mercoledì 29 ottobre 2008

LA TERRA CHE VERRA'

Mi piacerebbe vedere una manifestazione per l'aria pulita, un corteo contro lo smog, l'apertura di un tg sullo sforamento dei limiti di emissione di CO2, un sit in dinanzi a Montecitorio e alla rappresentanza Onu in Italia per l'educazione alla natalità, nel nostro Occidente ed anche nei paesi poveri e in quelli in via di acceleratissimo sviluppo, una proposta di legge sull'educazione al riciclo delle materie prime sin dalle elementari, una polemica coltissima sull'opportunità di vendere le merci al dettaglio (eliminando il dannosissimo packaging) e una polemica becera con tanto d'insulti sul filtraggio delle ciminiere nei petrolchimici, un'azione di disobbedienza civile contro i metalli pesanti nei biscotti e nelle merendine e una class action contro il fumo, i grassi idrogenati e le raffinazioni alimentari, un simposio sulle vernici tossiche e un concerto in memoria delle vittime dell'amianto, un dibattito parlamentare infuocato sulla decrescita e le limitazioni allo sfruttamento delle risorse non rinnovabili.
Preferirei tutto questo ad altre manifestazioni, ad altre indignazioni.
Ma sono diventato scettico.
Mi chiedo: qual è l'agenda politica dei giovani leader di questo paese, a destra e a sinistra?, e perché sono così vecchi anche i giovani?
Avete mai visto un leader politico italiano impegnato nel semplice gesto d'andare in bicicletta, rinunciando all'auto blu?

Nella foto, il leader tory inglese David Cameron. In bicicletta.

lunedì 20 ottobre 2008

CONVERSAZIONE CON ROBERTO LAGALLA

A guardare le statistiche, vien da dire: “Zitti, Palermo studia”.
Sessantaquattromila iscritti all’Università: un palermitano su dieci; di questi, un quinto ha scelto Lettere e Filosofia. Tredicimila. Tanti da riempire uno stadio. E uno stadio, difatti, servirebbe: per le lezioni, i laboratori, gli esami. Di metafora in metafora, si potrebbe aggiungere che il transatlantico ha qualche suite e molte celle per i forzati alla ricerca, pochi ponti al sole per le classi più elevate e stive malmesse per chi viaggia in economia.
C’è un nuovo Capitano. Un Rettore eletto a primo scrutinio con milleseicento voti di ogni colore politico. Roberto Lagalla ha fondato il polo universitario di Agrigento ed è stato Assessore Regionale alla Sanità.
“Avverto la consapevolezza diffusa della necessità del cambiamento. L’università ha un ruolo fondamentale. Deve saper cogliere i fermenti della società civile. Confindustria è la punta avanzata di questa sensibilità. L’Università ha un obbligo etico di farsi motore del cambiamento. Occorrono convergenze sinergiche per raggiungere quest’obiettivo”.
Il primo indizio, il linguaggio, conduce ad un laboratorio politico. Le convergenze. Aldo Moro. Ciò per il leader della sinistra democristiana era parallelo, per Lagalla è sinergico. Tradizione e innovazione. La mediazione politica, la concertazione politica, e l’innesto del concetto contemporaneo di rete.
Mastica il sigaro, Roberto Lagalla, ed usa frasi lunghe, smussate; un periodare ben scandito.
Poi, c’è il contenuto. Il cambiamento.
Non è un momento qualsiasi, per la Sicilia.
C’è un imprenditore, il primo tra gli imprenditori dell’Isola, Ivanhoe Lo Bello, che dice a brutto muso ai suoi associati: se non denunciate gli estorsori, vi caccerò da Confindustria.
C’è un Presidente della Regione, Raffaele Lombardo, che a capo dell’assessorato alla Sanità mette un pupillo di Borsellino e di Caselli, Massimo Russo, e intima ai suoi trentamila dipendenti di farsi trovare al loro posto, al lavoro, ché la pacchia è finita.
C’è un Rettore appena eletto, all’Università di Palermo, Roberto Lagalla, che annuncia un argine agli sprechi e investimenti per didattica, ricerca e relazioni internazionali.
