sabato 27 dicembre 2008

I MORTI DI ISRAELE E PALESTINA


I missili di Hamas, e poi le bombe d'Israele, e di nuovo i missili, e le bombe...
Spero che due matti un giorno dicano a Gaza e a Gerusalemme che la pace è possibile, e che i savi ammattiscano.

lunedì 1 dicembre 2008

FACCE DI LIBRO

Dicevano che i Blog avrebbero ucciso il giornalismo e invece Facebook ha ucciso i Blog e della cosa s'occupano allegramente i giornali. Quelli di carta.
P.S. Anche il mio Blog attraversa un periodo difficile.

mercoledì 5 novembre 2008

IL MONDO NUOVO DI OBAMA

E' sempre un privilegio assistere al compiersi della storia, sebbene attraverso la televisione. Il discorso di Obama, le lacrime di Jesse Jackson, la festa popolare, l'entusiasmo, l'uscita di scena di George W. Bush. La Casa bianca ospiterà un nero, meno di cinquant'anni dopo la fine della segregazione negli Usa, quarant'anni dopo l'assassinio di Martin Luther King, e pochi anni dopo il giuramento dei primi segretari (ministri) di colore, Colin Powell e Condoleeza Rice.
Ciò che ieri sembrava impossibile, o ancora improbabile, oggi è accaduto.
La storia accelera, ed ora si appresta a cambiare radicalmente il volto di un intero paese.
E' importante, la vittoria di Obama. Straordinariamente importante.
Ma ora che gli Stati Uniti si apprestano ad esser governati da un nero, ci accorgiamo che essi non sono più la guida economica del pianeta, che lo scettro economico è passato da Occidente ad Oriente.
Questo cambiamento, insomma, potrebbe esser giunto in ritardo.
Cina e India sono in grado di condizionare, di determinare, l'andamento borsistico, il prezzo del petrolio, del rame: delle azioni e delle materie prime. E se il vecchio sovrano s'illumina, il nuovo s'incarognisce.
Se domani gli Usa firmassero il Protocollo di Kyoto, la Cina avrebbe un motivo in più per non farlo.
Se l'altro ieri il problema era la Russia, e ieri il terrorismo, oggi è la competizione globale, e il conseguente impoverimento del pianeta.
Ieri, si comprimevano i diritti di alcuni.
Domani, in discussione saranno i diritti di tutti.
E possiamo occuparcene solo oggi.
E' questa l'agenda politica di Obama. E la nostra.
E' la storia, bellezza.

mercoledì 29 ottobre 2008

LA TERRA CHE VERRA'

Mi piacerebbe vedere una manifestazione per l'aria pulita, un corteo contro lo smog, l'apertura di un tg sullo sforamento dei limiti di emissione di CO2, un sit in dinanzi a Montecitorio e alla rappresentanza Onu in Italia per l'educazione alla natalità, nel nostro Occidente ed anche nei paesi poveri e in quelli in via di acceleratissimo sviluppo, una proposta di legge sull'educazione al riciclo delle materie prime sin dalle elementari, una polemica coltissima sull'opportunità di vendere le merci al dettaglio (eliminando il dannosissimo packaging) e una polemica becera con tanto d'insulti sul filtraggio delle ciminiere nei petrolchimici, un'azione di disobbedienza civile contro i metalli pesanti nei biscotti e nelle merendine e una class action contro il fumo, i grassi idrogenati e le raffinazioni alimentari, un simposio sulle vernici tossiche e un concerto in memoria delle vittime dell'amianto, un dibattito parlamentare infuocato sulla decrescita e le limitazioni allo sfruttamento delle risorse non rinnovabili.
Preferirei tutto questo ad altre manifestazioni, ad altre indignazioni.
Ma sono diventato scettico.
Mi chiedo: qual è l'agenda politica dei giovani leader di questo paese, a destra e a sinistra?, e perché sono così vecchi anche i giovani?
Avete mai visto un leader politico italiano impegnato nel semplice gesto d'andare in bicicletta, rinunciando all'auto blu?

Nella foto, il leader tory inglese David Cameron. In bicicletta.

