sabato 28 luglio 2007

FERIE D'AGOSTO


Anche per me. A luglio, bloggare in calo. Ad agosto, poi, si spegnerà quasi del tutto. Insieme alla lettura dei giornali. Libri in rialzo. Buone vacanze.

venerdì 20 luglio 2007

MENO CANDIDATURE, PIU' FUTURO


Un Blogger, Mario Adinolfi, si è in questa veste candidato alle Primarie per la scelta del Leader del Partito Democratico. In alternativa a Walter Veltroni, ed ora anche a Furio Colombo e a Rosy Bindi. Adinolfi, che ha 35 anni, vuol rappresentare i giovani e il "popolo della Rete" (viene meglio in inglese: Web People).
Ha scritto un appello molto "politically correct", e probabilmente il passaggio per questo rito d'iniziazione politica gli conferirà qualche credito, da riscuotere presto.
Ma non è questo il punto.
Per la prima volta, nella coalizione radical-riformista, si è aperta una lotta aperta, e quasi senza quartiere, per la successione a Romano Prodi.
Si preannuncia pure una candidatura del prudentissimo Enrico Letta.
Ora, mi chiedo: perché è così importante la questione della Leadership, nel Centro Sinistra e nel Centro Destra?
Se si trattasse del parto dei due nuovi contendenti per la carica di Presidente del Consiglio, la scelta sarebbe stata rinviata al momento più utile, mi rispondo. Alla vigilia delle nuove elezioni.
Non è così.
Ho l'impressione, dunque, che il Paese sia alla vigilia di due eventi.
La scelta, nel Centro Sinistra, di un Nocchiero, capace di guidare il Partito Democratico nel mare aperto di nuove alleanze.
La scomposizione, nel Centro Destra, non delle alleanze tra i partiti, bensì delle alleanze "nei partiti".
Mi pare che quella scomposizione e ricomposizione del quadro politico tratteggiata da Follini, e in fondo anche da Casini, Rutelli ed altri (Dini, Di Pietro, Mastella, Pisanu, Tabacci, etc.), sia oggi un po' più vicina nel tempo.
Per queste ragioni, Adinolfi e il "popolo della Rete" farebbero meglio ad avviare quel dibattito sulla modernizzazione del Paese che è la vera posta in gioco del passaggio dalla Seconda alla Terza Repubblica.
Altrimenti, è puro personalismo (termine togliattiano, lo riconosco), o semplice gioco di sponda.

giovedì 19 luglio 2007

LA SOLITUDINE DI BORSELLINO


Oggi ricordiamo Paolo Borsellino e gli agenti della sua scorta.
Borsellino sapeva che la sua sorte era segnata. Glielo diceva la logica, e glielo dicevano le informative dei Ros sul tritolo già consegnato ai suoi assassini, i tanti segnali colti in incontri ufficiali o riservati, e infine, l'assenza di concreti provvedimenti a sua tutela.
Era consapevole d'esser rimasto solo, Paolo Borsellino: contro Cosa nostra e i suoi complici.
In quel dibattito alla Biblioteca Comunale, promosso da Micromega (era forse il 27 giugno, tre settimane prima del suo appuntamento con la morte), pronunciò parole insolitamente dure, su quel che aveva preceduto e accompagnato la morte di Giovanni Falcone.
Credo anch'io che le cause degli eventi che si scatenarono in quel terribile periodo, iniziato nel '92 con la morte di Salvo Lima e conclusosi nel '93 con gli attentati di Firenze, Milano e Roma, siano da addebitarsi ad un complesso ragionamento, che per consuetudine sociologica si potrebbe dire "politico".
Furono assunte delle decisioni, probabilmente, in Sicilia e altrove (principalmente altrove). E queste decisioni, a cascata, ne determinarono delle altre.
Non credo alle teorie dette del "Grande Vecchio". Mi pare probabile, piuttosto, che si sia giocata una sorta di partita a scacchi, con più attori, molti dei quali hanno fatto presto a metter da parte ogni scrupolo.
Se lo hanno fatto, o erano stretti in una falange sin troppo compatta, o intravvedevano dei vantaggi, da quel cedimento.
E poiché nessuno ammetterà d'aver partecipato a quella sfida, ritengo che difficilmente si giungerà alla verità.
Alcuni tra i protagonisti, assolutamente insospettabili, potrebbero essere ancora in giro, a godersi i frutti di quella stagione, e a vegliare sul silenzio.

