, e raccontare. Lo fa così bene, che Cosa Nostra, della quale lui si occupa, sta pensando di violare quella regola di understatement che si era data dopo le stragi: basso profilo, niente sangue, più pizzini che pallottole. Le minacce e alcune intercettazioni hanno persuaso il Ministero dell'Interno a porre subito Lirio Abbate sotto scorta. Ora, a parte i giornalisti (che hanno a disposizione il loro lavoro, a Palermo e altrove, per offrire la loro concreta solidarietà), che cosa può fare un comune cittadino per far sentire la sua vicinanza a Lirio Abbate? Una cosa semplice: leggere quel che ha scritto, in un libro agghiacciante pubblicato da Fazi. "I Complici", si chiama, e lo firma - insieme a Lirio Abbate - anche Peter Gomez, giornalista de L'Espresso.

P.S. Se non lo avete già fatto, leggete anche "Il Codice Provenzano", di Salvo Palazzolo e Michele Prestipino, pubblicato da Laterza.

UOMINI SOLI


Prima di Giovanni Falcone, e di Paolo Borsellino, altri uomini - e ne cito tre, ma potrebbero esser molti di più: Piersanti Mattarella, Pio La Torre, il Generale Carlo Alberto dalla Chiesa - avevano compreso quale fosse il codice di comportamento di Cosa Nostra, e su quali complicità fondasse il suo potere; e di conseguenza, avevano compreso quali fossero le strategie più opportune di "disarmo" sociale, economico e militare dell'organizzazione criminale. Poi, per loro, venne la solitudine: per Mattarella, per La Torre, per dalla Chiesa.
Sulla conoscenza e il contrasto della mafia, Falcone e Borsellino giunsero in seguito ad un punto d'osservazione ancora più elevato: e questo, non gli fu perdonato.
Sarebbe giusto se in quest'anniversario, il prossimo 23 maggio, riflettessimo sul fatto che anche Giovanni Falcone visse la sua solitudine fino in fondo, fino all'esito più prevedibile.
La solitudine nel Palazzo di Giustizia, nella sfiducia di una parte dei suoi colleghi; la solitudine nei confronti di due parti politiche differenti: di chi la mafia avrebbe voluto lasciarla in pace, e di chi la mafia avrebbe voluto combatterla, non si sa come, senza il ricorso a strumenti straordinari (come sarebbe stata - nelle intenzioni, nel disegno di Giovanni Falcone - la Superprocura nazionale antimafia).
Ora che Giovanni Falcone è una bandiera, all'ombra della quale sentirsi più uniti, dovremmo, anche nel chiuso delle nostre coscienze, ragionare su quel che fu.