lunedì 20 ottobre 2008

CONVERSAZIONE CON ROBERTO LAGALLA

A guardare le statistiche, vien da dire: “Zitti, Palermo studia”.
Sessantaquattromila iscritti all’Università: un palermitano su dieci; di questi, un quinto ha scelto Lettere e Filosofia. Tredicimila. Tanti da riempire uno stadio. E uno stadio, difatti, servirebbe: per le lezioni, i laboratori, gli esami. Di metafora in metafora, si potrebbe aggiungere che il transatlantico ha qualche suite e molte celle per i forzati alla ricerca, pochi ponti al sole per le classi più elevate e stive malmesse per chi viaggia in economia.
C’è un nuovo Capitano. Un Rettore eletto a primo scrutinio con milleseicento voti di ogni colore politico. Roberto Lagalla ha fondato il polo universitario di Agrigento ed è stato Assessore Regionale alla Sanità.
“Avverto la consapevolezza diffusa della necessità del cambiamento. L’università ha un ruolo fondamentale. Deve saper cogliere i fermenti della società civile. Confindustria è la punta avanzata di questa sensibilità. L’Università ha un obbligo etico di farsi motore del cambiamento. Occorrono convergenze sinergiche per raggiungere quest’obiettivo”.
Il primo indizio, il linguaggio, conduce ad un laboratorio politico. Le convergenze. Aldo Moro. Ciò per il leader della sinistra democristiana era parallelo, per Lagalla è sinergico. Tradizione e innovazione. La mediazione politica, la concertazione politica, e l’innesto del concetto contemporaneo di rete.
Mastica il sigaro, Roberto Lagalla, ed usa frasi lunghe, smussate; un periodare ben scandito.
Poi, c’è il contenuto. Il cambiamento.
Non è un momento qualsiasi, per la Sicilia.
C’è un imprenditore, il primo tra gli imprenditori dell’Isola, Ivanhoe Lo Bello, che dice a brutto muso ai suoi associati: se non denunciate gli estorsori, vi caccerò da Confindustria.
C’è un Presidente della Regione, Raffaele Lombardo, che a capo dell’assessorato alla Sanità mette un pupillo di Borsellino e di Caselli, Massimo Russo, e intima ai suoi trentamila dipendenti di farsi trovare al loro posto, al lavoro, ché la pacchia è finita.
C’è un Rettore appena eletto, all’Università di Palermo, Roberto Lagalla, che annuncia un argine agli sprechi e investimenti per didattica, ricerca e relazioni internazionali.
Cosa unisce questi tre uomini? Niente, in apparenza: Lo Bello è di area democratica; Lombardo un autonomista; Lagalla vicino al centro destra. Un connotato culturale, forse. Sono dei moderati, detestano capipopolo e rivoluzioni. Ma nella semplicità dei loro obiettivi, forse, ci sono semi di cambiamento.
Lagalla ha 53 anni e 4 figli: 23 anni il primogenito, 6 l’ultimo nato. E’ entrato all’Università dopo il liceo classico, il Gonzaga, e non ne è più uscito. Si è laureato a Palermo e si è specializzato fra Palermo, Montpellier, Rotterdam e Trieste. Radiologo.
“Serve una proposta culturale”, dice. “L’Università dev’essere un assistente globale del cambiamento”.
E se, invece, fosse un consulente globale? La rivoluzione del sistema del Credito, nel bene e nel male, è iniziata quando le banche hanno smesso di farsi semplici custodi e ignave prestatrici di denaro, ed hanno cominciato ad occuparsi delle esigenze del cliente.
“Naturalmente. Esercitandosi sul terreno della legalità, innanzitutto. Contro la mafia e il racket. E poi, l’Università deve rinunciare all’autoreferenzialità del proprio ruolo. Occorrono dei cambiamenti: nei processi di spesa, nell’incremento della mobilità degli studenti, nella competitività, nell’internazionalismo”.
Dopo il tempo dei diritti, è arrivato il tempo dei doveri?
“Non sono d’accordo con il modello dei tre anni più due, e con il modo in cui il modello è stato interpretato ed applicato. Il quadro è sconfortante. Mi pare che l’Università sia vista anche come un parcheggio in attesa di un posto di lavoro, un contenitore di aspettative”.
Il dibattito italiano è stantio: l’Università dev’esser di massa o servire un’elite? Gli archeologi s’accalorano e gli iscritti lievitano, insieme a cattedre, corsi triennali, studenti fuoricorso e disoccupati intellettuali.
“Servono numeri programmati, selezioni per l’accesso e una diversa pianificazione, peraltro imposta dalla legge. Medicina, ad esempio, ha 275 iscritti al nuovo anno accademico. L’anno scorso erano ancora di meno. Tutti quanti perfettamente assorbibili dal mercato del lavoro.
Altre Facoltà hanno migliaia di iscritti. Con il record di Lettere e Filosofia. Anche qui occorrerà intervenire?
“Sì. Ma occorrerà anche migliorare l’offerta. Offrire standard accettabili di formazione: dovremo riuscirci nell’arco di un triennio. Ma servono risorse. Da anni, le finanziarie non fanno altro che ridurre i fondi. L’ultimo taglio è di 500 milioni di euro in tre anni. E non si fanno le nozze con i fichi secchi”.
La sensazione, in Sicilia, è quella della desertificazione culturale. Mentre i saperi universali evaporano, i saperi parziali spariscono, s’interrano, come certi fiumi, sotto il flusso travolgente della modernità, del sapere funzionale.
“L’Università ha diversi obiettivi, e in qualche caso, può limitarsi ad offrire una specializzazione ulteriore alle professioni normalmente svolte dai diplomati”.
Nel ragionamento di Lagalla ricorrono alcune costanti. Il far sistema, intanto. Il fare rete. L’Università deve dialogare con la scuola e scambiare esperienze con il sistema economico ed il territorio. La concertazione, poi: il cambiamento dev’esser condiviso all’interno, tra i diversi soggetti che animano l’Ateneo, e all’esterno, con gli interlocutori istituzionali.
“Lo scenario generale indica che il sistema si è rimesso in movimento. Dobbiamo potenziare la ricerca. Non possiamo essere un parcheggio. Una palestra, semmai, per testare la volontà dei giovani. Penso a dottorati interdisciplinari, con l’obbligo di trascorrere un anno all’estero. Mobilità pure dei professori: da altre Università, anche estere. Su questo, chi mi ha preceduto, il Rettore Giuseppe Silvestri, ha avviato un lavoro eccellente, recuperando un vecchio manufatto, in periferia, e destinandolo alla ricerca scientifica. Intendo proseguire su questa strada. Penso ad un Beaubourg scientifico della Sicilia Occidentale”.
Collaborando con l’impresa?
“Sì, per la ricerca applicata. Penso ad un’agenzia regionale per il trasferimento delle tecnologie, nella quale convergano le 4 università siciliane. Ma occorre ritagliare uno spazio importante anche per la ricerca di base. Non tutto può esser finalizzato all’applicazione immediata”.
L’Università non si limita a formare degli studenti: agisce nel territorio, con un proprio Policlinico. Vecchio, a dir poco. E ciò che fa vecchia la Sanità, in Italia, è anzitutto l’architettura: edifici fatiscenti, che allontanano, anziché avvicinare, settori che tra loro dovrebbero comunicare.
“Entro l’anno, conto di avviare la riqualificazione del Policlinico. Ma prima o poi, dovremo ragionare su un Policlinico nuovo di zecca”.
E il Parco d’Orleans? Palermo lo ha salvato dalla speculazione edilizia. C’è un villaggio sportivo. Che vuol farne, l’Università?
“Nel giro di un anno legheremo il villaggio sportivo al campus. Servono spazi per la cultura, poi: sale studio, ed altro ancora”.
Così, si svuoteranno le biblioteche. Peccato. E la sede del Rettorato? Palazzo Steri conserva dei graffiti straordinari, tracciati dai prigionieri che per anni abitarono le sue celle. Ho letto che vorrebbero farne il Museo dell’Inquisizione: come se ad Auschwitz avessero fatto il Museo delle SS e dei Sonderkommando. Non sarebbe meglio farne il Museo delle vittime dell’Inquisizione? Degli ebrei, anzitutto, che furono le prime vittime del primo grande sterminio di massa, perpetrato in nome della fede. In Sicilia, c’era un’enorme presenza ebraica, che fu letteralmente azzerata.
“Credo che l’intenzione fosse quella di ricordare l’orrore: le vittime, e non i carnefici”.
Il nome conta, però.
“Preferisco Museo delle vittime dell’Inquisizione”.
Cosa legge, Lagalla?
“I romanzi me li suggerisce mia moglie Paola. Leggo molto di storia: del Fascismo e della Chiesa, più che altro”.
Gli chiedo se abbia delle idee per il suo futuro politico. Risponde che in mente ha solo il suo impegno prossimo, da Rettore. “Vorrei far due mandati. E non superare, comunque, i cinque anni”.
Mi hanno insegnato che Moro ha lasciato ai morotei l’eredità dello sguardo lungo, replico: dieci anni, non di meno.
Scoppia in una risata, mentre gli s’illuminano gli occhi, e le spalle prendono a scuotersi: una movenza che mi riporta ad un uomo che non c’è più, padre Ennio Pintacuda.
“E’ stato uno dei miei maestri”.
I maestri, ecco. Chi è stato il più importante?
“Padre Antonino Gliozzo. Era il Rettore del Gonzaga, la scuola dei Padri Gesuiti. Proveniva dalla Segreteria di Stato Vaticana. Facevamo lunghe passeggiate”.
Mai stato Prefetto, al Gonzaga?
“Mai. Eppure, questa voce gira, a Palermo. Sono stato un arbitro, semmai. E finito il Liceo, insieme ad un amico di allora, Roberto Liotta, ho contribuito a fondare la Polisportiva Gonzaga”.
Bisogna dire che la figura del Prefetto, tra gli alunni dei Gesuiti, è di poca responsabilità ma di grande visibilità. Niente di più indigesto per Roberto Lagalla. A far l’arbitro, invece, s’acquisiscono virtù preziose: fiato, intuito, autorità. E bisogna figurarselo, questo siculo abruzzese di due metri, vestito di nero, fischietto in bocca e corsetta a pochi metri dal pallone. Nome per nome, cita i campioni di allora, le scoperte, i trofei conquistati.“E’ tutta questione di organizzazione”, si schernisce.

