domenica 18 gennaio 2009

I MILANESI NON SANNO DOVE ABITANO

I milanesi non sanno dove abitano.
Non lo sanno i passanti, non gli edicolanti, non i negozianti. Gli chiedi: per via Tal dei Tali?
Non so, dicono, anche se quella via è indiscutibilmente a due passi, e loro vivono e lavorano lì da otto generazioni almeno.
Accade tre volte su quattro.
Una volta, poi, la risposta è articolata.

- Ma lei è fuoristrada.
- Rispetto a dove?
- A via Tal dei Tali.
- In che senso?
- Sta da un'altra parte.
- Ecco, appunto: sto provando ad arrivarci.
- E come? Da qui...
- E sì, da qui.
- Guardi, non vorrei darle indicazioni sbagliate...
- Me ne dia una approssimativa.
- Non saprei.
- Mi hanno detto che dalla via Qualunque si può arrivare alla via Tal dei Tali.
- Ah sì?
- Sì. E dunque: sa dov'è la via Qualunque?
- Guardi: è di là.
- Lì a sinistra?
- Sì.
- La prima?
- BRAVO! - E qui, il volto della Sciùra s'illumina d'immenso, nel complimentarsi per la tua brillante deduzione.

La frequenza statistica di simili accadimenti è preoccupante, sicché - sotto l'ombrello, flipperando da un passante all'altro, in cerca di indicazioni per tornare a casa - ho elaborato una serie di spiegazioni:

1) Molti milanesi, in realtà, si perdono durante il giorno, nel tragitto fra casa e lavoro, e vengono recuperati da speciali squadre addestrate al ritrovamento; di molti, però, si smarrisce ogni traccia.

2) Molti milanesi hanno dei Tom Tom innestati con una capsula invisibile dietro le orecchie, e un fischio impercettibile li guida fino al traguardo, deviandoli a destra o a sinistra.

3) Molti milanesi detestano i meridionali, in special modo coloro i quali si permettono di importunarli per strada, sotto la pioggia, con una borsa in mano, e godono come cinghiali nel prenderli per le terga.

La verità sta in mezzo, di frequente.

giovedì 8 gennaio 2009

IN ARRIVO LA VERITA' SULLE STRAGI?

Le deposizioni di Massimo Ciancimino, figlio dell'ex sindaco mafioso di Palermo, Vito Ciancimino, potrebbero far luce su una pagina oscura della recente storia d'Italia: il '92, le stragi, la trattativa tra Cosa Nostra e lo Stato italiano. Su L'Espresso da domani in edicola, Giuseppe Lo Bianco e Sandra Rizza, due bravi giornalisti, autori fra l'altro de 'L'Agenda rossa di Paolo Borsellino', parlano di queste deposizioni. L'articolo contiene fatti e nomi. In coda, ripubblico un mio vecchio Post: risale al 19 luglio 2007, quando non si aveva ancora notizia di queste deposizioni. Post che sottoscrivo ancora oggi, anche nella parte in cui mi dico pessimista sul raggiungimento della verità.

