martedì 18 dicembre 2007

STORIA DI ISACCO A PALERMO


I giornali, ancora di recente, hanno detto che allo Steri, a Palermo, nascerà un “Museo dell’Inquisizione”. Io non sono d’accordo. Penso alla cacciata degli ebrei da Palermo, cinque secoli fa (così come in tutto il Regno di Spagna), e allo sterminio di quelli che vollero restare. Lo Steri conserva le poche tracce che restano di quella Catastrofe. Ed è una sorta di Nemesi: doveva cancellare, ed ora conserva. Credo che Palermo abbia un debito verso quei palermitani ebrei cacciati o torturati e costretti a rinnegare la loro fede o uccisi, e uccisi comunque, e che possa saldarlo, quel debito, facendo dello Steri una sorta di Yad Vashem. Un Museo delle vittime dell’Inquisizione. Delle vittime, e non dei carnefici. La mia proposta ha la forma di un racconto.

E’ rimasto nascosto per anni tra le preziosissime macerie accumulate dai dontotò che nel dopoguerra avevano preso possesso militare dei cortili dell’Osterio dei Chiaramonte. E’ riuscito a sfuggire miracolosamente alla vigilanza dei suoi ospiti, armati di roncole e doppiette, e a districarsi indenne tra le insidie puntute dei cerchi di rame strappati alle condutture elettriche del vecchio tribunale, le precarie torri di ruote dei vecchi camion militari, i labirinti sorti fra i cumuli di mattoni sbreccati e le tavole umidicce di panche e mobili e sedie di tortura.
A fargli compagnia, in quel girone, le carogne di un cavallo e di un cane marcescenti in un buttatoio e due metope di marmo bianchissimo inneggianti all’uomo nuovo, a braccio teso.
L’uomo che sta seduto innanzi a me sembra non avere un’età ben definita, e alla mia prima domanda - chi sei, tu? - oppone un silenzio di pietra, freddo come i suoi occhi di opale, scavati su di un viso denso di rughe desertiche, modellate dal vento.
Mi ha detto, incontrandomi, e tendendomi la sua mano freddissima, che ha il cuore gonfio di tristezza. In quei cortili e tra i palazzi che li delimitano, si trova un cimitero dimenticato, e lui, l’ultimo testimone della Catastrofe di Palermo, vuol raccontarmene la storia.
La sua storia.
Viveva nei pressi dell’antica Sinagoga, la più ricca del Ghetto, per via del contenuto del suo pozzo: la sua famiglia, che a Palermo, assai prima del Mille, era giunta al seguito di alcuni cavalieri arabi, aveva contribuito al tesoro della comunità, e lui stesso, da sarto, aveva donato, al Rabbi, le sue vesti; da mobiliere, aveva restaurato gli arredi; e da fabbro e da vetraio, aveva rimesso al loro posto le finestre distrutte dai primi accenni d’odio, dei cristiani.
Uomo di molteplici talenti, aveva custodito i rotoli di una sapienza oscura, che contemplava il prolungamento della vita, e la creazione di uomini dal fango, e di luci dal buio.
Mi state dicendo che non siete morto, gli chiedo? E lui, mi mostra il palmo delle sue mani, perfettamente lisce, come quelle di un bambino. Anche i miei piedi sono giovani, dice. Il resto, è secco, e aspetta di mutare in polvere.
Aveva, Isacco, questo è il suo nome, una moglie e sei figli, ed un giorno, aveva appena ordinato una gran festa per il bar mitzvah del suo maggiore, seppe da un cugino del Rabbi che in Sinagoga s’era discusso a lungo, tra gli anziani, dell’editto spagnolo, e che c’era da prepararsi ad una nuova fuga dall’Egitto, e che il Faraone, nelle fattezze della Regina di Castiglia, non voleva intender ragioni: gli ebrei dovevano lasciare subito il Regno, da un mare all’altro.
La voce aveva fatto rapidamente il giro di tutte le case, come l’acqua che scorre nei canali pulitissimi di un viridario e bagna uniformemente i frutti della terra, senza chiedersi di che forma siano e quale sia il loro sapore: tutti, poveri e ricchi, morigerati e peccatori, seppero allo stesso modo del loro destino. Vi fu chi si lasciò prendere dalla disperazione, e mise alla porta uno straccio di porpora, e chi, invece, si disse che erano da considerarsi tutte fandonie, e che a Palermo, gli ebrei erano da sempre ben visti, come i greci, e che se qualcosa di vero era da prendersi, in quel timore giunto sulle navi della Regina, tra i mozzi e i messaggeri, presto sarebbe sbiadito, al sole della Sicilia.
Ebbero ragione gli uni e gli altri. Sebbene molti anni dovessero ancora trascorrere, il nodo di forca infine si strinse al collo della comunità. E chi attese, guadagnò dall’incoscienza, e perse dalla ragione.
Tra la disperazione della cacciata imminente e l’euforia di un possibile ravvedimento, vi fu infatti chi mise all’incanto i propri averi, con discrezione, e ne ricavò una parte poco più che miserabile del loro valore. Per tutti gli altri, s’aprirono invece le porte dell’Inferno: vi fu chi perse le commesse, chi il diritto al pagamento, chi la licenza di svolgere le arti ed i mestieri. Chiusero le Yeshiva, e i pozzi furono scoperchiati, e depredati; le Sinagoghe ridotte a cave di pietra, e a porcilaie.
Furono rimosse le insegne, e demolite le abitazioni. L’anello del Ghetto si fece più stretto, e ancora più stretto. E più stretto.
La famiglia di Isacco subì l’onta dello smembramento, e la moglie, e i figli, furono caricati su due velieri, diretti la prima ad Oriente e i secondi in Africa, a trovar fortuna. Un giorno, dissero. Un giorno, si dissero, un giorno ci rivedremo.