CONVERSAZIONE CON MASSIMO RUSSO

Su Panorama, che mi ha chiesto, da scrittore, un confronto con Massimo Russo, personaggio simbolo del cambiamento possibile in Sicilia (pm in aspettativa e assessore regionale della Sanità), è stata pubblicata una versione ridotta della nostra conversazione, per giuste ragioni di spazio. Questa è la versione integrale.

Ogni volta che in Sicilia s’annuncia una rivoluzione, subito scattano le contromisure. La più efficace, più della maldicenza, che pure è sempre all’opera, è l’ingiuria: il rivoluzionario è un illuso, un parolaio. Un Capopopolo, un Giuseppe Alesi qualunque, il nostro Masaniello.
Contro Massimo Russo, da pochi mesi assessore siciliano alla Sanità, dopo anni d’antimafia nelle procure di Palermo e Trapani, e contro i suoi tagli di bilancio, protestano i laboratori e gli studi convenzionati, con annunci a pagamento sui giornali, e le cliniche private fanno valere, a colpi di dichiarazioni, il loro peso politico, così ingente da doversi distribuire sull’intero campo politico.
Finora, lui aveva reagito a queste scaramucce diramando circolari, rilasciando interviste, circondandosi di fedelissimi e sostituendo alcuni dirigenti chiave. Semplice guerra di trincea.
Mancava il campo aperto, dove la battaglia infuria e gli eserciti si confondono. E il campo aperto è arrivato.
Nel giorno in cui Massimo Russo consegna al Ministero della Sanità il Piano di rientro dal deficit siciliano, una ventina di deputati del Pdl, architrave della sua maggioranza di governo, di centro destra, presentano un disegno di legge alternativo. All’assessore - dicono - spettano solo i tagli: le riforme le fa il Parlamento regionale. Il punto è che, nel suo Piano, Russo aveva ridisegnato in profondità l’intero sistema sanitario siciliano.
Il Partito Democratico l’attacca, parla di tagli eccessivi, superiori persino alle prescrizioni dell’accordo firmato un anno fa con il governo Prodi e, a sorpresa, in aperta polemica con i democratici, la Cgil lo difende, apprezzando la sua volontà riformatrice.
Il solito guazzabuglio siciliano, insomma.
Incontro Massimo Russo in assessorato. Nella sua stanza.
Ha una stretta di mano energica.
Alto come un ussaro, mocassini ai piedi. I gemelli e i polsini, perfettamente contenuti nella manica, indicano il lavoro accurato di un sarto.
Massimo Russo è impetuoso, allunga il collo all’indietro: nel linguaggio non verbale, significa “non ho paura di te”. Si vede che le domande è abituato a porle, non a riceverle.
Prima di parlare di Sanità, piccolo inciso politico. Parentopoli è il nome affibbiato all’ultimo scandalo siciliano. La figlia di un suo doppio collega, ex magistrato ed ora assessore al Personale, assunta in un ufficio di gabinetto del governo regionale. Ma come? Non lo sapevate d’essere attesi al varco? Il suo collega, Giovanni Ilarda, si fa emulo di Renato Brunetta, tuonando contro i fannulloni dell’amministrazione regionale, e poi inciampa sulla figlia?
“Quell’assunzione era inopportuna. Io avrei evitato. Ma c’è di peggio. Alle ultime politiche, nel Centro sinistra hanno fatto eleggere figlie, mogli e segretarie”.
Che al peggio non ci sia fine, è argomento francamente vecchio, assessore. Da lei, proprio, non me lo sarei mai aspettato.
“No, intendiamoci. E’ stato un errore. Ed io non l’avrei commesso”.
Lei è stato pubblico ministero a Palermo negli anni di Caselli e Grasso. Ha indagato sulle connessioni tra mafia e politica. Ora, però, si trova a ficcar le mani nel ginepraio più intricato della Sicilia, con un deficit annuale di 800 milioni di euro, e in un governo regionale presieduto da un autonomista ex democristiano, Raffaele Lombardo, mentre, da Roma, Renato Brunetta addita le responsabilità delle regioni sprecone: quelle a Statuto Speciale, e dunque, in primo luogo, la Sicilia.
Come farà ad evitare il disastro della Sanità siciliana, evitando gli sgambetti? Se bastassero le parole, avremmo già sconfitto mafia, sperperi e clientele.
“Ho buoni muscoli: per saltare oltre gli sgambetti e anche per andarmene, se capisco che non è aria. Tutti devono dare il proprio contributo. E a proposito di dichiarazioni, ce n’è un’altra, del Ministro Sacconi, che mette la Sicilia in fondo alle regioni d’Italia. Siamo al disastro. Le entrate fiscali della Regione, quest’anno, saranno inferiori al previsto, e dobbiamo assolutamente rispettare i tetti di spesa che ci siamo dati. Possiamo discutere della distribuzione dei fondi, non della loro quantità. Servono meno sprechi e più efficienza. Bisogna diminuire i posti letto e aumentare lungodegenze e riabilitazioni, accorpare Ausl e aziende ospedaliere, creare centri di eccellenza e, infine, nominare manager capaci e slegati dalla politica”.
Lei ha chiesto ai suoi amici, alle persone di cui più si fida, se accettare o no la proposta di Raffaele Lombardo di entrare nel suo governo regionale.
“Quelli che più mi conoscono, mi hanno detto che dovevo accettare. La buona Sanità è un diritto fondamentale da restituire al cittadino. Devo sporcarmi le mani e tener pulito il cuore e il cervello. E il portafogli. Avevo già detto no alla candidatura alla Camera, con gli autonomisti: con questo sistema sarebbe stata una nomina, non un’elezione”.
Quanto dura, qui all’Assessorato?
“Cinque anni”.
Dovrà diventare più politico.
“Lombardo me lo dice sempre: non è che mi diventa politico?”.
Vi date ancora del lei?
“Sempre”.
Fin qui, i politici si sono sgolati con le litanie sul deficit. Ma salvare la Sanità non è un obiettivo puramente economicistico, l’oggetto di una quadratura finanziaria. E’ innanzitutto salvare la vita alla gente.
“Nel mio primo discorso davanti all’Assemblea Regionale ho detto che al centro del sistema dev’esserci la persona umana. Insieme a regole, rigore, risultati e responsabilità: chi non è in grado, o si mette da parte, o dev’esser messo da parte”.
