venerdì 30 novembre 2007

LA NUOVA ANTIMAFIA


Il 2007 sembra esser l'anno della svolta.
La maggior parte dei siciliani, recita un sondaggio, si dice convinta che la mafia sarà sconfitta, e i risultati concreti di questi ultimi anni, rendono concreta quest'ipotesi: i colpi inferti a Cosa Nostra, i no alla mafia pronunciati dagli imprenditori e dai lavoratori.
Ma in questo formidabile 2007 accade anche dell'altro.
Tra ieri e oggi, a Palermo, per iniziativa dell'Università cittadina e di altri atenei italiani, si è tenuta una due giorni sulle Mafie e gli strumenti penali di contrasto, in tutt'Europa.
Tra le tante cose delle quali si è parlato, una più di altre ha meritato titoli e spazio sui giornali: il gran numero di inchieste, oltre settemila, per il reato di concorso esterno in associazione mafiosa, e la percentuale ridottissima di sentenze, intorno all'8 per cento. Si può ipotizzare che le condanne siano la metà. E non è di certo un bell'ipotizzare.
Ora, in tanti, hanno chiesto che questo reato - d'origine giurisprudenziale, e cioè "inventato" dalla Corte di Cassazione - sia finalmente tipizzato: trasformato in fattispecie, inquadrato con apposita norma esplicita dal Parlamento.
Forse questo è un primo segno tangibile di un processo culturale più ampio, che conduce a far dei due maggiori problemi della Giustizia Italiana, l'efficienza e le garanzie delle parti, le facce di una stessa medaglia.
Se più generale, la questione dovrebbe indicare la necessità di un disboscamento del Codice Penale e di una semplificazione del Codice di Procedura Penali: meno reati e un vaglio più stretto per quelle indagini che i pm chiedono di condurre a giudizio. E per quel vaglio, che in Italia è costituito dai Gip e non dai Gran Giurì, occorrerebbero forze e risorse.
Un processo culturale che accosti efficienza e garanzie, poi, sia detto per inciso, potrebbe spingersi fino ad una più netta divisione di compiti tra le forze di polizia.
Sarebbe opportuno che di questa nuova temperie, che forse sarebbe piaciuta a Leonardo Sciascia, si tenesse conto, nel dibattito sul Testo Unico Antimafia che presto sbarcherà in Parlamento, nella forma di una Legge delega al Governo.
Palermo lancia un segnale.
Nessun doppio binario è possibile. Non si può pensare a Tribunali Speciali Antimafia. Quel che è accaduto con il Terrorismo non è ripetibile. Ma la lentezza endemica della Giustizia Italiana, quando contamina i processi di mafia, determina conseguenze orribili. Per lo Stato e per i Cittadini.

mercoledì 7 novembre 2007

I ROLEX DEI BOSS


Leggo che i boss Salvatore e Sandro Lo Piccolo, padre e figlio, largheggiavano in generi di lusso: orologi rolex, scarpe di gran marca, cachemire e flanelle (acquistati negli empori della ricchezza cittadina, con i 40.000 euro al mese e le stock option del pizzo); che il figlio frequentava i pub della città, la movida palermitana; che i poliziotti, in quel covo di Giardinello, così chiassoso, poco elegante, hanno ritrovato una sorta di Decalogo del perfetto mafioso, stilato dall'erede di Provenzano alla guida di Cosa Nostra: un prontuario di virtù virili, immagino, dall'omertà all'obbedienza.
Mi pare di cogliere in questi fatti una contraddizione: per quegli uomini, i segni esteriori della ricchezza contavano qualcosa, e la funzione di quei segni (l'attrazione del consenso altrui) prevaleva sulle inviolabili regole della latitanza, sin da quella aurea: la dissimulazione, l'invisibilità.
Quanta differenza con Bernardo Provenzano, arrestato, con la sua cicoria e la sua ricotta, in un vecchio casolare del corleonese!
Forse, a decretar la fine della mafia - insieme alla rivolta sociale, e alla repressione di polizia - sarà la televisione, con la pubblicità: rolex, scarpe, cachemire e flanelle.