lunedì 21 maggio 2007

FRATELLO BIAGIO


Il sole si accanisce sugli uomini, sul cestello dell’impastatrice, oramai incandescente, e sul cemento appena steso.
I volontari lavorano con metodo, senza fretta.
I bambini del quartiere osservano silenziosi.
Il caldo di quest’estate palermitana di mezz’autunno riduce la terra in polvere, e ad ogni passo, su quel viale battuto un tempo dai camion verdescuro e dal passo della vigilanza armata, si alza un velo grigio che s’attacca ai vestiti, penetra nelle fibre, nella carne, e strizza gli occhi, fino alle lacrime.
Due, tre, quattro curve tornanti. Sul punto più elevato della vecchia Caserma dell’Aeronautica, una spianata guarda al gran cantiere, e più in là, ai tetti della Guadagna, alle sue catapecchie e al suo Gange, il fiume Oreto. Due vecchie auto sono parcheggiate tra gli edifici del dormitorio, fasciati di tubi metallici e di travi per i camminamenti, e i prefabbricati candidi con le scritte “Infermeria” e “Ambulatorio Medico”: dalle finestre aperte, si scorgono le scrivanie e le brandine, per le visite.
Fratello Biagio è sotto il Crocefisso della Cappella all’aperto, rivolto verso ottanta sedie vuote, probabilmente ereditate da una scuola elementare; indossa la sua tuta verde marcio, il suo sacco, il suo sari.
“Pace e bene”.
Siede su una sedia a rotelle. Quasi se ne scusa.
“La situazione si è aggravata. La mia schiena è crollata”.
Ha quarantatre anni. Per un anno ha dormito all’aperto, nei boschi; per quindici, sotto una tenda.
“Il medico mi ha proibito di continuare a farlo. Mi ha proibito di portare dei pesi, perfino di stare in piedi. Anche il nostro Arcivescovo mi ha detto tante volte di riguardarmi. Ma come faccio?”.
Solo per un saluto - due mani che stringono due mani - all’uomo sulla sedia s’avvicinano con discrezione dei volontari. Rumeni, grandi baffi orgogliosi, e profondi occhi nocciola. Africani. Neri, nerissimi. Ghanesi, Sudanesi.
Omar ha ventidue anni. Viene dal Darfur, dove studiava Scienze Politiche (“Political problems”).
Due mesi li ha impiegati per raggiungere la Libia (“Sometimes walking”, a volte a piedi).
Otto ad aspettare una “boat”.
Uno a Trapani, a cercare un lavoro.
Due li ha vissuti nella nuova Missione di Fratello Biagio, in Via Decollati. Questa.
A pochi passi, siede Dario Malizia. E’ un avvocato. Fratello Dario si occupa dei guai, della regolarizzazione dei clandestini, di quel che la Legge riserva a chi, per Destino, non sa che farsene di un documento.
Il sole sta alle spalle di Fratello Biagio, e non si riflette sui suoi occhi. Quella febbre che li scuote, pressoché impercettibilmente, si deve ad altro.
“Vedi? Ogni giorno, qui, tutto cambia. In Via Archirafi non c’era più spazio. Tanta gente ha bisogno d’aiuto: non solo i poveri, e i più poveri tra i poveri; con noi, ci sono centocinquanta siciliani. Ci sono anche dei professionisti. C’è un giornalista. Persone che hanno lasciato tutto alle loro spalle, e cercano qualcos’altro”.
Parla dei settecentoventi ospiti nelle tre case della “Missione Speranza e Carità”, che egli stesso ha fondato.
La prima si trova in un vecchio Disinfettatoio comunale, vicino alla Facoltà di Scienze Naturali. Fratello Biagio ne ha ottenuto l’assegnazione dopo aver cercato, per anni, una struttura abbandonata. L’ha restaurato con pazienza, grazie ai volontari, a qualche contributo pubblico e a tante inattese donazioni. Lì stanno gli uomini. Lì è morto Andrea, il primo Fratello raccolto da Biagio Conte per strada: aveva cinquantadue anni, e ottanta a vederlo.
La seconda casa è nel centro antico della città, in Via Garibaldi, dove Sorella Mattia, Sorella Alessandra e Novella Lucia, Novella sta per Novizia, danno ospitalità alle donne.
La terza è questa caserma.
La notte, ogni notte da quindici anni a questa parte, un furgone gira per la città, per aiutare chi vuol star solo, sotto un portico, sotto un cartone; i clochards più irriducibili, gli ultimi tossici da eroina, e chi è appena finito per strada.
Settant’anni fa, a Calcutta, notte e giorno, una piccola suora albanese e altre due missionarie spingevano un misero carretto a mano, raccogliendo i moribondi, per fame, per tubercolosi, per lebbra.
Secoli prima, nei dintorni di Gubbio, ai lebbrosi s’accostò il figlio di Pietro da Bernardone, Francesco, “vestito solo d’un rozzo camiciotto”: “lavando – scrisse Tommaso da Celano - i loro corpi in disfacimento, e tergendo la materia delle piaghe”.
“Sono nato a Palermo, in una famiglia benestante. Ad otto anni, mio padre decise che saremmo andati in Svizzera, dove avrebbe diretto una cementeria; poi andammo a Firenze, a Milano, e infine, tornammo a Palermo. Fino a ventidue anni, sono stato un ragazzo come tanti. Mi piaceva vestir bene, uscire con la mia comitiva, andare a ballare. Ero fidanzato. Felice. Ma mi guardavo intorno, e vedevo già quel che non andava. Mi sono chiuso in casa per qualche anno, non uscivo più dalla mia stanza. I miei amici, e la mia famiglia, pensavano ad una forte depressione. Io leggevo. Libri su libri. Filosofia. Psicologia. Scienza, che ho amato moltissimo. Religione. Cercavo una spiegazione”.
Non tace nulla, di questo racconto. Va fino in fondo, spietato con se stesso.
“Ho lasciato la mia famiglia. Sono andato a vivere all’interno della Sicilia. Sulle montagne, tra i boschi. Ad Aidone, Piazza Armerina, Raddusa. Avevo un cane. Lo chiamavo Libertà. Un pastore mi ha aiutato molto. Poi, ho trovato questo bastone, e ho incontrato una famiglia, in una fattoria, ed anche loro mi hanno aiutato. Un anno intero a pensare, a riflettere, a osservare. Sono andato ad Assisi. A piedi. E per le strade, nei paesi e nelle città che visitavo, vedevo la stessa disperazione che lasciavo a Palermo. Ad Assisi, ho visitato la Porziuncola, mi sono inginocchiato dinanzi alla tomba di San Francesco. Ho capito che dovevo ispirarmi a lui, e a Madre Teresa di Calcutta, e a Gesù Cristo, e che dovevo consacrare la mia vita ai poveri”.
Non era il padre di Francesco, il suo. Ma è stato molto difficile fargli capire quel che stava accadendo.
“Portavo via da casa quel che mi serviva, o portavo qualcuno, in casa, di nascosto, per lavarlo. Ero agli inizi. Andavo alla Stazione Centrale, a cercare gli affamati, gli ammalati, finché non li cacciarono anche da lì. Presi l’auto di mia sorella: una Cinquecento, e fu il primo dormitorio”.
Fratello Biagio non ricorda le sue proteste, i suoi appelli. Per ottenere qualcosa.
Un edificio abbandonato, ulceroso, disfatto, da trasformare in qualcos’altro. Puoi sempre distillare dell’acqua pulita da quella che gli altri buttano via. Il suo cappello, tra i boschi, e al suo ritorno, a Palermo, è stato per anni la manica di un maglione.
A Fratello Biagio, dà una mano anche la Curia Arcivescovile. Il Cardinale Salvatore De Giorgi, che ha benedetto i nuovi locali, di frequente celebra la Messa nella Chiesa costruita all’interno della Missione di Via Archirafi. Molte parrocchie, in città, promuovono delle collette, e raccolgono cibo e vestiti.
Fratello Biagio accenna ad un sogno. Si stringe le mani, e guarda in alto. Teme la vanità del dirlo.
“Dio mi punirà”.
Un nuovo Ordine? Fratello Biagio non lo dice.
“Non voglio precorrere i tempi. Sia quel che sia. Ma sta maturando qualcosa. Un’associazione di laici nella fede: tre Sorelle, e don Pino, un salesiano, e Fratello Giovanni, che voleva andare in Africa, con i Dehoniani. Forse, un giorno nascerà qualcosa. Speriamo”.
Nulla sul suo stato laicale, sull’ordinazione sacerdotale. La sua barba è lunga, però, e la sua schiena porta i segni dei sassi, le sue articolazioni sono indebolite dall’umidità notturna. Ad Assisi, a Greccio, così come a Corleone, i francescani riposavano sulle pietre di minuscole cavità, scavate come alcove nella roccia.
Ha poco tempo, Fratello Biagio. In Via Archirafi, stanno per esser celebrati i funerali di un ragazzo, uno degli ospiti (“Era molto buono. Ha sofferto. Pensavamo riuscisse a farcela. Ha donato i suoi organi”).
La sedia si muove lentamente. Il motorino elettrico, mosso da una leva, stenta a ripartire, e s’affatica sui sassi.
Indica una casupola.
“Era una garitta, quella. Ci stavano i soldati, di guardia. Ne faremo una Cappelletta multireligiosa. Qui preghiamo tutti insieme, sai? Cattolici, ortodossi, musulmani, induisti, buddisti. Ognuno a suo modo”.
Va via, Fratello Biagio.
“Pace e bene. Pace e bene. Pace e bene”.
Lo segue una cagnetta. Si chiama Speranza.
Fratello Biagio sale su una vecchia Croma amaranto. La marmitta sbuffa come una locomotiva.
E i soldi, per tutto questo? I restauri. Gli arredi. Settecentoventi persone da accudire. Il cibo. Le medicine.
Fratello Dario, arrampicandosi per le scale del dormitorio, dice che i contratti – per la luce, il gas, il telefono - li pagano le istituzioni: il Comune, la Regione. Al resto, pensa la Provvidenza.
“Quando abbiamo bisogno di qualcosa”, racconta quest’avvocato in jeans, di trent’anni o poco meno, lontanissimo dalle sete fruscianti per i corridoi del Palazzo di Giustizia, “è la Provvidenza a pensarci. Se al mattino manca qualcosa, arriva al pomeriggio”.
I bar, i ristoranti, i negozi. Per i palermitani, Fratello Biagio è semplicemente “Biagio Conte”. Questo? Questo lo diamo a Biagio Conte. E’ già un modo di dire, un segno. E’ già storia, quest’uomo, a quarantatre anni (e non gli pesa, naturalmente: non gl’importa).
Fratello Dario dice che ci vorrà ancora un poco di pazienza.
“Le donazioni sono diminuite di molto, negli ultimi mesi. Le elezioni, la crisi economica, non so. Ora, comunque, va già meglio”.
Al primo piano, tanti letti in ferro s’affiancano e s’incrociano, in un mosaico fittissimo, e i colori dei vestiti, e delle borse, raccontano di un Continente lontano, e allegro. Chi sta ancora dentro, a ripulire i bagni, s’avvicina. Sono in quattro, cinque. Le loro storie, a dire il vero, un poco s’assomigliano.
Al secondo piano, è stato appena risistemato il tetto, con le travi di legno a vista, bene incerate. Fratello Dario ne è molto fiero.
“Ogni estate, vengono qui a lavorare dei gruppi dell’associazione degli Universitari Costruttori. Si danno il turno ogni settimana. Danno vita a tanti progetti, in tutta Italia, regalando una parte delle loro vacanze a chi ne ha bisogno”.
Nella vecchia caserma, s’alternano medici, infermieri, impiegati, pensionati. Una volta alla settimana. Due. Tre. Di giorno. Di notte. Conquistati dal Carisma di Biagio e dalla forza delle sue visioni.
“E’ concreto, Fratello Biagio. Detesta le attese, le burocrazie. Dice sempre: una pietra dopo l’altra, in alto s’arriverà”.