La persona umana? Di che cosa stiamo parlando? Lei sa che a Palermo un malato di cancro deve ottenere 4 diverse autorizzazioni per andare in farmacia a comprare un farmaco che serve a salvargli la vita? Dal reparto ospedaliero, dal medico di famiglia e da due diversi reparti della Ausl! Lo sa che questo farmaco non è considerato salvavita? E che le norme sono così contraddittorie e inadeguate da vietarne la prescrizione, in qualche caso?
Russo s’infervora. Chiama un membro del suo staff che fino a ieri ha guidato il reparto farmacologico dell’Assessorato. Si chiama Lucia Borsellino. Ed è figlia di Paolo Borsellino.
“Ho emesso una nuova circolare”, dice Russo. “Per semplificare le procedure. Da Marsala e da Trapani mi hanno scritto per ringraziarmi. Vuol dire che a Palermo – e qua batte una mano sul tavolo delle riunioni – mi stanno boicottando!”.
Questa circolare, per la verità, parla solo della distribuzione diretta da parte delle farmacie comunali. Così si passerà da una coda a un’altra. Un conto è Marsala. Un conto è una città di un milione di abitanti come Palermo.
“Dobbiamo risparmiare 20 milioni di euro che regalavamo alle case farmaceutiche!”.
Dovreste anche semplificare le cose, per metter davvero al centro il cittadino. Combattere la burocrazia come la mafia. Dar più potere ai 5000 medici di famiglia e pediatri siciliani, sul modello britannico: dar loro più responsabilità, e aumentare i controlli. Chi sbaglia e ruba, va cacciato, o va in galera.
“Non lo conosco, quel sistema. Ma voglio trasformare i medici di famiglia in presidi sanitari di base. E’ solo questione di risorse”.
Pagateli di più, allora! Scaricate i Pronto Soccorso delle funzioni improprie e girate il ricavato ai medici di famiglia: che comprino attrezzature e assumano dei collaboratori.
“E’ la mia intenzione. Dovrebbero anche potenziare il lavoro online, verso i pazienti e verso le farmacie e gli Ospedali. Abbiamo una gran quantità di ricoveri impropri. In Europa, sono solo il trenta per cento dei nostri. Ci si pensa tre volte prima di ricoverare qualcuno”.
E chi li controlla, i nostri Ospedali, i nostri medici?
“Nessuno. La rete dei controlli va ricostruita dalle fondamenta”.
In Sicilia, ci sono quasi duemila convenzionati esterni. I privati. Cliniche, medici specialisti, laboratori d’analisi. Sono stati dipinti come la fonte di tutti i mali. Lei la pensa così?
“Niente affatto. Ma anche loro devono dare il loro contributo al risanamento, adeguando le tariffe, e non scioperare davanti all’assessorato. Potrebbero persino aver più spazio, in un sistema più efficiente”.
La Sanità siciliana ha un problema architettonico, prima che morale: molti ospedali siciliani sono vecchi: andrebbero semplicemente demoliti e ricostruiti. A Palermo, il Civico e il Policlinico, i primi due che mi vengono in mente, sono la negazione di un Ospedale moderno: edifici antiquati su aree vastissime. Per un esame o un consulto, bisogna prender la macchina o l’ambulanza e far qualche chilometro. In generale, poi, i Pronto Soccorso, anziché luogo del primo esame, porta d’ingresso alle diverse specialità, sono appendici inefficienti, lardelle di un corpo morto.
“Dovremmo cederli, questi ospedali, per farne aree edificabili, e chiedere alle imprese di costruirci altrove degli ospedali nuovi di zecca e attrezzati di tutto punto”.
Pensare in grande.
“Per l’appunto”.
Pensiamo in grande, allora. Pensiamo ai medici e agli infermieri. Lei ha appena annunciato che bloccherà tutte le assunzioni. Non capisco. Su quasi cinquantamila dipendenti dell’intero sistema, amministrativi e tecnici sono tredicimila. Non è da lì che bisogna cominciare? E poi, il blocco significa rinunciare ai medici migliori, ai giovani. E’ mai possibile entrare in un Ospedale a 25 anni e uscirne a 65? Niente controlli sull’efficienza, niente formazione continua, niente sanzioni. Perché mai le Aziende sanitarie e ospedaliere non dovrebbero ricorrere ai soli contratti a tempo determinato?
“Non so se possiamo. Meglio i controlli”.
Auguri. Lei è qui da pochi mesi. Può dire di conoscere la situazione?
“Ho trovato grandi difficoltà anche per avere i dati di riferimento, in assessorato. Non sono un esperto. E non voglio diventarlo. Tra le domande che non mi ha fatto…”
Ce ne sono tante, di domande non fatte. Su mafia e antimafia, ad esempio. Bestemmio se le dico che nessun processo accorcerà di un solo minuto una coda di 8 ore dinanzi alla porta chiusa di un Pronto Soccorso, consentirà ad un medico incapace di azzeccare una diagnosi, rifornirà un Ospedale di attrezzature e farmaci?
Una cosa però devo chiedergliela. Devo proprio.
“Dica”.
La sua prima destinazione, prima da giudice e poi da pm, fu Marsala. Dove ha conosciuto una persona speciale. Era il ’91. Un anno prima delle stragi.
“Se le rispondo, diranno subito che io…”.
Lucia Borsellino si scusa. Deve lasciarci. Il ricordo di suo padre la commuove. Massimo Russo riprende dopo qualche istante.
“Dico solo che è come se facessimo parte di un disegno più grande. Ho iniziato con Paolo Borsellino il mio primo lavoro. Ed ora, questo, con sua figlia”.
Paolo Borsellino diceva che chi ha paura muore ogni giorno. Lei ha ricevuto minacce?
“Non ho mollato quando ero pm e processavo i capimafia, si figuri se mollo adesso”.
Si è fatta così stretta, la porta della storia, in Sicilia, che la politica deve camminare a fianco della letteratura: i toni sono esagerati, come i colori della terra. Pochi cambiamenti, e faticosi: ognuno di essi, però, destinato a far parlare per anni.

venerdì 12 settembre 2008

POCHE ESSENZIALI VISIONI

Bisogna portarsi appresso poche essenziali visioni, per non rimpiangere l'estate.
Santa Croce Camerina ha i colori di Tunisia, e un caldo quasi mai afoso.
Le campagne non ingialliscono.
Il mare, a pochi chilometri, è freddo.
Le pasticcerie sono luoghi dediti al vizio. Torroni, impanatigghi, nucatuli.
Una delle note più dolci delle estati orientali è nelle molteplici reinvenzioni del latte vaccino di cui sono capaci i ragusani. Lo trovi fresco nei distributori automatici, come fosse Coca Cola.
Dalla ricotta proviene un gelato bianchissimo, da macchiarsi appena con la polvere di cannella.
Il pane, poi. E' di scorza dura. Servono formaggi e carni, per ammorbidirlo, e un vino forte.