Isacco provò a disfarsi del suo patrimonio. Ne ricavò insulti, e sputi. Tutto si fuse insieme, in un solo crogiuolo incandescente: l’odio, il disprezzo, la rivalsa. Negli occhi dei Gojim, dei Gentili, Isacco vide una luce che non aveva mai brillato così tanto, prima d’allora: la cupidigia. L’amore s’era interrato come l’acqua dei vecchi fiumi della città, e il mare, negli anni che seguirono, si ritirò fino a lasciarne secco il cuore. Arido come il deserto.
Isacco, senza più un chicco del metallo che per secoli la sua famiglia aveva custodito, cucito nelle vesti per il momento della fuga, che un giorno, di certo, dicevano gli anziani, sarebbe giunto, divenne un accattone, si confuse tra i rifiuti della città incancrenita. Per anni, tese la mano per raggranellare ciò che avrebbe potuto persuadere un marinaio a caricarlo in una stiva di una nave diretta ad Oriente o in Africa, dalla moglie, o dai figli. E ogni volta, il denaro, raccolto e custodito nelle sue vesti, si smarrì, fu rubato, o ceduto per un tozzo di pane.
Isacco fu riconosciuto da un buon amico, un Gojim, che lo persuase alla conversione, ed era una conversione al solo Dio del Cielo, per Isacco. Nel giro di qualche giorno, ripulito, e confortato di un giaciglio, e di vesti colorate, fu arrestato, tacciato di marranesimo e tradotto in una cella del primo carcere dell’Inquisizione.
Il racconto di Isacco si fa confuso, alle mie povere orecchie.
Non mi decidevo a morire, dice. Gli eretici, coloro che pensavano con la testa loro, venivano inceneriti. I famigli venivano scarcerati. I nobili trovavano un accordo.
I guardiani passavano. I giudici invecchiavano.
Il vecchio carcere fu chiuso e demolito.
Fu deciso che in catene giungessi, dice Isacco, insieme ai pochi conversos rimasti e ad alcune donne tacciate di stregoneria, e che solo avevano i torti di saper leggere, o far di conto, o di padroneggiare il latino ed il greco, al carcere nuovo dell’Osterio, e da qui, spiega, da quest’Inquisizione che dissero Santa non mi son più mosso. Fino ad oggi.
Scrissi le preghiere accettate nella loro lingua, ché mi salvassero la vita terrena, e nascosi le mie nelle loro empie figurazioni, ché mi salvassero la vita eterna. E per scrivere, e disegnare, usai tutte le mie miserie corporali, e le uova marce e il latte acido che le donne pagavano con le loro vergogne.
Ho visto morire tutti quanti, e il puzzo delle loro carni bruciate è giunto alle mie nari rivelandosi appieno, quasi che le polveri sospese pronunciassero gli addii, e dicessero, con i nomi, le ultime volontà dei condannati.
Il mio Atto di Fede venne dimenticato. Ripetendo i versetti della Sapienza, vidi invecchiare la corteccia del mio corpo, e fluire inspiegabilmente all’interno una linfa fresca come latte di capra.
Mi feci però incorporeo, e potevo manifestarmi ad alcuni, o solo alcuni potevano vedermi.
Durante un interrogatorio, mi scorsero due paia d’occhi, e il terrore se ne impadronì. Il Sommo Inquisitore venne ucciso, la sua testa percossa da un Frate, con violenza, contro la pietra: il sangue e le cervella dello spagnolo inumidirono il tufo e s’insinuarono nelle camere d’aria sino alle segrete, e lì giacciono ancora, tra le ossa delle streghe e dei conversos.
Il luogo che era stato dell’Inquisizione e dell’Ingiustizia divenne un Tribunale del Regno nuovo, e giunsero i carri senza cavalli, e assistetti a processi che mi ricordavano i miei, quasi che il tempo non fosse passato.
Ricordo un uomo anziano, che per un caso, giunse a scrutare tra le demolizioni, e aperse la bocca in uno sbadiglio di stupore, dinanzi ai miei graffiti. Ed altri ancora, molto più tardi. Un uomo che teneva il fuoco sulle labbra ed un altro che lampeggiava con uno strano attrezzo. Tutto fu poi chiuso, e furono padroni i dontotò.
Ora, delle donne, delle streghe che chiamano restauratrici, riportano le mie preghiere e i miei disegni al colore delle mie miserie corporali, e delle uova marce e del latte acido. E tanti, li osservano, come se ne capissero il significato.
Ora che la mia Palermo non conserva più alcun segno dei Giudei, è questo il solo luogo che ne custodisce la memoria. La memoria della loro Morte. La memoria della Catastrofe di Palermo.
Gli dico che altre Catastrofi ci sono state, e ben più sanguinose. Gli dico dei camini di Birkenau. Dell’assedio di Varsavia. Dei pogrom russi. Di Israele. Dell’undici settembre.
Gli dico della dimenticanza di Palermo per i suoi ebrei, che furono decine di migliaia. E della segreta architettura di Damiani Almeyda, di quell’Archivio ricostruito ai margini della Giudecca come una Sinagoga.
La mia Sinagoga?
Sì, Isacco, la vostra.
Gli dico che di quelle celle, che lui abitò e nelle quali non morì, e di quei graffiti, che segnarono il suo passaggio dal corporeo all’incorporeo, faranno un Museo, e gli dico cos’è un Museo. Sarà un Museo dell’Inquisizione, che tutti potranno visitare.
Degli uomini e delle donne.
Dei Gojim, dice.
Sì. Gentili. Ed ebrei.
Vorrei che fosse un Museo degli ebrei morti, dice. Un Museo dei Morti. Un Museo delle vittime dell’Inquisizione. Non dei carnefici.
Isacco va via. E per un attimo, nei suoi occhi, di vetro, si riflette il mio sguardo.