OGNI VOLTA CHE


scopro un nuovo autore, e me ne innamoro, è una festa. Ho appena finito di leggere "Il Commissario Bordelli", acquistato ieri in economica (con qualche remora: il prezzo tenta e spesso delude). Primo di una serie, dedicata a questo Commissario che mi ricorda il Sarti Antonio di Loriano Macchiavelli (anche lui: il Sommo). Autore, Marco Vichi. Cosa mi resta, di quelle pagine che ora riposano sullo scaffale? (ed è un riposo non eterno, sia chiaro: i libri, infatti, li leggo e li rileggo, li riprendo anche solo per qualche pagina, li sposto, li rimiro: do loro tutto quel che serve per viver bene). Mi resta il travaso di letteratura (che intuisco), la misura della pagina e l'esattezza delle descrizioni (buon tornitore, Vichi), la grana grossa dei personaggi (mai affogarli in un mare di definizioni). Mi piace la malinconia. Non lo cito nemmeno, il Plot: che ce ne sia uno di solida fattura, è scontato. Come un telaio sul quale avvitare una buona carrozzeria. Farò macchina indietro, allora, ripescando gli altri libri di Marco Vichi. Le ultime (mie) scoperte di un certo rilievo tra gli italiani erano state quelle di Eraldo Baldini e, fuori dal Noir, di Maria Attanasio. Leggete, parvulos.

C'E' ANCORA CHI REPORT


Ancora una puntata magnifica, ieri sera. Milena Gabanelli parte dalla provocazione di Pietro Ichino, sul Corriere della Sera, nell'agosto 2006: i Fannulloni da licenziare. Gli assenteisti. I praticoni dell'ozio greve. E ci costruisce sopra una puntata. Il professor Fogliani, anziché insegnare Economia, in una Scuola Superiore, s'assenta con improbabili certificati medici e si dà da fare nel suo studio privato da Commercialista: con effetti devastanti sulla preparazione dei suoi studenti. L'Arsenale Militare di Bari con 1.300 Fannulloni totali. E infine, la Rai: ed è straordinario che chi lavora in Rai s'occupi giornalisticamente dell'azienda per cui lavora. In Italia, stanno venendo a galla uomini e pensieri nuovi. Ichino, che è un bel provocatore, sta sulla nuova strada che in tanti intendono percorrere. Inclusa Milena Gabanelli.

P.S. Leggete, se vi va, i libri di Ichino, e guardate le puntate d'archivio di Report.

domenica 20 maggio 2007

TI RICORDI DI UWE?