martedì 17 luglio 2007

PICCOLA ORAZIONE PER PAOLO



I più piccoli, svegliati al mattino presto, con la dolcezza dei giorni santi, sono avvolti nell’ombra, stringono con tutta la loro forza le mani dei grandi, e vedono solo quei corpi, enormi, stretti l’uno all’altro, in una piazza che sembra Palermo, ed è Gerusalemme; stanno in silenzio, nel clamore dell’attesa, finché la porta, percossa dai vecchi anelli dei battenti, non si apre, con un cigolio metallico.
Scendono, i più piccoli, passo per passo, i gradini che conducono al Santo Sepolcro, rischiarato dal foro stellato sul tetto altissimo di Sant’Elena, fino alla pietra dell’unzione, e a quel sarcofago.
Quello.
La cera calda ne suggella l’entrata: una porticina di legno.
I cerimonieri appongono i loro sigilli.
E poi il miracolo, all’interno: il Fuoco Sacro, che tutti si passano di mano in mano, piegando un poco la candela.
Mi torna in mente quel miracolo, quando penso alle fiaccole.
Mi torna in mente che sono stato piccolo, tra i grandi.
Mi torna in mente uno sguardo, preoccupato: di una pena che mi attraversava come un lampo, e come se io non ci fossi, in quel momento, a San Francesco d’Assisi: lui era seduto, da solo, su una panca, su un fianco della Basilica, e i celebranti ricordavano altri morti.
Poi sarebbe toccato a lui, a Paolo.
Ho visto quel Fuoco, e anch’io l’ho preso sulla mia fiaccola.

Il 19 luglio del 2007 saranno trascorsi quindici anni dalla strage di via d'Amelio. La mia Palermo perse ogni speranza. Ricordo le notti di protesta e di lacrime al Palazzo delle Aquile. A Casa Professa. Un anno fa, Giuseppe Cutino mi ha chiesto un breve testo, per ricordare Paolo Borsellino.