Cosa unisce questi tre uomini? Niente, in apparenza: Lo Bello è di area democratica; Lombardo un autonomista; Lagalla vicino al centro destra. Un connotato culturale, forse. Sono dei moderati, detestano capipopolo e rivoluzioni. Ma nella semplicità dei loro obiettivi, forse, ci sono semi di cambiamento.
Lagalla ha 53 anni e 4 figli: 23 anni il primogenito, 6 l’ultimo nato. E’ entrato all’Università dopo il liceo classico, il Gonzaga, e non ne è più uscito. Si è laureato a Palermo e si è specializzato fra Palermo, Montpellier, Rotterdam e Trieste. Radiologo.
“Serve una proposta culturale”, dice. “L’Università dev’essere un assistente globale del cambiamento”.
E se, invece, fosse un consulente globale? La rivoluzione del sistema del Credito, nel bene e nel male, è iniziata quando le banche hanno smesso di farsi semplici custodi e ignave prestatrici di denaro, ed hanno cominciato ad occuparsi delle esigenze del cliente.
“Naturalmente. Esercitandosi sul terreno della legalità, innanzitutto. Contro la mafia e il racket. E poi, l’Università deve rinunciare all’autoreferenzialità del proprio ruolo. Occorrono dei cambiamenti: nei processi di spesa, nell’incremento della mobilità degli studenti, nella competitività, nell’internazionalismo”.
Dopo il tempo dei diritti, è arrivato il tempo dei doveri?
“Non sono d’accordo con il modello dei tre anni più due, e con il modo in cui il modello è stato interpretato ed applicato. Il quadro è sconfortante. Mi pare che l’Università sia vista anche come un parcheggio in attesa di un posto di lavoro, un contenitore di aspettative”.
Il dibattito italiano è stantio: l’Università dev’esser di massa o servire un’elite? Gli archeologi s’accalorano e gli iscritti lievitano, insieme a cattedre, corsi triennali, studenti fuoricorso e disoccupati intellettuali.
“Servono numeri programmati, selezioni per l’accesso e una diversa pianificazione, peraltro imposta dalla legge. Medicina, ad esempio, ha 275 iscritti al nuovo anno accademico. L’anno scorso erano ancora di meno. Tutti quanti perfettamente assorbibili dal mercato del lavoro.
Altre Facoltà hanno migliaia di iscritti. Con il record di Lettere e Filosofia. Anche qui occorrerà intervenire?
“Sì. Ma occorrerà anche migliorare l’offerta. Offrire standard accettabili di formazione: dovremo riuscirci nell’arco di un triennio. Ma servono risorse. Da anni, le finanziarie non fanno altro che ridurre i fondi. L’ultimo taglio è di 500 milioni di euro in tre anni. E non si fanno le nozze con i fichi secchi”.
La sensazione, in Sicilia, è quella della desertificazione culturale. Mentre i saperi universali evaporano, i saperi parziali spariscono, s’interrano, come certi fiumi, sotto il flusso travolgente della modernità, del sapere funzionale.
“L’Università ha diversi obiettivi, e in qualche caso, può limitarsi ad offrire una specializzazione ulteriore alle professioni normalmente svolte dai diplomati”.
Nel ragionamento di Lagalla ricorrono alcune costanti. Il far sistema, intanto. Il fare rete. L’Università deve dialogare con la scuola e scambiare esperienze con il sistema economico ed il territorio. La concertazione, poi: il cambiamento dev’esser condiviso all’interno, tra i diversi soggetti che animano l’Ateneo, e all’esterno, con gli interlocutori istituzionali.
“Lo scenario generale indica che il sistema si è rimesso in movimento. Dobbiamo potenziare la ricerca. Non possiamo essere un parcheggio. Una palestra, semmai, per testare la volontà dei giovani. Penso a dottorati interdisciplinari, con l’obbligo di trascorrere un anno all’estero. Mobilità pure dei professori: da altre Università, anche estere. Su questo, chi mi ha preceduto, il Rettore Giuseppe Silvestri, ha avviato un lavoro eccellente, recuperando un vecchio manufatto, in periferia, e destinandolo alla ricerca scientifica. Intendo proseguire su questa strada. Penso ad un Beaubourg scientifico della Sicilia Occidentale”.