L'Espresso - Giuseppe Lo Bianco e Sandra Rizza
Dopo il «botto» sull'autostrada di Capaci, nei 56 giorni che separarono l'attentato a Giovanni Falcone da quello a Paolo Borsellino, l'allora ministro dell'Interno Nicola Mancino sarebbe venuto a sapere che pezzi dello Stato avevano intavolato una «trattativa» con Cosa nostra per far cessare il terrorismo mafioso, in cambio di alcune concessioni legislative: prima fra tutte la revisione del maxiprocesso. Sarebbe stato uno dei protagonisti di quel negoziato, Vito Ciancimino, a chiedere alcune «garanzie istituzionali», tra cui quella che Mancino fosse informato. E avrebbe ottenuto, attraverso canali tuttora al vaglio dei magistrati, che l'informazione giungesse al destinatario. È uno dei passaggi più delicati delle nuove rivelazioni fatte nei giorni scorsi ai pm di Palermo da Massimo Ciancimino, il figlio prediletto di Vito, l'ex sindaco mafioso del capoluogo siciliano che fu per decenni la longa manus del boss Bernardo Provenzano nel cuore della Dc. I nuovi verbali, trasmessi subito a Caltanissetta, sono già sul tavolo del procuratore Sergio Lari, che coordina l'ultimo fascicolo rimasto aperto sui mandanti esterni della strage di via D'Amelio e contengono rivelazioni che potrebbero imprimere una svolta alle indagini sull'eliminazione di Borsellino, la pagina più inquietante della sfida mafiosa sferrata contro le istituzioni all'inizio degli anni Novanta. Gli stessi verbali sono confluiti nella nuova indagine della procura di Palermo sui «sistemi criminali» in azione in Italia durante la stagione delle stragi. E non è escluso che Nicola Mancino, oggi vicepresidente del Csm, venga chiamato dalle due procure siciliane nelle prossime settimane per fornire la sua versione dei fatti. Massimo Ciancimino, l'unico dei quattro figli di don Vito a vivere con lui fino alla fine dei suoi giorni, è un personaggio assai controverso: condannato a 5 anni e 8 mesi per riciclaggio del tesoro accumulato dal padre in quarant'anni di attività politico-amministrativa, imprenditore di una miriade di società grandi e piccole, è noto a Palermo per le sue abitudini da bon vivant, tra auto di lusso, yacht miliardari e vacanze esclusive. Da qualche mese, il figlio dell'ex sindaco "collabora" con gli inquirenti e nelle ultime settimane ha ricostruito nei dettagli con i magistrati di Palermo le fasi cruciali del negoziato che gli uomini del Ros Mario Mori e Giuseppe De Donno, a cavallo tra le due stragi del '92, avviarono con don Vito per chiedere al boss Totò Riina di fermare l'attacco allo Stato. «Mio padre», ha detto Ciancimino, «era molto prudente, comprendeva tutti i rischi della situazione, e voleva essere sicuro che ci fosse una copertura istituzionale al negoziato. Voleva accertarsi che gli uomini del Ros avessero concretamente l'approvazione delle istituzioni». È questa una circostanza che Mori e De Donno hanno sempre negato, sostenendo di essere andati da Ciancimino in assoluta autonomia, spinti solo dalla necessità di stringere il cerchio attorno a Riina. Ma Ciancimino jr la racconta in un modo diverso, sostenendo davanti ai pm di Palermo di aver visto con i suoi occhi il famoso «papello», il foglio con le richieste che Cosa nostra presentò allo Stato in cambio di uno stop alla stagione delle stragi. «Il medico personale di Riina, Antonino Cinà», ha raccontato, «era il collegamento diretto. Tutte le volte che mio padre ha iniziato la trattativa, l'ho visto spesso a casa mia». Ma a portare il «papello», secondo il giovane imprenditore, sarebbe stata un'altra persona, un «signore distinto», che avrebbe consegnato materialmente la busta con le rivendicazioni di Cosa nostra. «Mio padre lo conosceva», ha aggiunto Massimo Ciancimino, «lo aveva incontrato varie volte a Roma. Non so perché la busta gli venne consegnata a Palermo». Quel «signore distinto» il figlio di don Vito non lo conosce, non sa chi sia. I pm di Palermo gli hanno sottoposto una serie di fotografie, ma l'esito degli accertamenti è ancora top secret. È a questo punto della trattativa che l'ex sindaco di Palermo, secondo il figlio, avrebbe chiesto una «garanzia» istituzionale per procedere nel negoziato con lo Stato. Chiedendo di informare il ministro Mancino degli incontri avviati tra Roma e Palermo con gli uomini del Ros. Secondo Ciancimino jr, quella richiesta sarebbe stata esaudita. Il padre avrebbe avuto la conferma che Mancino era stato informato. Dopo questa rivelazione, l'attenzione investigativa si è concentrata sull'incontro del 1° luglio 1992, il giorno in cui Paolo Borsellino venne convocato al Viminale durante la cerimonia di insediamento di Mancino, che subentrò a Vincenzo Scotti alla guida del ministero degli Interni. I pm hanno acquisito