PALERMO COME METAFORA



In una celebre intervista, rilasciata trent’anni fa a Marcelle Padovani, Leonardo Sciascia parlò della Sicilia come Metafora, ed ora, la Linea della Palma – proprio come Sciascia aveva previsto - si è spostata a Nord, con mafie e corruzioni.
Era rischioso descrivere la Sicilia come metafora letteraria di un malessere, dire che solo a partire dalla Sicilia, dalla sua straordinaria concentrazione di senso, poteva esser compresa l’Italia. Era una profezia, per alcuni, e un insulto, per molti.
Oggi è solo una malinconica ammissione parlare di Palermo come metafora della banalità dei tempi nostri, e della banalità del male, con Provenzano e i suoi boss “normali” come burocrati nazisti.
Un’altra parte della metafora che è Palermo si trova nella notte brava di un paio di ragazzi: ripresi da una telecamera di sicurezza mentre incidono teschi e scritte sulle vetrine blindate di ventidue negozi del centro. Danni per centinaia di migliaia di euro.
Niente mafia, però.
Per gli investigatori, è un’intimidazione senza pizzo, una violenza senza contropartita: degna conclusione di una sera tediosa dinanzi al Teatro Politeama, con i ragazzi tutti uguali, per capelli vestiti parole, illusi, mascherati e illuminati dalle insegne, come in uno studio televisivo.
La metafora di Palermo comprende città diverse: la città della noia e dell’indifferenza; la città violenta, mafiosa; la città che usa il linguaggio universale dell’arte e della letteratura; la città che preferisce il racconto nudo e crudo della violenza che l’attraversa (e con ciò, si ripiomba nella noia, in una spirale senza fine).
Palermo era più affascinante, un tempo: città magica, popolata di fantasmi, incantamenti e maledizioni.
Serviva un non siciliano perché Palermo tornasse ad accorgersi d’aver perso tutto, nello scambio. Emanuele Crialese, con il suo Nuovomondo, ha inscenato una storia di sradicamento, e non una semplice cronaca d’emigrazione.
Il sottosuolo di Palermo, però, è ancora ricco di quelle materie prime che servono a far Letteratura. La tentazione di accontentarsi di quel che sta in superficie, però, è fortissima.
“Le metafore”, sostiene Michele Perriera, “scelgono luoghi pericolosi dove incarnarsi: come Palermo, dove ciascuno può giocarsi tutto quanto, d’improvviso”.
Perriera ha settant’anni e qualche medaglia sul bavero. Partecipò all’unica guerra d’avanguardia del secondo Novecento: il Gruppo ’63, che quell’anno fu consacrato dalla contemporanea presenza, a Palermo, di numerosi scrittori, poeti, filosofi. Balestrini, Eco, Malerba, Sanguineti, fra gli altri.
Perriera ha insegnato, a scuola, e ha scritto, da critico letterario, su un quotidiano: ed era il “L’Ora” di Cimino, Farinella, Nisticò, Saladino, Sottile e tanti altri. Poi, l’avventura del teatro.
Era una Palermo delle anime morte, quella descritta da Perriera nella sua autobiografia, Romanzo d’Amore, che si sarebbe detta sorella di Praga, Cracovia, Budapest, Berlino est. A risvegliarla, fu il miracolo dell’als ob, del “come se”: ci si ribellava con il teatro e con la musica, come si vivesse altrove.
Nei primi anni Settanta, Morte per Vanto, che Perriera trasse dal Doctor Faustus di Christopher Marlowe, coinvolse decine di persone: giovani attori, scenografi, costumisti, assistenti (ed essi furono il primo embrione della sua scuola di teatro, il Teate’s). Vennero poi le regie sui testi di Beckett, Cechov, Durrenmatt, Ibsen, Ionesco, e - primato assoluto, in Italia - di Harold Pinter.
Nei libri di Perriera, e pure nell’ultimo, La Casa (pubblicato da Sellerio), c’è una parola che ricorre, o di frequente si nasconde tra le righe, ed è Passione. Occorre accostarle un’altra parola: Trasfigurazione.
Ecco il tabù da infrangere: si può amare Palermo e farne Letteratura? Trasfigurarla?
Alla domanda, Perriera risponde con i suoi libri.
Prendete un uomo comune, coi suoi piccoli sogni, i suoi piccoli gesti quotidiani, i suoi piccoli amori, e reggendolo per le spalle, come un soldatino di piombo, estraetelo dal suo piccolo mondo e inseritelo nel mondo magico in cui è possibile ogni cosa.
Nella Pietroburgo di Gogol, una mattina, l’assessore Kovalev perde il naso.
Nella Praga di Kafka, lo studente Gregor Samsa si ritrova nel corpo schifoso di uno scarafaggio.
Nella Palermo di Perriera, il capocommesso Francesco perde la casa: per il suo acquisto ha contratto un mutuo. Nessuno sembra credergli. Nessuno osa testimoniare d’averla vista, quella casa gialla, del colore della follia. Francesco prosegue la sua battaglia solitaria per la verità. Fino al sacrificio.