E’ il ventuno di novembre.
Fa freddo, se a Palermo il freddo autunnale può dirsi freddo.
Alle sette e mezza del mattino, le balàte della Vucciria sono fresche di rugiada, e sulla sua lingua di pietra, il Genio di Palermo sente ancora quell’acqua che - un tempo si diceva - mai sarebbe mancata, al Mercato, colando a rivoli dalle bancate, lustre di pesci vivi e d’alghe e di blocchi di ghiaccio.
Gharraf in arabo significa colma d’acqua, ma la Piazza del Garraffello è asciutta, oramai, cuore immobile e necrotico della Vucciria.
La Principessa Costanza ha tra le mani un involto candido, confezionato con cura. Un caffè amaro, in una tazzina di plastica col tappo in cima.
Uwe l’aspetta nella sua alcova in cima a Palazzo Rammacca (che fu banca pisana, la prima a Palermo).
Costanza scende le ripide scale dell’insulto, che dalla Via Roma – mutilazione ottocentesca inflitta alla Vucciria medioevale - conducono al Mercato.
Un soffio tiepido e marcio, come risalente dal profondo di un intestino tormentato, esala dai torsi di broccoli, dalle lische di sarde e dalle ginocchia di bue con i quali i mosconi banchettano in un angolo.
Osserva, Costanza, l’antica bottega del panettiere, il venditore d’olive bianche e nere, secche o saporite, e le prime bancate, in fondo allo stretto corridoio che introduce alla Piazza, o forse le ultime.
Un frastuono improvviso la paralizza.
Camion, autogru, autocompattatori.
Irrompono nella piazza.
Uno, due, tre, quattro.
Ne discendono decine di uomini, in divise diverse. Vigili urbani e vigili del fuoco in nero blu rosso giallo, spazzini in arancione a bande riflettenti.
L’uomo al Comando dispone strategicamente le truppe, e dà loro le disposizioni che attendevano per dar l’attacco alla Cattedrale.
Alla Cattedrale di Uwe.
Fermatevi, dice Costanza.
Fermatevi, dice Uwe.
Fermatevi, dice la gente della Vucciria.
Salvano solo un cartello, i demolitori: una Santa Rosalia pop che esclama in un fumetto “Tu sei Uwe”. Calano piano piano, per devozione alla Santuzza, quella sorta d’annuncio, d’epifania: fino a terra, al centro dell’Ufficio, anch’esso in via di smantellamento, a quella tana fra le torri di pneumatici dalla quale, come roditori, Costanza e Uwe hanno osservato per mesi il nutrimento della piazza, il conferimento dei rifiuti al Genio, individuando le loro prede.
Costanza avverte subito i tour operators che a Palermo portano ogni anno migliaia di fotocamere digitali appese al collo di appassionati americani, francesi, svizzeri e tedeschi. Sbarcano all’aeroporto Falcone e Borsellino, e salgono sui pullman: prima e ultima fermata, al Garraffello, al “Museo della Cattedrale”. “Non c’è più”, dice Costanza. Per correttezza.
Fino a poco prima, nel ristretto e invalicabile perimetro del Garraffello, dinanzi alla Loggia dei Catalani, che prima fu dei Genovesi e che s’oppone al Palazzo Mazzarino (dove nacque il Cardinale); in quelle diciannove stanze oscenamente esposte allo sguardo dei passanti sin dallo stupro dei B52, nel Quarantatre; in quei ventri vecchi e ossuti, erano in mostra le viscere della Vucciria: la munnizza, strappata ai cassonetti e alle balàte, e mutata in stucchi e marmi e gessi: travi cessi pneumatici cassette televisori fiori finti vasi sedie carburatori lampadari flipper tavoli.
Ci si poteva anche fermare e indicare: “A bicicletta ru zù Pinu”, “A seggia ra nonna”, “U vespinu ru papà”. Era di tutti e di nessuno, quella Cattedrale, per la quale erano occorsi centrotrentaquattro giorni di caccia e sventramento, dal ventisette maggio al sette ottobre di quest’anno; dieci ore di lavoro al giorno, senza pausa: dal primo sguardo mattiniero al terreno di caccia, su dall’alcova del Rammacca, alla raccolta e all’arrampicata sulla fragile impalcatura michelangiolesca in cima alle navate, per dar forma e colore all’affresco sanguinolento, di viscere appunto.
Uwe Jantsch ha trentasei anni. E’ tedesco, di padre, berlinese, e austriaco di madre. E’ nato a Bregenz, in riva al Lago di Costanza. A Palermo, dove vive dal Novantanove, ha incontrato Costanza, dei Principi Lanza di Scalea. Si fa presto a mettere insieme i frammenti – con il tedesco che a Palermo s’innamora di una Costanza - e a ricordare lo Svevo, Federico Secondo, che di Costanza d’Altavilla era il figlio e di Costanza d’Aragona il marito.
Uwe è l’Anti-Christo.
Se Christo, il Bulgaro, con Jeanne Claude, impacchetta i palazzi, li fa bianchi e squadrati, Uwe li squarcia, ne estrae amorevolmente le interiora, le budella ancora calde, palpitanti (ton sur ton con le frattaglie e le raschiature in vendita da queste parti, delle quali i palermitani sono ghiotti).
Christo ha impacchettato anche la Casa Madre della Multinazionale Wurth, Amministrazione e Museo, nei pressi di Stoccarda, e dunque nell’antica Svevia.
E giusto perché il filo non si spezzi, in questa storia (filo rossarancio, sanguinello, color concadoro), va detto che il settantino o quasi Reinhold Wurth, vivendo a Schwabisch Hall, con Palermo ha in comune l’Imperatore, l’Hohenstaufen, e le briciole rimaste del suo Regno: i Castelli, e la Cappella Reale.
A Palermo, Wurth era venuto a rendere omaggio alle tombe di Federico e Costanza, in Cattedrale, e un giorno - poco dopo un terremoto, uno di quelli piccoli che non scuotono le mura ma ne sbriciolano l’anima e le malte - decise di pagar di tasca sua il restauro della Cappella Palatina, sigillata dagli spagnoli nel porticato al piano nobile del Palazzo dei Normanni, e dei suoi mosaici, d’oro e lapislazzuli, raffiguranti Apostoli e Santi, insieme al Cristo Pantocrator (in atteggiamento benedicente).
Dinanzi alla Cattedrale di Uwe, dinanzi alla sua Croce, incombente sulla piazza del Garraffello, i vecchi della Vucciria si segnarono la notte in cui il Palermo fu promosso in Serie A.
Una Cattedrale di rifiuti in luogo delle sette Chiese della Vucciria chiuse da anni.
Quando le truppe in divisa tagliano quella Croce, Costanza trattiene le lacrime, per antico orgoglio, come i suoi antenati fecero in passato, ad ogni assalto, ad ogni rovescio della sorte.
I camion portano via marmi stucchi e gessi, e sulla piazza, giace orfana una culla sconnessa, sulla quale riposano poche tracce di quel capolavoro.
Sulla piazza, rimane la munnizza pulita, organica, marcescente.
Quella sporca, blasfema, migra verso il Purgatorio di Bellolampo.
La storia è già sui cartelli dei Cantastorie di Balarm, un sito web che, a migliaia d’abbonati alla newsletter quotidiana, racconta di Palermo e dei suoi eroi - artisti, scrittori, teatranti - e che deve aver confuso Palermo con Parigi o con New York o con Berlino, per l’evidente smisuratezza delle sue pagine.
A Palermo, Uwe è arrivato per caso.
Qualcuno, nella sua Bregenz, gli disse un giorno di buttar via le sue tele, le sue installazioni in due povere case dirute. “A Palermo, a Palermo”, disse l’amico, che a Palermo aveva vissuto, proprio in Piazza del Garraffello: un luogo magico, fuori dal tempo, che colpì Uwe fino a stordirlo.
Uwe s’è risvegliato in un Regno tutto suo; prima di lui, era abbandonato, terra di nessuno.
Le sue opere mobili, che gravitano intorno all’installazione che da sette anni si ripete e si rinnova - dai primi fiori disposti ordinatamente in quelle diciannove logge oscene, sino all’edificazione della Cattedrale – Uwe le ha vendute altrove: a San Francisco, a Zurigo, a Vienna.
“Sono uno straniero”, dice Uwe, “e qui a Palermo ci sono solo stranieri di terza classe. In passato non era così” (tanto è vero che un austriaco, suo semiconterraneo, Joseph Hager, nel Settecento struccò l’arabica impostura dell’Abate Vella - autore di un falso documento che minava l’autorità dei baroni e gli affidamenti reali delle loro terre - e cambiò per onestà o per vanteria la storia della Sicilia, che per un altro secolo rimase feudale).
Palermo ha acquistato una sola opera di Uwe, in sette anni: una fotografia cinquanta per settanta dell’Ufficio, della tana: vista e comperata da Antonio Ardizzone, editore del Giornale di Sicilia.
Non deve stupire, poi, che sui Fatti del Garraffello sia stata aperta un’inchiesta ed Uwe e Costanza siano stati chiamati in Procura a risponder delle loro visioni.
Si è levata una sola protesta, dopo il ventuno novembre: del nuovo assessore comunale alla Cultura, Tommaso Romano, conservatore colto e gentile, per il quale “l’attentato alla libertà d’espressione, e quindi alla libertà dell’arte, è assolutamente inconcepibile”.
La Vucciria, che già in inconsapevole agonia fu ritratta da Renato Guttuso, ora è un deserto. Il primo colpo, al Mercato, lo inferse il trasferimento dell’antica fontana a Piazza Marina, secoli fa; poi, il taglio di Via Roma; infine, la nascita dei supermarket, che hanno svuotato di senso le “abbanniate”, i canti da Muezzin senza più minareti che magnificavano – nel Suq, nella Boucherie: il Mercato delle Carni – la freschezza del pesce appena pescato, il profumo della frutta, la seta delle verdure, la fragranza delle spezie.
Sono spariti, per conseguenza, i vasi di miele e gli sciami di perditempo, di allisciabalàte, opposti simmetrici degli ingravidabalconi catanesi, occhi bassi contro occhi alti, punici contro greci, caos contro ebbrezza, Baal contro Dioniso.
Nella seconda parte del Novecento, e ancora oggi, Palermo ha seguito come una Fede la sua Estetica della Rovina. I bombardamenti, che aprirono un cuneo nel Centro storico, condussero alla cementificazione delle periferie e ad un inspiegabile ostinato rifiuto dell’architettura contemporanea, e infine, ad un Piano di Restauro votato all’imbalsamazione del cadavere (il morto restava in casa, ma avrebbe smesso di puzzare).
La riconsacrazione della piazza del Garraffello – di Palazzo Rammacca, di Palazzo Mazzarino, della Loggia dei Catalani – si deve, o si doveva, al Genio di un tedesco e di una nobildonna palermitana.
L’ironia adottata nei confronti di quest’eccentrica Fede Estetica è testimoniata dalla copertina del catalogo appena stampato da Uwe sull’installazione della Cattedrale, con i grattacieli di Chicago sovrapposti alle rovine di Palermo, tra mare e terraferma.
Da studi e gallerie, al Garraffello, son passate la Nuova e la Nuovissima scuola di pittori palermitani, da Alessandro Bazan al Laboratorio Saccardi; e nella Suite 25, l’alcova di Uwe, hanno soggiornato decine di artisti contemporanei, giunti da ogni parte del mondo.
“Tu sei Uwe”, dice la Santuzza (e su queste pietre…).
Difficile non crederle.