In quest'antica fotografia, il prospetto dell'antico palazzo Chiaramonte Steri: fino agli anni Sessanta, fino al massacro deciso dall'Università in forma di restauro (ne scrisse Sciascia, fra l'altro).

lunedì 10 dicembre 2007

LE NOTTI DI VALPURGA


Beppe Grillo scrive nel suo Blog della sua vergogna per il nostro Paese, con la prima della Scala affollata di quei leader politici che hanno preferito Wagner ad una notte nel Reparto Grandi Ustionati, in compagnia degli operai della ThyssenKrupp.
Così avrebbe fatto Sandro Pertini, scrive Grillo. Ed ha ragione ad indignarsi, il comico genovese. Non a stupirsi, però.
Richard Wagner m'incuriosisce. Fu la colonna sonora del Nazismo.
Le acciaierie della ThyssenKrupp non se la passarono male con Adolf Hitler, per il quale fusero cannoni, missili, sommergibili e carri armati. I famosi panzer, ricordate?
Poco tempo fa, abbiamo anche letto del Massacro di Rechnitz, in Ungheria. Nel Castello della famiglia Thyssen, che da quattro anni era stato requisito dalle SS, alcuni ospiti di una serata molto speciale, il 24 marzo del 1945, furono invitati ad un singolare dopocena.
Gli ospiti - trenta o quaranta, informa Wikipedia - erano per lo più esponenti del Partito Nazista, della Gestapo e della Gioventù Hitleriana.
Una quindicina di loro fu condotta in un fienile poco distante dal Castello e invitata a sparare su duecento ebrei ungheresi, condotti lì per l'occasione. Molti prigionieri furono uccisi a bastonate.
Credo di poter immaginare la colonna sonora di quella Notte di Valpurga.
Sessantadue anni dopo, l'inferno di Torino. E la Prima della Scala. Con Wagner.