Collaborando con l’impresa?
“Sì, per la ricerca applicata. Penso ad un’agenzia regionale per il trasferimento delle tecnologie, nella quale convergano le 4 università siciliane. Ma occorre ritagliare uno spazio importante anche per la ricerca di base. Non tutto può esser finalizzato all’applicazione immediata”.
L’Università non si limita a formare degli studenti: agisce nel territorio, con un proprio Policlinico. Vecchio, a dir poco. E ciò che fa vecchia la Sanità, in Italia, è anzitutto l’architettura: edifici fatiscenti, che allontanano, anziché avvicinare, settori che tra loro dovrebbero comunicare.
“Entro l’anno, conto di avviare la riqualificazione del Policlinico. Ma prima o poi, dovremo ragionare su un Policlinico nuovo di zecca”.
E il Parco d’Orleans? Palermo lo ha salvato dalla speculazione edilizia. C’è un villaggio sportivo. Che vuol farne, l’Università?
“Nel giro di un anno legheremo il villaggio sportivo al campus. Servono spazi per la cultura, poi: sale studio, ed altro ancora”.
Così, si svuoteranno le biblioteche. Peccato. E la sede del Rettorato? Palazzo Steri conserva dei graffiti straordinari, tracciati dai prigionieri che per anni abitarono le sue celle. Ho letto che vorrebbero farne il Museo dell’Inquisizione: come se ad Auschwitz avessero fatto il Museo delle SS e dei Sonderkommando. Non sarebbe meglio farne il Museo delle vittime dell’Inquisizione? Degli ebrei, anzitutto, che furono le prime vittime del primo grande sterminio di massa, perpetrato in nome della fede. In Sicilia, c’era un’enorme presenza ebraica, che fu letteralmente azzerata.
“Credo che l’intenzione fosse quella di ricordare l’orrore: le vittime, e non i carnefici”.
Il nome conta, però.
“Preferisco Museo delle vittime dell’Inquisizione”.
Cosa legge, Lagalla?
“I romanzi me li suggerisce mia moglie Paola. Leggo molto di storia: del Fascismo e della Chiesa, più che altro”.
Gli chiedo se abbia delle idee per il suo futuro politico. Risponde che in mente ha solo il suo impegno prossimo, da Rettore. “Vorrei far due mandati. E non superare, comunque, i cinque anni”.
Mi hanno insegnato che Moro ha lasciato ai morotei l’eredità dello sguardo lungo, replico: dieci anni, non di meno.
Scoppia in una risata, mentre gli s’illuminano gli occhi, e le spalle prendono a scuotersi: una movenza che mi riporta ad un uomo che non c’è più, padre Ennio Pintacuda.
“E’ stato uno dei miei maestri”.
I maestri, ecco. Chi è stato il più importante?
“Padre Antonino Gliozzo. Era il Rettore del Gonzaga, la scuola dei Padri Gesuiti. Proveniva dalla Segreteria di Stato Vaticana. Facevamo lunghe passeggiate”.
Mai stato Prefetto, al Gonzaga?
“Mai. Eppure, questa voce gira, a Palermo. Sono stato un arbitro, semmai. E finito il Liceo, insieme ad un amico di allora, Roberto Liotta, ho contribuito a fondare la Polisportiva Gonzaga”.
Bisogna dire che la figura del Prefetto, tra gli alunni dei Gesuiti, è di poca responsabilità ma di grande visibilità. Niente di più indigesto per Roberto Lagalla. A far l’arbitro, invece, s’acquisiscono virtù preziose: fiato, intuito, autorità. E bisogna figurarselo, questo siculo abruzzese di due metri, vestito di nero, fischietto in bocca e corsetta a pochi metri dal pallone. Nome per nome, cita i campioni di allora, le scoperte, i trofei conquistati.“E’ tutta questione di organizzazione”, si schernisce.