Così scrivevo di Uwe. Poco fa.

NEC TECUM NEC SINE TE, GUIDOLIN


Al campo “Tenente Onorato”, di Boccadifalco, ai piedi delle colline che sovrastano Palermo, ci sono ancora i cartelli “Zona Militare, Vietato avvicinarsi”.
Lì dove non c’era l’erba, ora c’è, e presto ci sarà anche una palestra: avveniristica, attrezzata con le più moderne tecnologie.
La nevrosi organizzativa del Presidente Zamparini, che d’impresa ne mastica e pure d’uomini e cose, ha fatto sì che gli uomini dell’antica società del Palermo Calcio abbiano finalmente una loro cittadella dello Sport (en attendant il nuovo Stadio).
Francesco Guidolin, allenatore roccioso (per tempra e massa magra: “Roccia”, come Tarcisio Burgnich), e uomo di medioevo colto (e perciò a Palermo in un ventre di vacca), sostiene d’averne fatta di strada, con questo Presidente - il Nostro, dice - e il Direttore Sportivo, Foschi, che in campo si sbraccia, pure lui, fino allo sfinimento, ed è il regista delle trattative di Calcio-mercato (e qua, s’apre e si chiude la parentesi del miracolo d’impresa che è la società: acquisti nelle serie minori, lievitazioni atletiche e vendite al rialzo).
Come ogni cosa che a Palermo vale una passione, la squadra si deve alla follia: quella dei fondatori, in una Palermo che s’era scoperta anglofila, nonostante il Liberty, e quella dei prosecutori, tra Decò e champagne. Alla pazzia della guerra, seguì la sconsideratezza della ripresa, a lungo vagabonda tra i conci impoveriti dai crolli e la polvere che velava gli sventramenti dei B 52; sicché, non pesarono troppo, nella generale rassegnazione, le lacrime della retrocessione e dello scippo della Coppa Italia (lacrime che bagnarono anzitutto il viso di un Lord Presidente, Renzo Barbera).
La storia, idealisticamente, si conduce secondo un fine. Ci furono dei personaggi, e qui s’arriva al punto, che inconsapevolmente condussero i giocatori in campo e li sostennero negli spogliatoi e nelle partitelle, con il solo obiettivo di preparare l’avvento del Mister di Castelfranco Veneto, Francesco Guidolin.
Furono Pan e Dionisos a stendere l’elenco degli allenatori, pregustando l’ebbrezza dei sacrifici: Di Bella e De Grandi, “Umani, Troppo Umani”; Viciani, un “Sacchi dei poveri”, raccontano in un libro Roberto Gueli e Paolo Vannini, giornalisti e storici del Palermo; Rumignani, capace d’inventarsi un compleanno, per tener su il morale della squadra; Arcoleo, dissipatore delle proprie fortune, e il sessantottardo Morgia, che ai giornalisti disse: “Parliamo di Belgrado, e dei bombardamenti: non ho dormito stanotte, e non ho voglia di parlar di calcio”.
Fu però con due portatori tibetani, Sonzogni e Baldini, che si giunse a Guidolin.
Il Mister parla di sé come di un giocatore senza troppo successo, che le palle le ha tirate fuori davvero nella seconda vita, quella d’allenatore: nell’ascoltarlo, si vorrebbe esser certi che abbia compreso – lui, nel cuore protetto da uno sterno d’acciaio, e nel capo eretto, e ostinato - che non vi è un prima e un dopo, e che il Tempo ha i suoi diritti su di noi.
Fu a dieci anni, infatti, che il Tempo decise di soverchiarlo. Era il 1965, ed era trascorso poco tempo dalla guerra, e i genitori c’erano passati, dalla fame e dal poco che l’immaginazione fa divenire abbastanza. Erano i tempi dello Sport narrato dalle voci di Nicolò Carosio e di Adriano De Zan, del Calcio e del Ciclismo. E Francesco Guidolin li scelse entrambi, in attesa che loro si mettessero d’accordo, per prenderselo tutt’intero. Avrebbe potuto seguire il mestiere del padre, un piccolo commerciante, ma – sostiene Guidolin – non sarebbe stato bravo nel contatto con la gente: ed è una sorta di Gouldismo attenuato (racconta Michel Schneider che Glenn Gould teorizzava il bisogno di “x” ore di solitudine, per ogni ora trascorsa in compagnia).
A diciott’anni, stava per lasciare Castelfranco Veneto per Verona, e la sua fortuna fu la famiglia, e un padre appassionato di Calcio. In campo non fece una bella carriera, dice, ma da allenatore si sta rifacendo. Ha tanta gavetta alle spalle, che viaggia con lui, e ancora tanta voglia di percorrere strade nuove.
Sogno e doppio sogno. Il Calcio e la Bici. E’ nella fatica della pedalata, quando la china si fa più dura, le cosce si allattano, si fanno di legno, e il sudore impregna la maglietta e scorre dal sellino all’acciaio, che i pensieri se ne vanno. Il suo cervello non smette mai di lavorare. Pensa, Guidolin, alla sua squadra, e non ci sono schemi, in quei pensieri, non ci sono astrazioni geometriche, ma i talenti di ventidue uomini, e pure dei ragazzi della Primavera, che egli compone e ricompone come un regista di teatro alle prese con una scuola e degli allievi, e prepara, nel pensiero, le parole giuste, gli incoraggiamenti, per tirar fuori da ciascuno l’estro di un tiro aereo, di uno stop e di una giravolta, la velocità di un arretramento, la fulmineità di un contropiede, l’intuizione di un affondo; e i portieri, poi: Agliardi e Fontana che doveva far da chioccia al primo e a quasi quarant’anni si scopre morbidissimo Judoka, a volare sul prato come su un tappeto rituale.
Pensa al Campionato, alla Coppa Uefa e alla Coppa Italia: tre squadre differenti, in difesa e al centrocampo; attingendo all’intera compagnia, senza prime né repliche, in una corale esibizione di attitudini.
Guidolin spinge sui pedali e s’annulla nella fatica, in quella sorta di Meditazione che a cinquantun anni è oramai disciplina, ed è nel sollevarsi da terra che s’accorge di quel che gli sta intorno: gira per le colline e le valli della Sicilia, la Montagna e il Mare, racconta (“Ho fame di Mediterraneo”), e non cita neanche una città: ha occhi solo per le meraviglie dei luoghi che l’uomo non ha cambiato.
Da qualche parte, poi, intravede le tracce delle cavalcate del suo amatissimo Federico Secondo, Stupor Mundi, l’Imperatore assoluto, crudele coi baroni ribelli e illuminato dai versi della Scuola Siciliana, dalle Costituzioni di Melfi, dalla riconoscenza dei tre popoli – cristiano, ebreo e musulmano - che a Palermo e altrove s’intrecciavano in comunità.
Lo conosceva prima e lo conosce meglio adesso. Sotto il Regno di Federico, dice, Palermo era la città più rigogliosa d’Italia, da lasciare a bocca aperta.
Ora Palermo è pericolosa, in bicicletta, e pare che intenda: “a cavallo”.
Seduto sulle gradinate del “Tenente Onorato”, le mani nervose, e le ginocchia nude e accostate, Guidolin racconta dei suoi sfarzosi isolamenti mentre lo sguardo va al prato ben rasato, e deserto, i giocatori in attesa negli spogliatoi.
Regista o Condottiero? Ci pensa e non risponde. O quasi. Si limita ad alludere. Regista. Poi, due o tre fughe linguistiche (lapsus, li chiamava l’austriaco), echi medievali, di campi e tende, e fuochi.
Al ritratto di Federico oggi si sovrappone quello di Gigi Riva. Era il suo mito, racconta, i muri della sua stanza da ragazzo erano ricoperti di ritagli e fotografie del gran gentiluomo del Calcio italiano.
Spero di assomigliargli, dice.
Vorrebbe che il Calcio tornasse ad essere quel che era. A tutti quelli che oggi l’applaudono – nel singolare paradosso della smisuratezza fra nascondimento e immagine pubblica, comune ad altri orsi: fra gli altri, a caso, Gould e Benedetti Michelangeli – vorrebbe raccomandare di fidarsi delle persone serie: individuatele, dice, attraverso la tv (ed è in fondo un invito a nutrirsi di pane e filosofia: usate il cervello, sottintende).
Qui vien da ricordargli le sue dichiarazioni, in tv: vince, talvolta trionfa, la sua multiforme squadra, e lui dice che bisogna volar basso, accontentarsi, puntare ad un buon piazzamento, sì, ma lo Scudetto è un’altra cosa, non bisogna puntare così in alto, e certo non così presto; i suoi ragazzi falliscono un assedio, una battaglia, e lui insiste che va bene così, che gli avversari meritavano.
Il club ha fatto dei passi da gigante. Dev’esserci un metodo, vien da pensare, una ricetta, un’alchimia.
Nulla di tutto questo. Giochiamo con più sistemi, dice Guidolin. I ragazzi bisogna allenarli. E’ necessario coinvolgere quante più persone è possibile. Il gruppo – proprio così: il gruppo, senza o in antitesi al leader - deve sentirsi protagonista, responsabile. La cosa più importante è far da guida con il proprio comportamento. Ci vogliono democrazia e convincimento.
Patti chiari, servono, e allora, sin dal principio, s’era detto: niente sconfinamenti nella sua vita privata, Mister. Ma a casa, ci torna ogni tanto?
Palpebre che si chiudono, come per una messa a fuoco, e scuotimento sulle punte dei piedi, sempre seduto su una gradinata tiepida, scaldata dall’ultimo sole di novembre.
A casa torna poco, dice, ha poco tempo. L’anno sportivo per Guidolin è stressante. Da un punto di vista fisico, precisa. Vorrebbe esser “protagonista” del suo tempo. E’ per questo che viaggia pochissimo. Niente aeroplani, se non strettamente necessari. Può accadere che un volo sia cancellato, che una coincidenza ritardi, che uno sciopero improvviso mandi i tuoi piani all’aria.
Torna a casa idealmente, allora: ai suoi libri, e al suo cinema. Adora François Truffaut, e chi ama i Quattrocento Colpi e Gli Anni in tasca, sa cos’è la poltrona, e il buio, e lo smarrimento nel lenzuolo che si colora di vite altrui. Nel suo Olimpo, c’è anche James Ivory, e qui, lo scavo si fa impervio, e le pareti, appuntate a fatica, rischiano di crollare. Si può essere doppi anche in questo, divisi tra due poeti così lontani, tra Antoine Doinel e Anthony Hopkins? Poi, si pensa alla mano di Ivory, agli interni, all’accuratezza delle ricostruzioni, delle recitazioni, al sentimento, alla nostalgia, alla timidezza, e tutto torna, tout se tient.
C’è una cosa che vuol svelare, Guidolin, che non ha mai detto.
Quando la curva lo chiama, Guidolin-Guidolin-Guidolin, mezz’ora prima della partita, si sente in imbarazzo con i suoi giocatori. I protagonisti sono loro. Ma la felicità, in quel momento, lo attraversa come una scossa elettrica. Gli dà la forza, probabilmente, di saltare, ad ogni gol, o ad ogni contrattempo, in quel modo curioso, che gli fa assumere le fattezze di un uccello di terra, impaurito.
Quando il Fato decise d’insinuarsi tra lui e il Presidente, e il Mister lasciò Palermo per un anno con l’elegantissima squadra del Principato di Monaco, quella curva scrisse su uno striscione: “Torna Guidolin”.
Guidolin è tornato.