lunedì 3 dicembre 2007

IL PESO DELL'INNOCENZA


Mi hanno chiesto: perché mai Alfredo Caltabellotta, uno dei protagonisti de "I Diavoli di Melùsa", sente il bisogno di tornare in Sicilia e di affermare la totale estraneità di suo padre alla vicenda criminale nella quale, mezzo secolo prima, era stato ingiustamente coinvolto? Era un vecchio caso giudiziario, dimenticato. E lui, Alfredo, stava per morire. Perché, dunque, rimestare nel passato?
Con la colpevolezza, dico, facciamo i conti. E' l'innocenza il problema. E l'innocenza dei padri, si sa, ricade sempre sui figli.

sabato 1 dicembre 2007

IBLA BICOLORE


A Ibla c’è qualcosa da vedere subito, prima che scompaia.
E’ il colore nascosto e ritrovato della candida Chiesa di San Giorgio: il nero asfalto di capitelli, fasce e decori.
Quel colore durerà poco tempo. Poi, inevitabilmente, sparirà.
Così dicono gli esperti, che saprebbero come richiamarlo ancora in vita.
Ma non si può essere affatto sicuri che ci riproveranno, dopo la guerra di qualche mese fa.
Bisogna andare ad Ibla, per farsene una ragione.
Il Fascismo abbatté il Castello chiaramontano, e costruì una nuova strada fra Ragusa ed Herea (Hybla Hereia). Percorrerla è attraversare la storia: come se, in sospensione, restassero degli atomi, particelle infinitesime delle mura possenti, delle sale d’armi, degli alloggi dei Chiaramonte, dei Conti che vollero farsi Re e pagarono con la testa; gli successero i Cabrera, con una capra nel blasone, e Ragusa fu sottomessa alla vicina Modica per cinquecento anni.
La strada termina dinanzi alla cancellata del giardino Ibleo, in zona pedonale. Risaliamo per i vicoli, sfiorando il ristorante di Ciccio Sultano, gli emporii con le delizie iblee in vetrina: i formaggi, il miele, la cioccolata alla vaniglia e alla cannella (“come ad Alicante, in Spagna”, ricordava Leonardo Sciascia).
La strada sbuca in una sorta d’antipiazza. Orgogliosa, l’edicola espone “Sicilia Libertaria”, affissa alla vecchia persiana. A fianco, i finestroni del Circolo di Conversazione incorniciano alte librerie di noce bene incerate, e un paio d’ospiti, intenti alla lettura.
Sono le sei, e la sera è scaldata dalle luci gialle.
In piazza del Duomo, s’intravedono pochi turisti sotto la scalinata della Chiesa di San Giorgio, attratti per lo più dallo scenario dei film televisivi del Commissario Montalbano.
Come se Ibla fosse la piazza di Vigàta, e non invece il cuore di un luogo abitato da millenni, le pareti calcaree forate, le caverne mutate in case, poi in necropoli e ancora in case, le mangiatoie costruite con pietre graffite e scolpite.
La Chiesa spagnolesca disegnata da Rosario Gagliardi, la torre campanaria al centro, si erge di sbieco su questa piazza televisiva, e ad arrivarci dal basso, si allunga biancastra come la pietra che la compone. Un ologramma, al quale occorre avvicinarsi.
Alla fine dell’ultimo restauro, smantellate le impalcature, ripiegati i teli, gli Iblei non credevano ai loro occhi: al lucore del calcare, s’era aggiunta la notte della pietra pece.
In altri tempi, un banditore sarebbe andato di strada in strada: berretto, giummo e tamburo.
“Currìti, currìti!”.
Taratatàn.
“San Giorgio si fici bianca e nivura”.
Taratatàn.
Era il primo incantamento che da secoli si potesse ricordare su Ibla; o forse, un maleficio.
Fabio Granata, che è stato un eccellente assessore, prima ai Beni Culturali e poi al Turismo, ha protestato, per il restauro di una delle Chiese più importanti della Sicilia, nel Val di Noto, oramai patrimonio mondiale dell’Umanità (e del riconoscimento Unesco, buona parte del merito va proprio a Granata).
“Una delirante interpretazione dei materiali”, ha detto.