giovedì 14 agosto 2008

NEL FONDO DEI GIORNALI D'ESTATE

Sono brutti, i giornali d'estate. Come idrovore, estraggono ogni cosa dal fondo dei fiumi limacciosi. Parlano dei soldi degli altri, di corna e di rapine in villa.
Quest'anno, anche delle Olimpiadi e delle guerre dei signori del gas.
Capita, però, nel fango, di scovare dei piccoli tesori.
Tra le notizie minori, e solitamente impubblicabili, ne emergono alcune straordinarie.
Come quella del rapinatore di pizzerie, che a diciott'anni, a Castrofilippo, si è preso una pala in testa, vibrata dal padrone. Interrogato, al suo risveglio, e riconosciuto dagli avventori, è stato lasciato andare. Nella notte, forse per il colpo ricevuto, ha deciso di presentarsi ai Carabinieri. Arrestatemi, ha detto. Ho tentato di rapinare una pizzeria. Denunciato, sarà processato a piede libero.
C'è un sapore vero, terragno, in questa storia. Che ha poco sangue e molta umanità.

domenica 10 agosto 2008

IL GRIGIO IMPERO

Qualche giorno prima dell'accensione della fiaccola, i solerti organizzatori delle Olimpiadi di Pechino hanno sparato dei metalli pesanti contro le nuvole, per scaricare la pioggia che avrebbe potuto minacciare lo svolgimento dei Giochi. Per ridurre l'umidità, e per abbattere al suolo tutto ciò che va sotto la generosa definizione di smog.
In Cina, non vanno troppo per il sottile con l'inquinamento. Nei confronti dell'ambiente, hanno lo stesso atteggiamento usato nei confronti dei diritti umani. Altro che vecchia Europa.
Oggi, la corsa dei ciclisti si è svolta sotto la pioggia. Quaranta gradi e un muro di umidità da penetrare a forza di gambe e polmoni, con gli occhi che bruciano costantemente e le mucose in allarme. Sotto un cielo perennemente grigio e un sole invisibile.
E dire che la Cina era chiamata Il Celeste Impero.

sabato 9 agosto 2008

SPOT DI TIRANNIA

La propaganda, il partito principe, il centralismo contro le autonomie, il sostegno ai regimi autoritari africani e orientali, la galera per il dissenso, la repressione religiosa, la pena di morte, il controllo sul web e la censura dell'informazione.
La Cina è questo e altro ancora, e ieri ha dato vita ad un'impressionante manifestazione di potenza: una sfilata di indossatori di maschere felici, perfetti esecutori di un copione totalitario sotto lo sguardo vigile del dittatore coreografo. Con la trovata simbolica del confucianesimo a sostituire i miti rivoluzionari, e Steven Spielberg a sceneggiare lo spot più macabro del ventunesimo secolo: con l'elencazione dei primati culturali e la fiaccola che passava dalle mani dei primi vincitori cinesi delle Olimpiadi a quelle del primo ginnasta imprenditore dell'immenso paese.
Uno spot che sottintendeva un solo messaggio: un quarto dell'umanità è cinese, e su quel miliardo e trecento milioni di persone vegliano due milioni e mezzo di soldati che sfilano ancora al passo dell'Oca, reggendo la bandiera rossa.
Sembrava di assistere alla sfilata inaugurale delle Olimpiadi del 1936 a Berlino.
Speriamo in un nuovo Jesse Owens.
Post Scriptum Non è un caso che in queste ore sia scoppiata una guerra vera: tra la Russia e la Georgia. Altro spot, a significare che anche Putin fa sul serio.

domenica 3 agosto 2008

AGRODOLCE

Senza la voce di Olivia Sellerio, senza la maestria di un compositore come Andrea Guerra, senza l'arrangiamento straordinario di Pietro Leveratto, non avrei saputo mettere una parola dietro l'altra. E invece, verso dopo verso, è venuta fuori una canzone: scritta, limata e riscritta cento volte, intramata di omaggi segreti, di allusioni. Occhi neri come il vino, si chiama. Ed è la sigla di Agrodolce.

Agro e dolce vento che
Ci separa ci avvicina
E resto qui a vegliare il mare
In quest’onda che risale
Sulle mie rive tu ritornerai…

Siamo isole lontane,
arcipelago nel mare.
E nel mare, c’inseguiamo noi.

Se trovassi le parole per cantare,
questa gioia che s’avvera...
Senza vele né bandiera
Potrei ancora navigare.
Trovassi le parole, come nuvole,
su questo mare
farei piovere le lacrime
che oramai non so più piangere.

Agrodolce amore che,
canta forte sopravvento.
Uva che matura al sole,
miele arancio dentro il cuore.
E gli occhi tuoi li vedo amore ormai…

Occhi neri come il vino,
come l’alba trova il mare.
Nel soffio del maestrale tornerai…

lunedì 21 luglio 2008

MAESTRI E ALUNNI

Più dei maestri di tutti gli alunni, detesto gli alunni di tutti i maestri.

QUEI BAGNANTI DI TORREGAVETA


In Germania, prima e dopo il '33, per strada si marciava al passo dell'oca, si bruciavano i libri, si fracassavano le vetrine dei negozi degli ebrei, si pronunciavano parole deliranti, si dileggiava la vita umana e con essa ogni fondamento civile dell'Europa antica e cristiana.
O forse non è così.
In Europa, per secoli, la vita umana era stata vilipesa e derisa: gli auto da fé, i processi burla, la gogna, la giustizia asservita ai potenti, le oligarchie, le monarchie.
Vado inutilmente in cerca di una legge umana superiore che condanni, e tolga ogni sostegno all'indifferenza dei bagnanti di Torregaveta dinanzi ai corpicini di due bambine rom annegate sotto i loro occhi, stesi sulla sabbia e coperti da due poveri asciugamani.
Quei bagnanti sono rimasti ai loro posti: sulle sdraio, o distesi, esposti all'azione purificatrice del sole.
Delle leggi superiori non dico: è cosa per definizione incommentabile.
Ma la cultura? Il senso comune? La bocca aperta che regala ai bambini lo stupore dinanzi alla scoperta del vero e del bello? E quella scoperta, che fine ha fatto, in quegli adulti indifferenti?
Ogni volta che accade una cosa del genere, che si pubblica una foto così dura, una parte della mia fede nell'uomo rischia la cancrena, l'idea stessa della giustizia va in malora.
Di cosa si punisce un uomo, infatti, se non della perdita del suo senso medesimo?

POLITICA E TRADIMENTO

Le immagini imbarazzanti dell'ultimo congresso dei Verdi, le urla e gli insulti, e quel che essi nascondono, i rimaneggiamenti da corridoio e i voti preordinati, dicono della democrazia più di un libro: della sua natura, del tradimento e del doppiogiochismo connaturati al meccanismo elettivo. Se tutti mi voteranno, non potrò difendere gli interessi di alcuno. Se alcuni mi voteranno, dovrò pure occuparmi degli interessi degli altri. Sicché, sostiene Giuliano Ferrara, la politica è sangue e merda. Chi ha più voglia di far politica?

giovedì 26 giugno 2008

LA PIETRA

Renzo Bellanca ha chiesto ad alcuni autori italiani di affiancare dei racconti alle sue sculture. Ne è venuta fuori la mostra Doppio Linguaggio, che in questi giorni può esser visitata al Chiostro del Bramante, a Roma. Questo è il mio racconto.