Così avevo scritto a novembre. Oggi, dopo Palermo Siena (e il 2 a 1 da Uefa è solo un dettaglio), va nuovamente bene.

sabato 19 maggio 2007

MEMORIA CONDIVISA


Flickr, in una parola: www.flickr.com
Sito di condivisione di fotografie d'ogni genere e qualità, d'ogni luogo ed etnia, dal quale traggo questa foto della palermitana Piazza Pretoria, altrimenti detta delle Vergogne, per via delle impudiche esibizioni maschili e femminili, e con involontaria associazione d'altre vergogne (amministrative: qui ha sede il Comune di Palermo).
Foto che racconta pure di una fontana acquistata altrove, in Toscana, cinque secoli addietro: a buon prezzo, si racconta, giacché rifiutata dal primo committente, e pur risultando smisurata rispetto alla piazza del Palazzo Senatorio (o dei Giudici, o Pretorio, o delle Aquile), fu comunque collocata.
Il racconto potrebbe proseguire sul perché, di quell'acquisto, e sulla sua spedizione, sul faticoso montaggio, sulla complessità del suo funzionamento, e sugli oltraggi subiti nel tempo, da quelle statue vergognose.
Questa foto - parte della Memoria di Palermo, scattata da non so chi e inserita in Flickr - è un chicco di riso nel deposito del Mandarino.
Flickr, approvvigionato da tanti osservatori ed oramai di sterminate proporzioni, elimina la necessità di creare per sé un archivio fotografico: fisico, cartaceo, o virtuale, digitale, sul proprio hard disk.
Serve a raccontare.
E chi vuole ascoltare (vedere), sa di poter contare sul racconto altrui.
Il futuro è Memoria Condivisa.

venerdì 18 maggio 2007

WE MAKE LOVE


Not War. Cinquanta lavoratrici del sesso, a Padova, hanno manifestato per i loro diritti, e per quelli dei clienti, ingiustamente multati dal sindaco diessino. Noi facciamo l'amore, hanno scritto nei loro cartelli, non la guerra. Dal '68 al 69.