A Granata, ha risposto la Sovrintendente ai Beni Culturali, Enza Cilia: “sono trasecolata”, ha scritto, “ritengo incauti i suoi inopinati allarmismi”. Replica ton sur ton, barocco su barocco.
La vicenda è intricata. Il reato è quello di “delirante interpretazione dei materiali”. Un abuso architettonico, commesso in luogo di un intervento “puro”, neutro.
Questa purezza è un punto quasi invisibile, su una mappa antica, e malridotta. Servono storia e filosofia, per l’investigatore: dei testimoni, delle tracce.
Non sono solo in quest’arrampicata. Ho una guida, accanto. Quasi me ne dimenticavo.
“Di me non si parla”, sussurra, scorbutica.
La pietra che fonda la città è calcarea, e l’intera Ibla ne fu cava d’estrazione.
C’è un’altra presenza, sotto terra, a queste latitudini: il petrolio.
Quando il petrolio e il calcare s’incontrano, e l’olio fossile s’insinua tra i pori che innervano la pietra cotta in antichi vulcani, nasce una pietra nera, dotata di numerose qualità: elastica, resistente alle sollecitazioni, docilissima all’intaglio dello scalpellino, dello scultore. Il petrolio può ravvivarla anche a distanza di secoli.
E dunque, dove sta il problema?
Quando l’architettura discute, e non è che lo faccia spesso, s’attacca a questo genere di sciocchezze. Del resto, non si occupa.
Dipenderà dal fatto che tutto ciò avviene a Ragusa. Mi viene da pensare a Sciascia. E’ la seconda volta, questo pomeriggio
Sciascia lo frequentava volentieri, il ragusano.
Nel suo “La Contea di Modica”, scrisse che qui era da rilevare una presenza dell’invettiva e della satira più aperta e affilata che in altre parti della Sicilia, per un più avvertito gusto di libertà.
E aveva ragione. Se tutto ciò fosse accaduto altrove? Chi se ne sarebbe preoccupato, a Palermo?
Di questo, dunque, si può discutere solo a Ragusa. Per gusto di libertà.
Non è la prima volta che qui si polemizza sui restauri. Vittorio Sgarbi denunciò l’orrore della tettoia posta a protezione di quel che rimaneva della vecchia Chiesa di San Giorgio, il portale trecentesco. E qualche anno fa, per il francescano Convento di Gèsu (così: con l’accento sulla “e”), sconciato da un terremoto, si escluse il riuso dei materiali originari, ritenendosi più “puro” l’uso di mattoni di cotto. Su un manufatto di pietra calcarea. Il vero è falso, e il falso è vero.
Miracoli della dialettica.
Oggi, il sofista Gorgia da Leontini farebbe l’architetto.
Se Atene piange, Sparta non ride.
Vuole parlare di San Giovanni, di Ragusa nuova? In piazza Gramsci hanno tolto le palme centenarie e una pregevole piazzetta novecentesca per fare il parcheggio della Stazione. Indispensabile. Per Palermo, il treno ci mette sette ore: sono 250 chilometri. Per Catania, cinque ore: 100 chilometri. Dicono che alla fine dei lavori, ricostruiranno tutto com’era.
Torniamo alla Chiesa di San Giorgio, se non le dispiace. Stiamo un poco divagando. Chi era l’architetto, Rosario Gagliardi?
Un siracusano, un Genio, a giudicare dalle sue opere: perché di lui, della sua vita, ancora oggi, si sa poco o nulla (se si eccettua la devozione al Bernini e al Barocco romano). Ricevette l’incarico di rifare San Giorgio nel 1738. Nel 1693, gli iblei avevano contato i loro morti - cinquemila: quanti un secolo prima ne aveva fatti la peste – e avevano deciso di separarsi, consensualmente, tra Sangiorgiari e Sangiovannari. La nobiltà più recente si arrampicò su per il colle; la più antica rimase dov’era sempre stata. Gagliardi si guardò intorno, chiese agli artigiani. Scelse quella pietra più scura per ragioni estetiche o strutturali, chi lo sa, e forse, la utilizzò quando l’aria l’aveva già ingrigita.
Nessuna delirante interpretazione?
No, l’interpretazione c’è stata, e i restauratori potrebbero aver calcato la mano nell’imbibire la pietra di petrolio. Ma così facendo, avrebbero solo rinviato di qualche mese l’esatta coincidenza con il grigio originario.