Se ne ricava che l’uomo comune non sa guardare a sé, non sa agire, quando sul suo capo pesa l’amministrazione di un potere che tutto controlla, e tutto vuol sapere. Una disgrazia che sia infinitamente più grande del quotidiano stillicidio di sopraffazioni e violenze, lo induce invece ad atti imprevedibili. Il nuovo status magico snatura l’uomo comune, sia egli Kovalev, Gregor o Francesco: ne fa un eroe.
Francesco, il capocommesso, riesce a farsi un’idea precisa del perché la sua casa sia improvvisamente scomparsa: sa dell’esistenza di un Potere maiuscolo, più elevato della mafia. Il sospetto - termine carissimo all’eretico Perriera - è che, più elevato della mafia, non sia altri che la condizione universale della mafia.
“La mafia è ubiqua - dice Perriera - e ha a che fare con il ricatto dell’uomo sull’uomo. Si trova ovunque, ma nel Sud questo fenomeno è formidabile. Qui s’avverte il pericolo dell’esistenza, e anche il sogno dell’esistenza. Questo carattere - la speranza contro ogni speranza, che induce a vedere il mondo nel suo segreto - è a mio modo di vedere profondamente commovente. La mafia è uno dei tanti poteri segreti del nostro mondo. La politica è sempre stata un artificio. La realtà vera e profonda è il Potere, il mistero che sta dietro alla politica. Immaginare e raccontare il mistero è il compito di uno scrittore: non quello di raccontare una vicenda più o meno mafiosa. Siamo circondati, corrosi, dalla prepotenza. Riuscire a cogliere l’origine della prepotenza e i suoi modi di procedere è l’arte dello scrittore vero”.
Essendo Palermo gravemente malata di mafia, allora, la tensione al Fantastico dovebbe esser naturale.
“E invece, si ha paura dell’ambiguo, del complesso. Solo dove c’è profumo di ambiguità e complessità, però, c’è verità”.
Il crimine descritto nel libro consiste nel privare un uomo dell’intera gamma delle sicurezze possibili.
“Volevo narrare la testimonianza della sparizione: stupita e angosciata, come un viaggio verso una verità differente da quella consueta, un viaggio verso una verità da ricercarsi nel nostro inconscio, nel nostro mondo interiore. Francesco è importante per me, mi rivela della Metafora Palermo il carattere quasi innocente, e insieme catastrofico: quest’uomo apparentemente normale ha scoperto l’immaginario e il mistero”.
Questo romanzo ha un tono epico, è una sorta di rivelazione. Poteva svolgersi solo a Palermo, o anche altrove? Nella Los Angeles di Raymond Chandler?
“Amo molto Chandler. Sì, poteva svolgersi altrove. Ma non a Los Angeles. Gli alberi che stanno intorno alla casa, le betulle, sono l’indicazione di altri luoghi: la Russia, la Scandinavia”.
E’ una Palermo insolitamente gelida, questa.
“Lo è, infatti. La passione è trattenuta dal fatto d’essere esposti all’esperienza”.
Nel romanzo, ci si auspica che nessuno pronunci la frase sciasciana sull’irredimibilità di Palermo.
“Di Palermo, amo la dimensione universale. Palermo è insieme barbara, nel senso più bieco del termine, e di grande intelligenza, nel senso più delicato della parola. Palermo è una città che sa quali trucchi si nascondono nel mondo, quali passioni si svolgono segretamente nella vita reale”.
Si può trascurare quella dimensione universale? Nuovomondo sembra invitare a seppellire una parte dell’opera di Leonardo Sciascia, quella più legata alla cronaca dei suoi tempi, e a restituirla alla storia.
“Io scrissi una stroncatura di Sciascia, quando scriverne male significava esser condannati alla fame. Scrissi male del Contesto, di quel romanzo saggio che parlava del Pci. Era la banalizzazione di tutto”.
Sciascia fu stroncato dal Pci. E tu, da chi fosti stroncato per la tua stroncatura?
“Da nessuno. Fui circondato dal silenzio: tipico del Meridione. Ancora oggi si dice che Il Contesto fosse un bellissimo libro. Anche Sciascia per lungo tempo è stato frainteso: il suo meglio è nelle sue pagine fantasmatiche, nei suoi primi racconti e negli ultimi suoi libri, La Strega e il Capitano, Il Cavaliere e la Morte e Una storia semplice. Sciascia nascose per lungo tempo questa sua vocazione all’immaginario, che alla fine si manifestò in modo fortissimo”.
Si può dire: Sciascia è morto, viva Sciascia?
“E’ quel che dissi”.