l'interrogatorio reso da Mancino ai magistrati di Caltanissetta nel '98: «Non ho precisa memoria di tale circostanza, anche se non posso escluderla», ha detto Mancino ai pm, «era il giorno del mio insediamento, mi vennero presentati numerosi funzionari e direttori generali. Non escludo che tra le persone che possono essermi state presentate ci fosse anche il dottor Borsellino. Con lui però non ho avuto alcuno specifico colloquio e perciò non posso ricordare in modo sicuro la circostanza». Un incontro che, invece, ricorda l'avvocato generale di Palermo Vittorio Aliquò che quel giorno accompagnò Borsellino sulla soglia della stanza del neo-ministro. Ricorda di averlo visto entrare, di averlo visto uscire poco dopo, e di essere entrato a sua volta, ma da solo. Perché questo incontro è importante per le indagini? Perché, ipotizzano i magistrati, se è vero che Mancino fu avvertito della trattativa in corso, anche Borsellino, erede di Falcone, in quel momento uomo-simbolo della lotta alla mafia in Italia, e candidato in pectore alla Superprocura, potrebbe esserne stato a sua volta informato quel giorno al Viminale. E se davvero Borsellino avesse saputo che lo Stato era sceso a patti con Cosa nostra, è la tesi investigativa, la sua posizione di netta contrapposizione o di presa di distanza potrebbe averne determinato la morte. È certo, sottolineano in procura, che ad un certo punto la trattativa si arenò, le richieste di Cosa nostra vennero giudicate inaccettabili, e Riina decise di provocare un nuovo «botto» per riavviare i contatti istituzionali. E le sentenze di due processi, quello per la strage di Firenze e il Borsellino-bis concluso a Caltanissetta, acquisite a Palermo agli atti della nuova inchiesta, hanno sostenuto che fu proprio la trattativa interrotta a provocare una ripresa della stagione delle stragi. «Dopo la morte di Borsellino, mio padre si sentiva in colpa», ha rivelato Massimo Ciancimino. «Mi confidò le sue riflessioni su tutta questa storia: disse che avviare la trattativa era già stata una prova di debolezza da parte dello Stato, ma che fermarla aveva avuto un effetto disastroso». Fin qui le rivelazioni del figlio di don Vito, che nei giorni scorsi a Palermo è rimasto vittima di un'intimidazione che lo ha costretto ad anticipare la partenza per la città del nord Italia dove vive attualmente con la famiglia. Chiarezza sugli incontri di quel primo luglio al Viminale hanno sempre reclamato i fratelli di Paolo Borsellino, Rita e Salvatore. «Chiedo soprattutto al senatore Nicola Mancino del quale ricordo, negli anni immediatamente successivi al '92, una sua lacrima spremuta a forza durante una commemorazione di Paolo a Palermo», ha scritto Salvatore Borsellino in una lettera aperta nel luglio del 2007, «lacrima che mi fece indignare al punto da alzarmi e abbandonare la sala, di sforzare la memoria per raccontarci di cosa si parlò nell'incontro con Paolo».
Latinera - 19 luglio 2007
La Solitudine di Borsellino
Oggi ricordiamo Paolo Borsellino e gli agenti della sua scorta.Borsellino sapeva che la sua sorte era segnata. Glielo diceva la logica, e glielo dicevano le informative dei Ros sul tritolo già consegnato ai suoi assassini, i tanti segnali colti in incontri ufficiali o riservati, e infine, l'assenza di concreti provvedimenti a sua tutela.Era consapevole d'esser rimasto solo, Paolo Borsellino: contro Cosa nostra e i suoi complici.In quel dibattito alla Biblioteca Comunale, promosso da Micromega (era forse il 27 giugno, tre settimane prima del suo appuntamento con la morte), pronunciò parole insolitamente dure, su quel che aveva preceduto e accompagnato la morte di Giovanni Falcone.Credo anch'io che le cause degli eventi che si scatenarono in quel terribile periodo, iniziato nel '92 con la morte di Salvo Lima e conclusosi nel '93 con gli attentati di Firenze, Milano e Roma, siano da addebitarsi ad un complesso ragionamento, che per consuetudine sociologica si potrebbe dire "politico".Furono assunte delle decisioni, probabilmente, in Sicilia e altrove (principalmente altrove). E queste decisioni, a cascata, ne determinarono delle altre.Non credo alle teorie dette del "Grande Vecchio". Mi pare probabile, piuttosto, che si sia giocata una sorta di partita a scacchi, con più attori, molti dei quali hanno fatto presto a metter da parte ogni scrupolo.Se lo hanno fatto, o erano stretti in una falange sin troppo compatta, o intravvedevano dei vantaggi, da quel cedimento.E poiché nessuno ammetterà d'aver partecipato a quella sfida, ritengo che difficilmente si giungerà alla verità.Alcuni tra i protagonisti, assolutamente insospettabili, potrebbero essere ancora in giro, a godersi i frutti di quella stagione, e a vegliare sul silenzio.