lunedì 5 novembre 2007

LA TESTA DI COSA NOSTRA


L'hanno preso. Che sia o no l'erede di Bernardo Provenzano, Salvatore Lo Piccolo ora è in manette. E con lui, il figlio Sandro.
Fuori, adesso, resta Matteo Messina Denaro. Il boss di Castelvetrano preoccupa gli investigatori più del suo (ex) concorrente al trono di Capo dei Capi, perché ritenuto più violento.
La partita che si chiude oggi, decapita definitivamente la mafia palermitana: e in che modo, gli investigatori lo scopriranno analizzando il materiale ritrovato nel covo di Giardinello, dov'era in corso un summit.
Ma l'altra partita, quella che si apre oggi, riguarda, più generalmente, il futuro della lotta alla mafia in Sicilia.

sabato 3 novembre 2007

LA SCOMPARSA DI ASCIOLLA



E' morto, ad 85 anni, Enzo Asciolla. Fu un giornalista, uno tra i più talentuosi cronisti di nera e giudiziaria de La Sicilia di Catania.
Nel 1961, riuscì a mettersi sulle tracce di Paolo Gallo, e a ritrovarlo in vita.
La sua inchiesta passò alla storia come il Caso del Morto Vivo. E negli Usa, avrebbe certamente meritato il Pulitzer.
Questa è la storia.
Nel 1954, per il presunto omicidio di Paolo Gallo, era stato condannato il fratello di quest'ultimo, Salvatore Gallo. Mancava un cadavere, però: quello della vittima. Il pubblico ministero aveva richiesto l'ergastolo sulla base di un'indagine che si potrebbe eufemisticamente definire approssimativa, che aveva messo insieme pochi elementi indiziari: le accuse rivolte dalla moglie di Paolo Gallo all'indirizzo del cognato (indicato come violento) e una pozza di sangue rinvenuta dinanzi all'ovile del casolare in cui, assai poco pacificamente, convivevano le due famiglie.
Enzo Asciolla condusse la sua inchiesta insieme all'avvocato Salvatore Lazzara, succeduto a Piero Fillioley nella difesa di Salvatore Gallo, e dinanzi alla manifesta ostilità degli investigatori, e dei magistrati.
Poté contare sul sostegno del giornale e dei lettori, su quei due contadini che s'erano fatti incarcerare pur di far mettere a verbale che loro, Paolo Gallo, l'avevano visto vivo, e sulla confessione della moglie di Paolo Gallo: Mio marito è vivo, e si nasconde ad Ispica. Non torna perché ha paura del fratello (della confessione, Asciolla parlò ad Antonella Ferrera, della Rai, soltanto nel 2003).
La soffiata della moglie giunse tardivamente, sette anni dopo la condanna all'ergastolo di Salvatore Gallo. E Asciolla, che non s'era mai rassegnato alla sconfitta, vinse finalmente la sua battaglia. Ma dovette intervenire il Parlamento, a modificare il Codice di Procedura Penale: secondo i giudici, infatti, nonostante Paolo Gallo fosse indiscutibilmente vivo, non si poteva scarcerare il suo (ex) assassino: mancava la giusta fattispecie dell'articolo sulla revisione dei processi (tesi poi contestata dagli studiosi di Procedura Penale).
Fu il penultimo atto della tragedia del Morto Vivo. Pochi anni dopo, Salvatore Gallo morì per i postumi d'una malattia contratta in carcere.
Salvatore Lazzara è morto nell'estate del 2006. Ora, con Enzo Asciolla, scompare un altro testimone di una vicenda che riuscì ad indignare l'Italia, e che ho reinventato nei miei Diavoli di Melùsa.

Nelle foto, Salvatore Gallo (in divisa da carcerato), e Paolo Gallo, il Morto Vivo.

giovedì 1 novembre 2007

IN MORTE DI G.R.


Detesto i razzisti e i razzismi, le difese della razza ariana, le comparazioni genetiche, gli sproloqui dei Nobel, i vorrei dire e non dico dei bravi commentatori serali, gli arabofobi e gli antisemiti, i KKK e le nostre piccole Vandee. E più ancora, però, disprezzo gli ipocriti, e i nasconditori della polvere sotto i tappeti. Per questa ragione, chiedo loro: cosa ci racconterete, della morte della signora Giovanna Reggiani? E cosa racconterete, a suo marito, per consolarlo? Che bisogna portar pazienza? E che radere al suolo l'inferno di Tor di Quinto è una prepotenza?