Forse non è quell’intervista, Sicilia come Metafora, che sconcerta e sorprende, oggi. Nero su Nero, semmai. Nero su Nero puoi consultarlo come certi cabbalisti fanno col Pentateuco, come certi mistici fanno la Bibbia: aprendolo a caso, e indovinando, nei pressi del primo lampo dell’occhio, i significati oscuri della giornata. Frammenti di memoria.
“Palermo ricorda tutto: ogni vicolo, ogni strada, emanano ricordi. Palermo sa tacere, però”.
I fatti de La Casa partono dalla necessità dell’inverosimiglianza.
“L’immaginazione ha il fine di rendere più credibile la verità, e di scoprire i segreti più profondi e impegnativi dell’inconscio”.
Nell’America del Sud, da Jorge Luis Borges a Gabriel Garcia Marquez, il Fantastico è stato la chiave d’interpretazione del moderno. Al centro del Mediterraneo, in Sicilia, questa chiave si è smarrita, tempo fa, inspiegabilmente.
“C’è un modo di essere della Letteratura e dell’Arte in generale che, in tutte le epoche, guarda oltre le apparenze: in particolare, fra gli scrittori di lingua spagnola. Nella Vita è Sogno, di Calderon de La Barca, nel Don Chisciotte, di Miguel Cervantes. Il meglio delle letterature meridionali è la letteratura dell’Immaginario, che trova la sua radice più fertile nella trasfigurazione, nella forza creativa dell’autore, della città, del mondo. In Italia questo fenomeno è rarissimo: la vocazione al realismo è quasi maniacale. Il nostro passato più forte è romantico e realistico. Penso a Manzoni, o a Verga, il quale, tuttavia, pur essendo uno scrittore realistico, fu un campione dell’immaginario. Come ad esempio furono Beniamino Joppolo e, nelle pagine migliori del Gattopardo, Giuseppe Tomasi di Lampedusa, e uno dei suoi racconti, Lighea, è straordinario”.
In mezzo, c’è Lucio Piccolo.
“Ovviamente”.
E l’erotismo? Il più grande romanzo erotico del Novecento italiano, Il Gattopardo, è sterile come don Fabrizio. Non ha lasciato eredi.
“Nella nostra letteratura, l’eros è tra le righe. L’eros è il ritmo. Il movimento immaginario che percorre il testo ha il carattere di un amplesso. Gran parte della letteratura siciliana è un amplesso mascherato, e buona parte di questi amplessi mascherati la si ritrova nella letteratura meridionale di tutto il mondo”.
Palermo può esser metafora, dunque, se capisco bene, solo se rinuncia ad un realismo esasperato, se impara ad usare nuovamente, come in passato, la chiave del Fantastico, se torna ad indossare le vesti magiche di un tempo.
“Il luogo della Metafora non può che essere un luogo pericoloso. Palermo è una Metafora perché la città ha già alle spalle l’analisi della realtà, e può partire da qui verso una solitaria capacità di sognare, di fantasticare. In questo momento, c’è la tendenza a pensare che senza realismo non c’è letteratura, ma solo infelicità. Io sono dell’opinione contraria: senza realismo, c’è la capacità di vedere oltre la tenda, oltre il sipario. Possiamo restituire la vita alla sua teatralità più profonda, solo a patto d’esser lontani dal realismo più spicciolo, che oggi ha una diffusione veramente scioccante: i libri che si pubblicano sono impressionanti per banalità e per ovvietà. Nello studio del Teatro mi sono consapevolmente opposto all’Accademia d’Arte Drammatica, al luogo della manifestazione realistica della recitazione. Sono convinto che la grande lezione della storia della letteratura stia in fenomeni notissimi, amatissimi e male interpretati. La tragedia greca, il teatro elisabettiano, insieme a Calderon, Cervantes, Borges. Borges è il segno di una visione del mondo che viene dalle dimensioni più intricate della nostra psiche”.
C’è la magia, c’è l’inconscio, e c’è la fede, a Palermo. La fede dei mafiosi, ad esempio, raccontata nel Codice Provenzano, di Salvo Palazzolo e Michele Prestipino (pubblicato da Laterza), con il Boss e i suoi accoliti, numerati secondo una precisa gerarchia d’importanza e vicinanza al Capo, che parlano costantemente di Dio, di Gesù Cristo, della Madonna.
Qualcuno, tra i boss, rivela il proprio disappunto per quelle parole di Papa Giovanni Paolo II, che ai mafiosi disse “Convertitevi”.
“Karol Woityla era un Papa fortissimo, un conquistatore di anime”.
E Joseph Ratzinger, invece?
“Credo che Ratzinger sia capace di quell’ossessione del mondo che può dar luogo alla rivelazione: con dolcezza, con una specie di rarefazione dello spirito. Questa è un’età molto banale, corrotta, penosa, complessivamente insopportabile. L’insopportabilità di questa vita è il fondamento di ogni idea importante”.
Forse, questa conversazione anti-illuminista non riguarda solo la Letteratura.