Si può ipotizzare un lavoro di restauro “ideale”?
Che avrebbero dovuto fare, i restauratori? Individuare le esatte intenzioni di Gagliardi? O riproporre l’interpretazione che di quelle intenzioni diedero i mastri d’Officina? Senza contare che da allora, sono trascorsi quasi tre secoli: la storia avrà pure i suoi diritti, avendo modificato il lavoro altrui e impresso il “suo” colore.
E qui arriviamo a ben altri interrogativi.
Può considerarsi “puro” l’agire sulle lancette della Storia? Ridare la vita ai morti? Rimettere del petrolio in quei fori dai quali altro petrolio era evaporato secoli prima?
Come fosse l’anima, che per Democrito è fatta di atomi, e si respira.
Tra qualche mese, o tra qualche anno, dipenderà dalla mistura usata dai restauratori, il nero della pietra degraderà in grigio, e la bicromia immaginata da Gagliardi, sparirà agli occhi dei più; si manterrà una differenza quasi impercettibile, che sarà colta, come segno distintivo, pure da chi oggi s’imbizzarisce al solo parlarne.
Converrà che ad Ibla c’era un barocco bianco, e che ora è bicolore.
Il Barocco appartiene solo al Seicento, e niente di significativo, ad Ibla, è stato riedificato prima del 1739. Di “Barocco siciliano” parlò per primo Anthony Blunt, nel 1968. Gli architetti di Ibla avevano una visione manualistica del Barocco. Lavoravano su immagini. Ma il risultato è unico. Guardi con i suoi occhi. Ha mai visto niente del genere?
Restiamo in silenzio, davanti a San Giorgio. Sono le otto, e il freddo entra nelle ossa. Si torna a casa, a Ragusa nuova, a San Giovanni. In macchina, a sorpresa, il mio Cicerone, o Virgilio che sia, ossimoro vivente, accademico e saggio, difende la polemica di Granata.
Pure se non la condivido, non è del tutto infondata: potrebbe avere un’efficacia preventiva; evitare future manipolazioni; riaccendere i riflettori su Ibla. Gagliardi - con la sua Chiesa di San Giorgio, un capolavoro assoluto - non riuscì ad opporsi alla decadenza. E nel Novecento, le case popolari tornarono a svuotare i quartieri di Herea, uno per uno. Soltanto ora Ibla si sta ripopolando, e i prezzi delle vecchie case sono saliti a dismisura.
Mi volto verso di lui. Sul sedile accanto, però, non c’è nessuno. Soltanto libri, ritagli, appunti. Sintesi di mille conversazioni, ricordi, impressioni.
Nell’aria, dev’esser rimasto anche qualche atomo dei Cabrera. A metà del Quattrocento, abolirono di fatto il feudalismo, concedendo ai contadini il possesso delle terre, in enfiteusi. Senza aspettare l’Illuminismo, il Costituzionalismo e il 1812. Ciascuno sarebbe stato proprietario del suo: della sua terra, del suo denaro, della sua casa; sicché, il ragusano ebbe ed ha ancora una sua borghesia, ante litteram, un risparmio ordinato, una civile convivenza.
Nel 1808, l’abate Paolo Balsamo, di Termini Imerese, venne nel ragusano a dorso di mulo. Economista e uomo politico, studi in Inghilterra, Balsamo sapeva di numeri e di caratteri, e nelle sue accurate relazioni, ricorrevano i paragoni con lo Yorkshire e la campagna piemontese. A Ragusa, scriveva, “abbondano quelli che si chiamano capitalisti”, e “sono sparse le mezzane fortune”.
Ma il tempo, anche qui, sta cambiando ogni cosa.
Quegli atomi, dei Chiaramonte e dei Cabrera, sono tutto quel che resta dell’incantesimo che ha fatto di Ragusa un’isola nell’Isola (senza mafia, finora, e con una pasta umana di buona qualità). Incantesimo che si deve ai Siculi, ai primi abitatori dell’Isola, e che è sopravvissuto a romani, bizantini, arabi, svevi, angioini e spagnoli.
Né ossa né ruderi sono rimasti per queste strade.
I profumi, semmai.
Gli atomi di Democrito, l’anima del passato.