Non c’è pietra grezza o lavorata nel mio villaggio che i Maestri non abbiano ordinato di custodire al chiuso o proteggere all’aperto, rilevandone con un raggio antimaterico l’irripetibile composizione e applicandovi un microscopico sensore a carica infinita.
I regolamenti, approvati dal Sinedrio, sono chiarissimi anche sui metalli, la proprietà dei quali spetta all’Ente Supremo: occorre denunciarne il possesso antecedente il Decreto Universale, e le leghe e gli impasti vanno autorizzati per periodi definiti, al termine dei quali, occorre restituirli agli Uffici del Ripristino.
I legni sono esposti nei Musei delle essenze viventi. Gli alberi sono stati sostituiti dagli Osmoti: apparecchiature anfibie di natura organica che si nutrono di anidride carbonica e producono ossigeno, all’aria aperta e nelle profondità marine.
Le antiche civiltà umane hanno dilapidato le ricchezze naturali.
Al termine della prima grande guerra dell’acqua, mille anni fa, i Maestri hanno deliberato la Restituzione alla terra del maltolto.
Io, Silvestre, inventore dell’inchiostro capace di cancellare ogni libro, dello specchio che mostra ciò che è alle nostre spalle, della macchina che conduce nel passato, ho ottenuto dal Sinedrio il possesso di questa pietra, sulla quale incido la nostra storia presente e rivolgo un monito ai nostri predecessori.
La tensione all’Assoluto in terra, diffusa dalla Letteratura e dalle Arti, ha condotto l’Umano al di là dei confini per esso stabiliti.
In questa Pietra, scrivo tutte le parole di tutti i libri e riproduco tutte le figure di ogni disegno, affinché siano esse riconosciute per tempo e poste al bando dalle generazioni che son venute a me e che da voi proverranno.
Ho cancellato i libri, ho guardato alle mie spalle, vi invio questa pietra con la mia macchina del tempo.
Fatene buon uso.

Questa pietra, Maestro, ho rinvenuto alcuni mesi fa nei pressi del Lago, e vi si specchiava con il suo messaggio, dal contenuto ancora per me oscuro. A prima vista, i caratteri parevano intelligibili, ma ad uno sguardo più attento, nulla di ciò che vi era inciso, era comprensibile. Mi apparve come un Codice, e ho pazientemente tentato di decifrarlo, senza però alcun apprezzabile risultato. Mi auguro che Voi, nella Vostra infinita saggezza, possiate penetrarne il mistero. A questo Convento, che mi ha accolto giovanissimo, offro pure un mio progetto, che è scaturito dall’osservazione di questo Codice. La stampa. L’incisione su pietra e su metalli mediante apposita fusione dei testi sacri e profani che ancora trascriviamo manualmente. La stampa ci consentirà di diffonderli su tutta la terra. Il vostro fratello amanuense Angelo.

NIENTE ZTL? NIENTE AUTO!

A Palermo il Tribunale Amministrativo boccia l'ordinanza comunale sull'istituzione delle Zone a Traffico Limitato, le famose Ztl, e al pasticciaccio brutto di un provvedimento costoso e inefficace, s'aggiunge il pasticcetto dei rimborsi a chi aveva già pagato per il permesso di circolazione.
Ma il mondo è cambiato, e non in meglio, e il diritto alla salute vale di più del diritto all'automobile, se l'automobile inquina.
Dunque, un appello. Niente Ztl. Un no alle auto, semplicemente, da via Libertà alla Stazione Centrale, con poche eccezioni. Per gli invalidi, quelli veri. E dei semplici corridoi d'attraversamento per i residenti.
Punto.
Il resto, verrà da sé.
Gli autobus andranno più veloci. E se si tratta di autobus vecchi ed inquinanti, pazienza: saranno sempre meno delle auto. E prima o poi funzioneranno i tram e quel po' di metropolitana che sarà possibile realizzare nel difficile sottosuolo di Palermo.
Di un paio di effetti collaterali, invece, si potrà subito disporre: l'aria buona sul viso di chi cammina o riscopre la bicicletta, e un incentivo gratuito per le case automobilistiche: sostituite il petrolio con l'idrogeno.
Per farlo, per pronunciare un secco no all'inquinamento, serve coraggio.
E la consapevolezza che il mondo è cambiato, e l'automobile non è più un diritto.