lunedì 9 luglio 2007

GIUSTIZIA E' SALVARE UNA VITA


Il Professor Giovanni Fiandaca, al quale il Fato ha tolto un figlio - con la complicità, racconta, di un Pronto Soccorso poco Pronto e poco incline al Soccorso - ha dato vita, a proprie spese, alla Fondazione "Renato Fiandaca", per il miglioramento del sistema sanitario, e dei servizi d'emergenza, in particolare: per salvare delle vite.
Giovanni Fiandaca, che è Ordinario di Diritto Penale all’Università di Palermo ed è stato membro del Csm, conosce bene il funzionamento della Giustizia. Non ha fatto causa. Se la sarebbe presa, ha detto in un'intervista al "Giornale", "solo con un capro espiatorio, con un nome e cognome che è solo l’ultimo anello di una catena. Il più debole".
La sua Fondazione, con una donazione di 250 mila euro, ha dato vita, insieme all'Ismett - l'Ospedale di Palermo divenuto un punto di riferimento internazionale nel campo dei trapianti d'organo - ad un Centro di simulazione che serva ad insegnare a medici e ad infermieri ad operare correttamente in situazioni d'Emergenza: sono stati anche acquistati cinque robot, che simulano il comportamento del corpo umano in quelle situazioni.
E' una forma di Giustizia, questa. Forse la sola possibile, nella sua accezione terrena. Quella che non passa per la Giustizia ordinaria, alla quale si ricorre solo quando si è certi di non poterla più ottenere.

sabato 7 luglio 2007

CINQUECENTO VELTRONI



Siamo ancora scossi dai due eventi mediatici dell'anno.
Walter Veltroni sarà vendutissimo. Più del modello Topolino. Lo daranno in allegato all'Unità e a La Stampa. Luca Cordero di Montezemolo lo presenterà come il prodotto di una nuovissima squadra di progettisti, fiore all'occhiello del Lingotto. Ottimo per le famiglie e per i single, rigido e, volendo, reclinabile. Niente doppietta e cambio automatico.
La Cinquecento, poi. Ottima per i quattro futuri leader del Partito Democratico: due davanti e due dietro. E come il PD, l'avremo in seicentomila versioni: tanti quanti i possibili programmi di governo. Di tutti i colori: verde rossa rosella bianca e nera. Contemporanea e vintage. Pupone e Pizzaballa.
Siamo pieni di speranze.

SE LO SPONSOR INQUINA


Gran successo per Live Earth, la rete di concerti per Salvare la Terra, presentati, in teleconferenza, da Al Gore (ancora arrabbiato per l'arresto del figlio, arrestato negli Usa per aver superato i 160 all'ora sulla sua auto, completamente ubriaco). Dicono che la diretta sia stata ascoltata e vista da due miliardi di persone. E in Rete c'è un record di contatti. Chissà come sarà contento lo sponsor della copertura online dell'evento: Chevrolet. Dicono che costruisca auto. A idrogeno?

giovedì 5 luglio 2007

LIBERI E FAZIOSI. ADDIO, DIRETTORE.