DIALETTICO BUTTAFUOCO


Ha appena debuttato con Giarabub, e già nel titolo era da considerarsi indigesto alle tribù politicamente corrette, per non dire nel contenuto: i musulmani d'Italia, e i poeti davvero maudits. Ora, il giornalista di Panorama e scrittore fascistissimo Pietrangelo Buttafuoco, che nasce ad Agira e si fa le ossa al Secolo d'Italia e subito dopo al timone dell'Italia Settimanale - luminosissima meteora del buon giornalismo italiano - dovrà far su e giù tra Catania e Roma. Tra la Direzione di un Teatro Stabile e la conduzione dell'edizione estiva di "Otto e Mezzo". Due sostituzioni: di Pippo Baudo, in pianta "stabile", e di Giuliano Ferrara, pro tempore. Che metaforicamente parlando, significano l'Alfa e l'Omega, il lungo e il largo, il cristiano empio e l'ateo devoto, l'ex democristiano passato a sinistra e l'ex comunista passato a destra, il teatro in politica e la politica in teatro. Sicché la Dialettica mutò in una specie di Tao, di Yin e di Yang.

MAFIA E PAURA


La mafia c'è ancora, ce n'è tanta, e sta cambiando. A San Giuseppe Jato, dopo le manette a due "esterni" in rapida ascesa (profittando dell'arresto, un mese fa, del Boss locale), percepisco la paura. Gli amici degli amici pattugliano le strade, controllano le case degli arrestati. Le vittime delle estorsioni hanno paura. La vincono, e collaborano con la giustizia. Mi chiedo cosa stiano pensano, adesso. Se riescano a guardare al loro futuro. Lo Stato deve usare le maniere forti, mi rispondo. Serve una paura più forte. E' la sola cosa che riesco a immaginare: un argine, una diga che impedisca alla paura di mafia di tanta gente di tracimare, di travolgere quel po' di fiducia che faticosamente in questi anni è cresciuta.

giovedì 17 maggio 2007

MATERIE OSCURE



Prima o poi, la Terra sarà travolta dal collasso del Sole. Non si può fare a meno di cercar consolazione in una battuta di Woody Allen: "Cosa conosciamo? Cioè cosa siamo sicuri di conoscere, o sicuri che conosciamo di aver conosciuto, se pure è conoscibile? Possiamo conoscere l'Universo? Mio Dio, è già così difficile non perdersi a Chinatown".
Sul sito del Corriere della Sera leggo che un ricercatore ha trovato la prova dell'esistenza della "materia oscura", e che quel che conosciamo è appena il 4% dell'universo. Ci sfuggono il 73%, l'energia oscura, e il restante 23%: la materia oscura, per l'appunto.
A me, pare una stima ancora eccessivamente ottimista.
Mi sembra di ricordare che alcuni scienziati abbiano espresso l'opinione che tutto ricomincerà daccapo: espansione, contrazione, nuovo big bang e altro ciclo. Un eterno ritorno.
Chissà se saremo ancora noi i protagonisti del copione. Se ripeteremo gli stessi errori. Se riproveremo gli stessi momenti di felicità. Se avremo un'altra chance.
Forse, nell'infinita variabilità dell'Infinito, ci sarà un numero incalcolabile di repliche del suddetto copione, con un numero incalcolabile di variazioni.
Ne deduco che bisogna stare attenti a trattar male il vicino, il collega, l'avversario politico.
Prima o poi, ce lo ritroveremo in veste di cognato, seduto accanto a noi, al pranzo della domenica, e sul divano, a commentare l'ennesima sconfitta del Palermo.
Se di sesso o inclinazione diversa, sarà solo questione di tempo, e vivremo con lui o con lei una fantastica storia d'amore.

La foto è tratta dal sito del Corriere, e ritrae l'anello luminoso che rivela la presenza della "materia oscura". E' quella senza occhiali.

mercoledì 16 maggio 2007

CRONACA O NARRAZIONE


Può il romanzo diventare il ricettacolo delle peggiori nefandezze che la cronaca ci rassegna ogni mattina? Della cronaca taciuta, anzitutto: di quei fatti che per ovvie ragioni di marketing editoriale sfuggono alle macchine inchiostratrici e alle antenne radiotelevisive. Scandali. Misteri. Sofisticazioni. Furti. Omicidi. Stragi. Penso ad alcuni libri di alcuni autori che non cito, nemmeno sotto tortura. Eppure, di cronaca scrissero autori straordinari (e farei meglio a dire che dalla cronaca partirono). Un nome? Gide. O scrivono tutt'ora. Un nome? Ellroy. Ma c'è qualcosa che in Italia non riesce, alla suggestione di cronaca, se non in rarissimi casi: la funzione di lievitazione della narrazione. La cronaca non è sacra. Va contaminata. Manipolata. Tradita per restituirne un contesto più ampio, e autentico. Interpretabile. Ecco. Tra la parola scritta e l'orizzonte che essa disegna, il lettore deve muoversi liberamente. Interpretare.

DEMOCRAZIA DIRETTA. DOVE?


Quasi quattromila candidati: al Consiglio Comunale, alle Circoscrizioni.
Su una città che conta 700.000 abitanti.
Al netto di lattanti, minorenni e astenuti per vocazione o necessità, un candidato ogni 100 abitanti. E dunque, ogni cittadino di Palermo si sarà ritrovato a scegliere tra un cognato, una suocera, un vicino di casa, un capufficio, un medico curante; avrà scansato ogni allusione al prossimo imbarazzante momento della scelta; avrà elaborato una risposta diplomatica standard per ognuna delle 20 o 30 richieste di voto avanzate direttamente, o ne avrà elaborato più di una; avrà documentato degli impedimenti gravissimi alla partecipazione a pranzi cene feste cocktail comizi elettorali; avrà incrementato sostanziosamente la propria offerta alla campagna per la raccolta differenziata della carta, con fac simile e materiali vari; avrà provato a calcolare quante promesse siano state formulate, per l'ottenimento della sospirata preferenza, e quanto abbiano speso, tanti candidati allo sbaraglio.
E infine, chiedendosi il perché di tante candidature suicide, ogni cittadino di buon senso sarà giunto alla sola possibile conclusione: c'è una relazione inversa, tra il numero di candidature e la quantità di politica sulla quale gli elettori sono chiamati a pronunciarsi.
Più candidati, meno politica.
Con una paradossale conseguenza: che tutti gli azzardi intellettuali sulla degenerazione della politica in immagine, in tecnica della comunicazione, hanno partorito un mostro ancora peggiore: una parodia della democrazia diretta.
Diretta, sì. Ma verso dove?