lunedì 5 gennaio 2009

FACEBOOK NON CANCELLA I FANS CLUB MAFIOSI

Forse, la questione dei fans club mafiosi su Facebook (e dei giochi di ruolo dedicati alla mafia) non è archiviabile come un incidente di percorso.
Forse un social network del genere non può funzionare con regole assolutamente svincolate dalle leggi: inneggiare ad un boss è un reato.
E lo sarebbe anche inneggiare ad Al Qaeda.
Così come sarebbe un reato, ancora più grave, veicolare dei messaggi diretti al compimento di uno o più atti di violenza.
La domanda è: si può assistere inerti a tutto questo? Si può prevenire il peggio? E come?

sabato 3 gennaio 2009

LA CRISI E NAPOLITANO

La crisi - secondo il nostro modo corrente di pensare - si ha quando il Pil diminuisce e s'innesca quel meccanismo che si chiama decrescita.
E' una categoria complessa, la decrescita. Un mondo intero.
Serge Latouche, docente di Scienze Economiche a Parigi, sostiene che l'uomo consuma più di quel che il pianeta è in grado di produrre. E che, presto, se il Pil torna ad aumentare, svuoteremo le sue viscere.
E' l'economia "estrattiva". Alla quale s'affianca l'economia "effusiva": che non è quella dei baci e delle carezze, bensì quella delle effusioni nell'atmosfera: Co2 e altre sostanze nocive.
Nel suo discorso di fine anno, il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, ha detto che la crisi può essere un'occasione.
Sembra solo retorica. Ma non lo è.
C'è dell'altro.
Accanto all'economia della crescita perpetua, c'è l'economia delle speculazioni. I capitali delle industrie che producono merci e servizi sono gestiti da professionisti della vendita di azioni. Questo vuol dire che quei professionisti mantengono in vita le imprese solo finché le azioni che nominalmente si riferiscono a loro hanno un tasso di redditività sufficientemente alto: sennò, le mollano e passano ad un'altra impresa. Così, accade che un'impresa in ottime condizioni, muoia improvvisamente, senza spiegazioni.
Di speculazione in speculazione, è naturale che si finisca per immettere sul mercato azioni e obbligazioni sganciate da qualsiasi produzione reale. Siamo alla cosiddetta Bolla: basta solo aspettare il botto.
Il Presidente Napolitano ha pronunciato un'altra parola chiave: sobrietà. E qui si ha la certezza che la sua non è retorica.
La sobrietà è un concetto chiave della modernità. Come la decrescita. Della quale in fondo è un sinonimo.
La crisi, allora, è un'occasione se cambia il nostro modo di pensare, e si comincia a lavorare ad una produzione buona: che non ecceda le necessità reali, che non depredi le risorse naturali, che lasci di che vivere alle prossime generazioni.
La crisi, insomma, è un'occasione se diventiamo un po' meno consumisti, e se impariamo a fidarci meno di quei truffatori che in Borsa promettono guadagni eccezionali e rapidissimi. Cose simili ha ripetuto oggi in un'intervista Giorgio Ruffolo, che è un intellettuale, ma anche un parlamentare del Pd.
Il pensiero ecologista, però, supera ogni vecchia divisione fra destra e sinistra, e dice anche delle cose sgradevoli.
Non potrebbe essere altrimenti.
Il medico pietoso, si sa, fa la piaga puzzolente. E ammazza il paziente.