CONVERSAZIONE CON MASSIMO RUSSO

Su Panorama, che mi ha chiesto, da scrittore, un confronto con Massimo Russo, personaggio simbolo del cambiamento possibile in Sicilia (pm in aspettativa e assessore regionale della Sanità), è stata pubblicata una versione ridotta della nostra conversazione, per giuste ragioni di spazio. Questa è la versione integrale.

Ogni volta che in Sicilia s’annuncia una rivoluzione, subito scattano le contromisure. La più efficace, più della maldicenza, che pure è sempre all’opera, è l’ingiuria: il rivoluzionario è un illuso, un parolaio. Un Capopopolo, un Giuseppe Alesi qualunque, il nostro Masaniello.
Contro Massimo Russo, da pochi mesi assessore siciliano alla Sanità, dopo anni d’antimafia nelle procure di Palermo e Trapani, e contro i suoi tagli di bilancio, protestano i laboratori e gli studi convenzionati, con annunci a pagamento sui giornali, e le cliniche private fanno valere, a colpi di dichiarazioni, il loro peso politico, così ingente da doversi distribuire sull’intero campo politico.
Finora, lui aveva reagito a queste scaramucce diramando circolari, rilasciando interviste, circondandosi di fedelissimi e sostituendo alcuni dirigenti chiave. Semplice guerra di trincea.
Mancava il campo aperto, dove la battaglia infuria e gli eserciti si confondono. E il campo aperto è arrivato.
Nel giorno in cui Massimo Russo consegna al Ministero della Sanità il Piano di rientro dal deficit siciliano, una ventina di deputati del Pdl, architrave della sua maggioranza di governo, di centro destra, presentano un disegno di legge alternativo. All’assessore - dicono - spettano solo i tagli: le riforme le fa il Parlamento regionale. Il punto è che, nel suo Piano, Russo aveva ridisegnato in profondità l’intero sistema sanitario siciliano.
Il Partito Democratico l’attacca, parla di tagli eccessivi, superiori persino alle prescrizioni dell’accordo firmato un anno fa con il governo Prodi e, a sorpresa, in aperta polemica con i democratici, la Cgil lo difende, apprezzando la sua volontà riformatrice.
Il solito guazzabuglio siciliano, insomma.
Incontro Massimo Russo in assessorato. Nella sua stanza.
Ha una stretta di mano energica.
Alto come un ussaro, mocassini ai piedi. I gemelli e i polsini, perfettamente contenuti nella manica, indicano il lavoro accurato di un sarto.
Massimo Russo è impetuoso, allunga il collo all’indietro: nel linguaggio non verbale, significa “non ho paura di te”. Si vede che le domande è abituato a porle, non a riceverle.
Prima di parlare di Sanità, piccolo inciso politico. Parentopoli è il nome affibbiato all’ultimo scandalo siciliano. La figlia di un suo doppio collega, ex magistrato ed ora assessore al Personale, assunta in un ufficio di gabinetto del governo regionale. Ma come? Non lo sapevate d’essere attesi al varco? Il suo collega, Giovanni Ilarda, si fa emulo di Renato Brunetta, tuonando contro i fannulloni dell’amministrazione regionale, e poi inciampa sulla figlia?
“Quell’assunzione era inopportuna. Io avrei evitato. Ma c’è di peggio. Alle ultime politiche, nel Centro sinistra hanno fatto eleggere figlie, mogli e segretarie”.
Che al peggio non ci sia fine, è argomento francamente vecchio, assessore. Da lei, proprio, non me lo sarei mai aspettato.
“No, intendiamoci. E’ stato un errore. Ed io non l’avrei commesso”.
Lei è stato pubblico ministero a Palermo negli anni di Caselli e Grasso. Ha indagato sulle connessioni tra mafia e politica. Ora, però, si trova a ficcar le mani nel ginepraio più intricato della Sicilia, con un deficit annuale di 800 milioni di euro, e in un governo regionale presieduto da un autonomista ex democristiano, Raffaele Lombardo, mentre, da Roma, Renato Brunetta addita le responsabilità delle regioni sprecone: quelle a Statuto Speciale, e dunque, in primo luogo, la Sicilia.
Come farà ad evitare il disastro della Sanità siciliana, evitando gli sgambetti? Se bastassero le parole, avremmo già sconfitto mafia, sperperi e clientele.