martedì 15 maggio 2007

I MILLE VOLTI DEL DIALOGO


Il dibattito si apre con i saluti del presidente del Rotary Club di Bagheria, Michele Cuffaro, del Sindaco di Bagheria, Biagio Sciortino, del Console del Marocco, Youssef Balla, della presidentessa dell'Associazione per l'amicizia tra Sicilia e Marocco, Vincenza Muratore.
L'idea è di consentire il dialogo tra gli esponenti delle tre grandi religioni monoteiste. In quel momento: ieri pomeriggio, 14 maggio, a partire dalle 17.30. In quel luogo: il magazzino del vino di Villa Cattolica, a Bagheria. Che già nella doppia denominazione, Cattolica e "del vino", contiene un doppio limite per due dei tre ospiti: Mohamed Nour Dachan, medico bresciano di origine siriana, presidente dell'UCOII (Unione delle Comunità Islamiche Italiane), e Luciano Caro, Rabbino Capo della Comunità di Ferrara. C'è anche Padre Gianni Notari, Gesuita, intellettuale progressista e Direttore del Centro Studi "Pedro Arrupe" di Palermo.
Penso che di Dialogo si possa parlare con il ragionare su 4 parole: Amore, Straniero, Martirio, Guerra. Quattro fondamenti. Quattro archetipi.
Dachan chiede che del dialogo si parli in modo esplicito, evitando i rischi legati ad alcune questioni: il Martirio e la Guerra, in particolare. Detto e fatto. Ma occorre parlare di tutti i volti del Dialogo.
Il Dialogo tra popoli, il Dialogo tra conoscenze (a partire dalla scuola), il Dialogo che parta dall'Imperfezione di ciascuno, e dai limiti della conoscenza, il Dialogo che ispiri la generazione di nuove forme sociali e istituzionali di convivenza.
Dachan dice: "Ho 9 figli, e hanno studiato in scuole italiane. Laiche".
Caro parla delle differenze, e di quelle che davvero creano gravi tensioni nel nostro mondo: le differenze economiche.
Padre Notari accetta la sfida del Dialogo tra simili eppure differenti, e accentua l'aspetto mistico della questione: con il sogno di Giacobbe, e la corda tesa verso il cielo.
Racconto di una visita alla Moschea di Al Aqsa: il guardiano mi consente di entrare. Mi spalanca le braccia. Dice: Siamo fratelli, popoli del Libro. Scendo gli scalini che portano alla Roccia di Abramo. E' commovente vedere tanta gente che prega e che discute, sottovoce.
Cito un passo d'ispirazione Sufi di una Raccolta di Detti di Maometto, sulla convivenza tra ebrei e musulmani.
Dachan abbassa il capo, in segno di assenso.
Non facciamo teologia, risponde Caro. Parliamo del nostro mondo. E su questo, l'accordo con Dachan.
Parliamo del tentativo - aggiunge il leader dell'UCOII - di dare una cattiva immagine dell'Islam, degli interessi economici.
Il dibattito scorre sereno e si chiude con un momento di preghiera comune: la preghiera rotariana, modificata in modo da includere il diverso Credo di ciascuno.
E' un piccolo passo, di un cammino che sarà lungo e temo ancora tormentato.

lunedì 14 maggio 2007

PARIGI LO VENERA


E Palermo lo ignora. Così leggo su una prestigiosa rivista musicale, che al palermitano Salvatore Sciarrino dedica una lunga intervista. Sui suoi lavori trascorsi e sui suoi lavori futuri. Chiunque farà il Sindaco, a Palermo, nei prossimi cinque anni, dovrebbe darsi un obiettivo, tra gli altri. Far piazza pulita delle ipocrisie sulla fuga dei cervelli (E' la globalizzazione, bellezza!) e far qualcosa per farli ragionare insieme, i cervelli di questa città. Esempi? Michele Perriera non ha mai avuto un teatro tutto suo. Piero Violante non ha mai avuto accesso alla Direzione Artistica di un Teatro Lirico. Salvatore Sciarrino meriterebbe una Rassegna. L'elenco, per fortuna, è lungo almeno cinque anni.

domenica 13 maggio 2007

BOOK CROSSING A PALERMO


E' nato casualmente, e la leggenda dice a Londra, il Book Crossing. A St. James Park, a pochi passi da Buckingham Palace. Con i libri dimenticati o abbandonati sulle panchine, e immagino gli scoiattoli avvicinarsi a loro, fiutarli, provare a spostarli con la zampetta, e fuggire all'arrivo di un essere umano. I libri letti e lasciati al loro destino, presi e scambiati, senza un volto al quale collegarne il futuro. Lasciando fare al Caso. E' questo il Book Crossing, che si è poi allargato agli Stati Uniti e al resto d'Europa: alle metropolitane, alle ferrovie, ai sentieri della corsa mattutina, alle lavanderie a gettone. Il Museo Pasqualino, da due anni, regala ai bambini il piacere di disfarsi di un libro che ha regalato loro del piacere, e di innamorarsi di un nuovo libro. Terza edizione, questa, dal 17 al 20 maggio: con tanti eventi. La presentazione di nuovi libri, le letture, i laboratori, gli spettacoli. Annamaria Piccione è una sperimentatrice dei linguaggi per i più piccoli. Vale la pena di non mancare. E di non rinunciare a Romina Mancuso, e a Cecilia Di Vita. E a tutti gli altri appuntamenti, in verità. PHD (pleasure high density).

venerdì 11 maggio 2007

BUSINESS AMBIENTALE


Una gita in discarica può regalare un piacere assoluto. Tra Montallegro e Siculiana, tre imprenditori di prima generazione - i fratelli Catanzaro - hanno scoperto il Business ambientale/energetico. Hanno trasformato una discarica, nata nel '90, prima in una discarica controllata (accesso limitato ai rifiuti solidi urbani non inquinanti e seppellimento secondo un progetto di rinaturalizzazione) e poi in una discarica controllata capace di estrarre Biogas dalla decomposizione dei rifiuti accumulati nelle vasche oramai esaurite, chiuse. I rifiuti sono quelli di 400.000 siciliani, di 3 province: Agrigento, Caltanissetta e Trapani. Poco meno di un decimo degli abitanti della Sicilia. Tanti i vincoli ai quali obbedire: ben 82, imposti da Palermo, Roma e Bruxelles. Compresi quelli ambientali. E dunque: muretti a secco, strade non asfaltate e ispezionabili, terrazzamenti coltivati a Sulla (tagliata e lasciata decomporre per nutrire i terreni). E poi, incredibile, non c'è cattivo odore, a meno di star sottovento; non ci sono topi o cartacce per terra; gli operai sono in tuta bianca, guanti, calzari e maschera antigas; l'impianto è video sorvegliato elettronicamente, e le forze dell'ordine vigilano contro possibili tentativi di scarico abusivo. Il ricavato della vendita del Biogas torna ai cittadini, che pagheranno di meno le tasse dei rifiuti. Incentivando così la raccolta differenziata: più rifiuti umidi, organici, più Biogas, meno tasse. Non solo: tra un po', in questa discarica arriveranno gli specchi fotovoltaici, sfruttando le reti elettriche esistenti. E' il Business ambientale, ragazzi: è il Futuro. Tra Montallegro e Siculiana, provincia di Agrigento. Non in periferia di Stoccolma.