Questa è la foto che campeggia sull'Home Page dell'Espresso, ed è l'ultimo (no, non l'ultimo!) saluto all'ex Direttore, Claudio Rinaldi. Il suo Blog - Italia Loro - è ricco di ricordi, di ringraziamenti, di commiati. Io mi ricordo di Rinaldi, delle mie letture dell'Espresso, anni fa. E devo dire che quel tipo di giornalismo, il suo, mi ha fatto capire una cosa: si può esser faziosi, e Rinaldi lo era, ma onesti. Si può rivendicare con orgoglio la propria identità, e persino la propria appartenenza ad un campo politico, e culturale, ed allo stesso tempo, affermare la propria autonomia di giudizio. Il giornalismo italiano, il migliore, è - a pensarci bene - in questo sforzo, solo in questo.

mercoledì 4 luglio 2007

IL FOU LIBERALE



C'è un deficit di Liberalismo in Italia. Ed ogni volta che qualcuno prova a seminarne un po', sui campi aridi della nostra politica, viene preso per matto, e accompagnato fuori dai recinti a braccia, in una simulazione d'altruismo, e con tanti sguardi d'intesa: E' matto, matto, matto.
Daniele Capezzone, ex enfant prodige pannelliano, s'è fatto cacciare dal PR e da Radio Radicale per aver dato vita al gruppo trasversale dei Volenterosi.
Ha messo in rete i suoi wishful thinkings.
Merita la nostra adesione.

http://www.decidere.net

RAGIONEVOLE DUBBIO


Non sono un giurista. Mi chiedo se la nozione di "Ragionevole dubbio" abbia cittadinanza anche in Italia; se il nostro processo contempli quella formula, ricorrente negli Stati Uniti (che ha a che fare, peraltro, con il Diritto Romano: In dubio, pro reo).
Arrivo al dunque. Il processo al ragazzo di diciassette anni - diciotto da domani - accusato di avere ucciso l'Ispettore Raciti, negli scontri dinanzi al Massimino. Si terrà, se mai si terrà, poggiando sulle fragilissime fondamenta di un'inchiesta che storicamente conta: una perizia dei Carabinieri del Ris che scagiona il ragazzo (le lesioni dell'Ispettore non potrebbero ricondursi al lavabo d'acciaio retto dal ragazzo); una testimonianza di un collega dell'Ispettore Raciti che racconta di uno scontro della vittima con lo sportello aperto di un Land Rover Discovery in retromarcia (più compatibile, sembra, con le lesioni riscontrate durante l'autopsia e con le immagini e la tempistica delle lesioni stesse).
Ora, l'eccellente difesa del ragazzo (il nome del quale sarà rivelato domani, al compimento della maggiore età), ha più volte chiesto la sua scarcerazione, puntualmente negata; ha chiesto che le indagini fossero svolte da organi di polizia giudiziaria diversi dalla Polizia di Stato (emotivamente coinvolta nei fatti): non se ne parla; ha chiesto che le udienze del processo per il reato - in questo contesto secondario - di Resistenza a Pubblico Ufficiale, si tenessero a porte aperte (no anche a questo); ha chiesto lo spostamento del processo per legittima suspicione: no, ovviamente!
Non dico del comportamento esecrabile del ragazzo: un violento; della pista che potrebbe ricondurre agli scontri di Librino, di poco precedenti quelli del Massimino, né dell'uso di bombe carta, del tipo di quelle sequestrate nella Terra di Nessuno di Librino.
Non dico della pena che si prova per l'Ispettore Raciti, e per la sua famiglia.
Quel che sta accadendo, a Catania, solleva più di un dubbio. Ragionevole dubbio.