“Ho buoni muscoli: per saltare oltre gli sgambetti e anche per andarmene, se capisco che non è aria. Tutti devono dare il proprio contributo. E a proposito di dichiarazioni, ce n’è un’altra, del Ministro Sacconi, che mette la Sicilia in fondo alle regioni d’Italia. Siamo al disastro. Le entrate fiscali della Regione, quest’anno, saranno inferiori al previsto, e dobbiamo assolutamente rispettare i tetti di spesa che ci siamo dati. Possiamo discutere della distribuzione dei fondi, non della loro quantità. Servono meno sprechi e più efficienza. Bisogna diminuire i posti letto e aumentare lungodegenze e riabilitazioni, accorpare Ausl e aziende ospedaliere, creare centri di eccellenza e, infine, nominare manager capaci e slegati dalla politica”.
Lei ha chiesto ai suoi amici, alle persone di cui più si fida, se accettare o no la proposta di Raffaele Lombardo di entrare nel suo governo regionale.
“Quelli che più mi conoscono, mi hanno detto che dovevo accettare. La buona Sanità è un diritto fondamentale da restituire al cittadino. Devo sporcarmi le mani e tener pulito il cuore e il cervello. E il portafogli. Avevo già detto no alla candidatura alla Camera, con gli autonomisti: con questo sistema sarebbe stata una nomina, non un’elezione”.
Quanto dura, qui all’Assessorato?
“Cinque anni”.
Dovrà diventare più politico.
“Lombardo me lo dice sempre: non è che mi diventa politico?”.
Vi date ancora del lei?
“Sempre”.
Fin qui, i politici si sono sgolati con le litanie sul deficit. Ma salvare la Sanità non è un obiettivo puramente economicistico, l’oggetto di una quadratura finanziaria. E’ innanzitutto salvare la vita alla gente.
“Nel mio primo discorso davanti all’Assemblea Regionale ho detto che al centro del sistema dev’esserci la persona umana. Insieme a regole, rigore, risultati e responsabilità: chi non è in grado, o si mette da parte, o dev’esser messo da parte”.
La persona umana? Di che cosa stiamo parlando? Lei sa che a Palermo un malato di cancro deve ottenere 4 diverse autorizzazioni per andare in farmacia a comprare un farmaco che serve a salvargli la vita? Dal reparto ospedaliero, dal medico di famiglia e da due diversi reparti della Ausl! Lo sa che questo farmaco non è considerato salvavita? E che le norme sono così contraddittorie e inadeguate da vietarne la prescrizione, in qualche caso?
Russo s’infervora. Chiama un membro del suo staff che fino a ieri ha guidato il reparto farmacologico dell’Assessorato. Si chiama Lucia Borsellino. Ed è figlia di Paolo Borsellino.
“Ho emesso una nuova circolare”, dice Russo. “Per semplificare le procedure. Da Marsala e da Trapani mi hanno scritto per ringraziarmi. Vuol dire che a Palermo – e qua batte una mano sul tavolo delle riunioni – mi stanno boicottando!”.
Questa circolare, per la verità, parla solo della distribuzione diretta da parte delle farmacie comunali. Così si passerà da una coda a un’altra. Un conto è Marsala. Un conto è una città di un milione di abitanti come Palermo.
“Dobbiamo risparmiare 20 milioni di euro che regalavamo alle case farmaceutiche!”.
Dovreste anche semplificare le cose, per metter davvero al centro il cittadino. Combattere la burocrazia come la mafia. Dar più potere ai 5000 medici di famiglia e pediatri siciliani, sul modello britannico: dar loro più responsabilità, e aumentare i controlli. Chi sbaglia e ruba, va cacciato, o va in galera.
“Non lo conosco, quel sistema. Ma voglio trasformare i medici di famiglia in presidi sanitari di base. E’ solo questione di risorse”.
Pagateli di più, allora! Scaricate i Pronto Soccorso delle funzioni improprie e girate il ricavato ai medici di famiglia: che comprino attrezzature e assumano dei collaboratori.