martedì 24 giugno 2008

LE SOLITUDINI DI PAOLO E GIOVANNI

Nella navata sinistra di San Francesco d’Assisi, ad una certa ora del giorno, la luce prende corpo, e stende i suoi raggi fra il tetto e il pavimento spoglio.
Non c’è modo di restare all’ombra, se non rimanendo perfettamente immobili.
Alle mie spalle, il portale era spalancato sul sole di quella mattina di giugno di sedici anni fa.
Il sacerdote diceva qualcosa, a proposito di quei morti che anch’io ero venuto a ricordare. Parlava quasi sottovoce. In suffragio di cinque anime.
Le scale, il portale spalancato, la luce. Ero appena entrato, e con un passo, mi ero spostato a sinistra, infrangendo un muriciattolo d’ombra e passando per quel reticolo di luce e polveri in sospensione.
Le cose andavano così oramai da secoli, a San Francesco.
Ombre e luci, disegnate dalle abili mani di architetti di imperscrutabile sapienza, costituivano il solo arredo celeste di una Basilica scarnificata, di pietra appena squadrata; vennero dopo, gli stucchi e i marmi.
Feci un passo, dunque, e mi spostai a sinistra.
Il caldo di quel giugno stretto tra due mesi di sangue, tra il Maggio di Capaci e il Luglio di via Mariano d’Amelio, era temperato dal soffio di vento misericordioso che giungeva dal fondo.
Superai la prima colonna, e avanzai ancora.
Solo il viso affiorava oltre la coltre di buio che avevo scelto per ripararmi.
Lui, fu scosso da un tremito. Era seduto alla mia destra, da solo, su una panca di legno, forse regalata da una famiglia di fedeli, come usa da noi, in ricordo di qualcuno, o a futura memoria. Le braccia appoggiate sulle gambe, le mani giunte, la testa un po’ incassata tra le spalle.
Si volse lentamente, come per una presa d’atto.
Il suo sguardo si poggiò su di me, ed io lo riconobbi solo un attimo dopo averlo incrociato; in quel momento esatto, compresi che non poteva esservi paura, in quegli occhi.
Lo salutai, con un piccolo movimento del capo, e forse, con le labbra, con gli occhi, riuscii a dirgli che un poco del suo dolore era anche il mio.
Quella mattina, accompagnavo alcuni giornalisti stranieri, venuti a Palermo dopo il tritolo di Capaci: come si andava a Beirut, a Saigon, a Kabul.
Quando tutto fu finito, quando il sacerdote ebbe impartito la benedizione, quando era oramai troppo tardi per un’intervista, quando lui era già andato via, dissi loro che in Chiesa avevo intravisto Paolo Borsellino.
Il vento spazzava la città. Almeno credo. Ricordo dei giorni caldi, afosi, rabbiosi. Le sere, invece, pareva che il fresco del mare aperto ripulisse le strade impolverate.
Rividi quel volto irrigidito, quei gesti secchi e rassegnati, solo pochi giorni dopo. Alla Biblioteca comunale.
Quella sera, il dibattito non sarebbe stato il solito dibattito. Non sarebbe stato uguale a nessun altro.
Paolo Borsellino volle parlare ai palermitani che s’erano dati appuntamento nell’atrio di quel convento sconsacrato nonostante qualcosa, visibilmente, glielo impedisse. Era come se avesse deciso di ribellarsi ad un ordine imperioso, all’ingiunzione del silenzio che, da qualche parte, qualcuno gli aveva rivolto.
Disse della solitudine che aveva accompagnato gli ultimi anni di Giovanni Falcone, e i suoi.
Disse del tradimento.
Disse di un Giuda.
La voce, nel racconto interminabile di ciò che, fino in fondo, non poteva esser detto, si arrochiva del fumo delle sigarette che andavano e venivano; e s’incrinava, per il dolore acutissimo.
Ero sicuro che la sua voce, quella sera, qualsiasi cosa fosse scaturita dalle sue parole, non si sarebbe spenta. Non potevo muovermi da quel gradino sul quale avevo trovato posto. Non lo avrei fatto per nulla al mondo.
La sua voce non incontrava ostacoli.
A noi, invece, la voce mancava.
Paolo Borsellino diede la sua versione dei fatti; nel suo racconto - quello di un sopravvissuto al potere reale, alle sue insidie, ai suoi trucchi, alle sue ipocrisie - disse che una ragione c’era, perché Giovanni finisse a quel modo i suoi giorni: un movente per il suo assassinio.
Credo lo chiamasse Falcone.
Falcone, e cioè Giovanni, era riuscito a penetrare i segreti di Cosa Nostra, le sue relazioni con la finanza, l’intelligenza tra poteri legali e poteri criminali. Il solo compagno di quel viaggio, era lui stesso, Borsellino. E cioè, Paolo.
Parlò, Borsellino, per un tempo che mi apparve interminabile. Nel silenzio impaurito di tutti noi. Nel silenzio complice di Palermo. Nel silenzio ebete di tutto il Paese su quel che davvero si era consumato a Capaci.
Mentre parlava, di tanto in tanto, osservavo i volti di chi ascoltava; diversi, tra loro: attenti, commossi, impietriti, preoccupati, silenziosi, rabbiosi.
Volti coscienti.
Volti incoscienti.
Se tutti quanti pagassero un piccolo tributo alla verità, mi dicevo; se tutti quanti, questa sera, aggiungessero un segno concreto di condivisione, forse, potremmo difendere quest’uomo.
Potremmo salvarlo.
A Palermo, avevano sparato in tanti su Borsellino, e su Falcone.
Ricordo odi e invidie, dentro e fuori il Palazzo di Giustizia, che fu per questo ribattezzato “Palazzo dei Veleni”.
Ricordo che, per mesi, per anni, circolarono degli anonimi, stilati da un Corvo: rimasto misterioso nonostante inchieste e processi.
Palermo, come Beirut, Saigon, Kabul, doveva formicolare di agenti segreti, in quegli anni, e questa consuetudine, fra Stato e Antistato, dovette proseguire, per molti anni ancora; le loro parole d’ordine dovevano per forza esser depistaggio, diffamazione, dissimulazione.
Ricordo che a Falcone alcuni rimproverarono la scelta di lavorare al fianco di Claudio Martelli, al Ministero di Grazia e Giustizia; ricordo che lo accusarono di voler dar vita, con la Superprocura nazionale antimafia, ad una struttura d’asservimento della magistratura al potere esecutivo.
Una delle parole che più erano di moda, in quel momento, era “normalizzazione”. Con la Superprocura, che lui stesso avrebbe guidato, Falcone avrebbe dato il suo contributo alla “normalizzazione”.
Ricordo che, dopo la morte di Falcone, qualcuno candidò Borsellino a guidarla lui, la Superprocura. Ricordo che Borsellino reagì rabbiosamente a quell’imprudente candidatura.
Ricordo Leonardo Sciascia, e la sua recensione di un libro di Christopher Duggan, “La Mafia durante il Fascismo”, e penso che una gran parte del suo ragionamento era giusto, e una parte piccola ma decisiva non lo era; e Leonardo Sciascia, sia chiaro, è per me un Maestro di etica, ragionamento e stile, difficilmente eguagliabile.
Ricordo che era difficile, per me, capire tutto quanto, per bene; districarmi in quel purgatorio di si dice, in quel roveto di allusioni, in quel cespuglio in fiamme di verità più verità di altre.
Ricordo la mia laurea, a luglio.
Pensavo di festeggiare la fine dei miei studi, il 19 di luglio.
Quel pomeriggio, il telefono squillò minaccioso. Un amico mi disse d’aver sentito un’esplosione. Lui abitava in via Marchese di Roccaforte. E il rumore, assordante, inequivocabile, proveniva dalla Fiera del Mediterraneo, da quella direzione.
Presi subito a telefonare. All’agenzia Ansa, dall’altra parte della città, non sapevano nulla. Fecero delle telefonate.
Pensammo tutti, immediatamente, ad un attentato, meno di due mesi dopo Capaci. Pensammo ad un altro magistrato. Non sapevamo che da quelle parti viveva la madre di Paolo Borsellino.
Non ci volle molto. Pochi minuti. E sapemmo quel che era accaduto.
Andammo, tutti quanti, con i ragazzi del movimento antimafia, in via Mariano d’Amelio, a respirare un poco del fumo nero della morte. E la sera, tutti quanti, andammo in piazza Pretoria.
Quella sera, per tutti noi, non c’era più Stato; non c’era più autorità.
Scalammo il Palazzo delle Aquile, approfittando di una finestra lasciata aperta, e occupammo la sala delle Lapidi.
Non ci cacciò nessuno.
Passammo giorni e notti, in piazza.
L’Italia s’era fermata.
Destra e sinistra, allora, importavano pochissimo. Concetti astratti, a Palermo.
Ricordo i funerali. La rabbia.
Poi, anche quella protesta, finì. Ci furono altre morti, e le bombe di Firenze, Milano e Roma. Ci furono gli arresti. Cosa nostra decise di consegnare Totò Riina, e di immergersi, per qualche anno, nelle acque scure delle latitanze e delle trattative occulte.
Non ho mai festeggiato la mia laurea. Il cibo finì nella spazzatura, e il vino, andò a male.
Per Palermo, cominciò tutto così. O meglio, ricominciò.
Prima, c’erano stati gli anni Sessanta, gli anni Settanta, gli anni Ottanta.
La cementificazione della Conca d’Oro, l’espansione mafiosa, la guerra dei clan, le prime indagini. I morti. La decapitazione dello Stato, l’incenerimento della società civile. Il pool. I poliziotti. Il maxi processo. I Vespri Siciliani, con le autoblindo, i soldati disarmati e i giubbotti di carta stagnola.
Quella lunghissima fase, si era chiusa con le autobomba esplose a Capaci e in via Mariano d’Amelio.
Ma si poteva non capire che quelle autobomba avrebbero aperto una fase nuova? Avrebbero potuto, almeno.
Ad ogni anniversario, mi ripassa tutto quanto per la mente, ripenso al fatto che Giovanni Falcone e Paolo Borsellino erano rimasti soli, e che anche noi, tutti noi, li avevamo lasciati soli.
Non avevamo capito.
Non saprei dire il giorno esatto. Ricordo Paolo Borsellino ad una fiaccolata, una sera.
Sei anni dopo la sua morte, ho visitato la Terra Santa. I luoghi Santi, conosciuti attraverso le Letture. I luoghi dello studio, delle predicazioni, del martirio.
Era Natale. Tra israeliani e palestinesi covava una seconda drammatica Intifada. I militari distribuivano maschere antigas. Temendo una strage.
Vidi Betlemme, Nazareth. Gerusalemme. La città delle tre religioni, dei due popoli, del solo Dio.
Per giungere al Santo Sepolcro, occorre piegare la testa, e passare per una porticina, e discendere per una scala molto ripida, illuminata appena.
Sul tetto altissimo di Sant’Elena, nell’ombra profumata d’incenso, c’è un foro stellato, che si apre sul cielo.
Mi hanno raccontato, o forse ho letto, della cerimonia delle fiaccole, che si tiene nella Basilica, e del fuoco sacro che tutti si passano di mano in mano.
E ho compreso, il senso di quella fiaccola. Tutto quello che c’era da capire. Il ricordo del sacrificio, e il prender quel fuoco sulle proprie mani, tutti insieme. La memoria. E la promessa.