martedì 3 luglio 2007

MEDICI CON LE BOMBE


Tra i sospetti attentatori in Gran Bretagna, ci sono alcuni giovani cittadini modello, fermati da Scotland Yard (immagino in collaborazione con i servizi segreti, e forse non solo con quelli inglesi).
Musulmani. Medici.
Ottimi stipendi. Studi eccellenti, e costosi.
Anni di fatica: sui libri, nelle biblioteche, nelle sale anatomiche.
Mi chiedo quali possano essere i motivi di un tale dispendio di ragione, e di vita.
So che esiste un prontuario giustificazionista del Terrore, al quale far ricorso, per ribattere ad una così radicale incomprensione: il passato colonialista dell'Occidente, il controllo del petrolio e del gas, le guerre di dominio.
Ci si potrebbe anche trastullare con le passate stagioni risorgimentali e irredentiste, in Italia, e con il terrorismo anti inglese di Israele (prima della fondazione), e degli stessi Stati Uniti (prima dell'indipendenza).
Ribadisco, però: non capisco.
Come può un medico lavorare ad un'autobomba, calcolare il massimo danno possibile per mezzo di bombole circondate di chiodi?
Un medico. Giovane. Religioso.
Che si tira fuori dalla Comunità della quale fa parte, e la ferisce.
Sempre che si possa ancora parlare di Comunità, e che non stia nella loro degenerazione, il problema: nell'assenza di Comunità.

CONDANNA A DOMICILIO PER SOFRI


Finirà di scontare la sua condanna agli arresti domiciliari, Adriano Sofri, nella sua casa di Tavarnuzze.
Il suo stato di salute è incompatibile con il carcere.
Lo ha stabilito una perizia medica.
Sofri ha annunciato querela per chi parlerà di trattamenti di favore.
Fa bene, Sofri, ad opporsi preventivamente ad ogni tentativo di diffamazione.
Noi, che abbiamo il solo merito di stare a guardare, sappiamo che Sofri è più scomodo in galera che fuori, che in Ospedale stava per tirare le cuoia, e che la sua cicuta voleva comunque berla fino in fondo, per una condanna che ha sempre ritenuto ingiusta ed alla quale ha evitato di sottomettersi (con il chiedere la grazia, ad esempio).
Di questi tempi, certe spacconerie sono malviste.

UMANO, KENNEDY: TROPPO UMANO


Dalla desecretazione di alcuni documenti decisa dalla CIA, apprendiamo che J. F. Kennedy aveva progettato un'azione illegale di prima grandezza: l'omicidio di Fidel Castro. Sapevamo già della Baia dei Porci, del rischio corso dal mondo intero, per via dello scontro sui missili sovietici a Cuba; e di Marilyn Monroe, e di Sam Giancana. Dei primi consiglieri militari USA in Vietnam (fu il via alla guerra, di fatto: la fine, bel paradosso per i Liberal, la decise Nixon).
Mi chiedo se questa continua slavina di rivelazioni su Kennedy, forse mirata a ridimensionarne il peso nella storia statunitense, non l'abbia invece reso più umano, con l'esito secondario, e non prevedibile, di far luce sul Potere, che usa tutti i venti, vengano essi da dritta o da mancina.

lunedì 2 luglio 2007

I NOSTRI FANTASMI


Le mattine d'estate sono per la tv come le notti d'inverno. Passano, per i canali della Rai, degli autentici capolavori. Come Fantasmi a Roma, di Antonio Pietrangeli. Una commedia dai toni malinconici con Eduardo De Filippo, Marcello Mastroianni, Sandra Milo, Vittorio Gassman, Tino Buazzelli.
Il Principe di Roviano, De Filippo, rifiuta fino all'ultimo di vendere ad un palazzinaro la residenza avita nel centro di Roma, popolata di antenati oramai incorporei, e muore per un incidente domestico: l'esplosione del vecchio scaldabagno, che s'era rifiutato di cambiare con uno più moderno. Inutile aggiungere che l'erede venderà subito il palazzo.
Il film è tutto qui. Nello scontro tra i Fantasmi (tra le schiere dei quali ben presto si schiererà il Principe) ed i Viventi (si fa per dire).
C'è una battuta che mi ha colpito. Il Principe dice che non è lui, "il pazzo", bensì lo è chi si fa venire "un infarto a 35 anni". Per l'ansia di vivere, sottintende il Principe, e per la scarsa considerazione che in fondo se ne ha, del vivere.
Era già così, nel 1961, al tempo in cui il film venne girato? Quand'è, precisamente, che abbiamo perso il senno?

P.S. La sceneggiatura, ca va sans dire, è di Ennio Flajano.