“E’ la mia intenzione. Dovrebbero anche potenziare il lavoro online, verso i pazienti e verso le farmacie e gli Ospedali. Abbiamo una gran quantità di ricoveri impropri. In Europa, sono solo il trenta per cento dei nostri. Ci si pensa tre volte prima di ricoverare qualcuno”.
E chi li controlla, i nostri Ospedali, i nostri medici?
“Nessuno. La rete dei controlli va ricostruita dalle fondamenta”.
In Sicilia, ci sono quasi duemila convenzionati esterni. I privati. Cliniche, medici specialisti, laboratori d’analisi. Sono stati dipinti come la fonte di tutti i mali. Lei la pensa così?
“Niente affatto. Ma anche loro devono dare il loro contributo al risanamento, adeguando le tariffe, e non scioperare davanti all’assessorato. Potrebbero persino aver più spazio, in un sistema più efficiente”.
La Sanità siciliana ha un problema architettonico, prima che morale: molti ospedali siciliani sono vecchi: andrebbero semplicemente demoliti e ricostruiti. A Palermo, il Civico e il Policlinico, i primi due che mi vengono in mente, sono la negazione di un Ospedale moderno: edifici antiquati su aree vastissime. Per un esame o un consulto, bisogna prender la macchina o l’ambulanza e far qualche chilometro. In generale, poi, i Pronto Soccorso, anziché luogo del primo esame, porta d’ingresso alle diverse specialità, sono appendici inefficienti, lardelle di un corpo morto.
“Dovremmo cederli, questi ospedali, per farne aree edificabili, e chiedere alle imprese di costruirci altrove degli ospedali nuovi di zecca e attrezzati di tutto punto”.
Pensare in grande.
“Per l’appunto”.
Pensiamo in grande, allora. Pensiamo ai medici e agli infermieri. Lei ha appena annunciato che bloccherà tutte le assunzioni. Non capisco. Su quasi cinquantamila dipendenti dell’intero sistema, amministrativi e tecnici sono tredicimila. Non è da lì che bisogna cominciare? E poi, il blocco significa rinunciare ai medici migliori, ai giovani. E’ mai possibile entrare in un Ospedale a 25 anni e uscirne a 65? Niente controlli sull’efficienza, niente formazione continua, niente sanzioni. Perché mai le Aziende sanitarie e ospedaliere non dovrebbero ricorrere ai soli contratti a tempo determinato?
“Non so se possiamo. Meglio i controlli”.
Auguri. Lei è qui da pochi mesi. Può dire di conoscere la situazione?
“Ho trovato grandi difficoltà anche per avere i dati di riferimento, in assessorato. Non sono un esperto. E non voglio diventarlo. Tra le domande che non mi ha fatto…”
Ce ne sono tante, di domande non fatte. Su mafia e antimafia, ad esempio. Bestemmio se le dico che nessun processo accorcerà di un solo minuto una coda di 8 ore dinanzi alla porta chiusa di un Pronto Soccorso, consentirà ad un medico incapace di azzeccare una diagnosi, rifornirà un Ospedale di attrezzature e farmaci?
Una cosa però devo chiedergliela. Devo proprio.
“Dica”.
La sua prima destinazione, prima da giudice e poi da pm, fu Marsala. Dove ha conosciuto una persona speciale. Era il ’91. Un anno prima delle stragi.
“Se le rispondo, diranno subito che io…”.
Lucia Borsellino si scusa. Deve lasciarci. Il ricordo di suo padre la commuove. Massimo Russo riprende dopo qualche istante.
“Dico solo che è come se facessimo parte di un disegno più grande. Ho iniziato con Paolo Borsellino il mio primo lavoro. Ed ora, questo, con sua figlia”.
Paolo Borsellino diceva che chi ha paura muore ogni giorno. Lei ha ricevuto minacce?
“Non ho mollato quando ero pm e processavo i capimafia, si figuri se mollo adesso”.
Si è fatta così stretta, la porta della storia, in Sicilia, che la politica deve camminare a fianco della letteratura: i toni sono esagerati, come i colori della terra. Pochi cambiamenti, e faticosi: ognuno di essi, però, destinato a far parlare per anni.