Un luogo comune recita: dev'esserci del marcio, se la perversione eccita gli animi, ed è morboso quest'interesse della gente alla cronaca nera, alla violenza.
Io penso che le cose non stiano così. Non esattamente.
Io penso che le cose non stiano così. Non esattamente.
Il punto, a mio parere, è come se ne scrive.
Un secolo fa, a farlo, era André Gide. Prendete ad esempio i "Ricordi della Corte d'Assise", ripubblicati da Sellerio. Raccontano delle crudeltà di provincia, in Francia: gesti efferati, e in apparenza incomprensibili.
Sempre nel Novecento, Truman Capote volle farsi cronista delle ragioni che potevano avere indotto due ragazzi del profondo Sud americano a compiere una strage, e i pochi giorni che intendeva dedicare ad un reportage, lievitarono fino a sei anni, per un romanzo, "A Sangue freddo", che divenne il suo capolavoro.
E poi, anche se non proprio di cronaca nera si trattava, c'è il caso di Hannah Arendt. Filosofa, storica. Seguì il processo ad Adolf Eichmann, a Gerusalemme. A giudizio, non vide un ministro di Hitler, e nemmeno un criminale, bensì un omuncolo, obbediente agli ordini di un pazzo. Hannah Arendt ne trasse la "Banalità del Male".
E poi, per farsi un'idea della differenza tra il passato ed il presente, occorrerebbe pure rileggere le cronache e le interviste di Enzo Biagi, di Oriana Fallaci, dei grandi giornalisti che seppero raccontare l'Italia del dopoguerra.
La conoscenza del Male è indispensabile, quasi quanto la conoscenza del Bene. L'interesse è legittimo. Il punto, ripeto, è come se ne scrive. E non ci sono più, fatte salve delle rare eccezioni, i cronisti di un tempo: straordinari, o perché occasionalmente dediti alla cronaca e pronti a liberarsi d'ogni pregiudizio, o perché capaci di penetrare a fondo nell'animo umano.
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