sabato 21 giugno 2008

LA CULTURA CHE PIACE ALL'IMPRESA

27 Giugno ore 19.00
Galleria d’Arte Moderna
P.zza Sant'Anna 21, Palermo

La cultura che piace all’impresa: storia, territorio e contemporaneità.

Saluti
Mario Milone, Assessore alla Cultura, Comune di Palermo

Introduce
Elisa Fulco, curatore Fondazione Borsalino

Intervengono
Antonella Purpura, Direttore Galleria d’Arte Moderna, Palermo
Roberto Gallo, Amministratore Delegato della Borsalino S.p.A. e della Fondazione Borsalino
Marco Montemaggi, Vice Presidente di Museimpresa
Vito Planeta, azienda vinicola Planeta
Francesca Appiani, curatrice del Museo Alessi

modera
Davide Camarrone, giornalista e scrittore.
Sabato 28 Giugno ore 21.00
Expa, via Alloro 97 - Rassegna sul cinema industriale d’animazione.

L’incontro è organizzato in occasione della mostra "Perdere la testa. Il cappello tra moda e follia", Collezione di arte outsider dell’Atelier di Pittura Adriano e Michele 31 Maggio / 6 Luglio Palab via Del Fondaco, Palermo tutti i giorni 18.00 / 24.00 ingresso libero / catalogo edizioni di passaggio

venerdì 20 giugno 2008

BARICCO E SAVIANO

Qualcuno di voi avrà, come me, letto della polemichina sull'editing profondo al quale sarebbero ritualmente sottoposti gli articoli di Roberto Saviano; e del giudizio di Alessandro Baricco su Gomorra: "Non mi è piaciuto".
Ora, che non si possa dir male di Saviano, mi sembra evidente, per il coraggio delle sue scelte; così come, mi sembra evidente che anche i libri di Saviano possano non piacere, a Baricco o ad altri.
Nessuno, credo, sarà rimasto sorpreso.
Non poteva che andare così. Lo scrittore più contenutistico, rasato e scamiciato, dispiace allo scrittore più formalistico, al fondatore della Scuola Holden, capelluto e button down.
E' l'eterno conflitto tra lo scrittore e il riscrittore. Tra la botte che invecchia e la barrique che affina. Tra un rosso giovane e robusto e un bianco in bollicine.
Questione di gusti.

IL POTERE E I CRETINI

Sostiene il filosofo francese Michel Onfray che la ricetta della Felicità consista anzitutto nel tenersi lontani dal Potere e dai Cretini. Pleonastico.

venerdì 13 giugno 2008

DOPPIO LINGUAGGIO

Doppio Linguaggio – Mostra-Evento di opere di Renzo Bellanca a cura di Juan Carlos García Alía, con i racconti inediti di Gaetano Savatteri, Roberto Cotroneo, Luigi Galluzzo, Fabrizio Falconi, Giosuè Calaciura, Davide Camarrone, Giacomo Cacciatore, Amara Lakhous, Paola Pastacaldi e Lia Bellanca.
Roma - Chiostro del Bramante - Sala delle Capriate - Dal 5 al 22 giugno.

Artista siciliano, residente a Roma da più di vent’anni, Renzo Bellanca mostra una tecnica personalissima, frutto di una elaborata ricerca artistica e di una profonda indagine sulla materia che è intesa non come puro mezzo di rappresentazione ma come metafora delle esperienze di vita vissuta nella quale, si deposita e si stratifica, il flusso inarrestabile di continue coesioni e di incessanti trasformazioni. Il titolo della mostra nasce da una nota incisione dell’artista che accosta il segno materico a quello linguistico e che ben sintetizza la natura dell’operazione: un dialogo tra due arti, la pittura e la letteratura, in un gioco di rimandi, di simboli, di allegorie, in cui la letteratura trae ispirazione dal testo pittorico che, a sua volta, diventa pregnante di nuovi significati e di originali suggestioni derivanti sia dalle evocazioni poetiche che da quelle letterarie.

Il progetto scaturisce dall’idea di Renzo Bellanca, Luigi Galluzzo e Gaetano Savatteri, amici di lunga data e conterranei, e dal desiderio di creare un evento che istituisse un forte ed unico filo conduttore tra le loro diverse e reciproche abilità artistiche. Si delinea, così, l’intenzione di scrivere un racconto inedito, ispirato ad un quadro dell’artista che troverà, nella Mostra-Evento Doppio Linguaggio, una prima ed immediata forma di comunicazione. La contaminazione di epoche e di linguaggi del passato e del presente, di culture e di segni è una prerogativa dell’opera di Bellanca con la quale gli scrittori citati provano affinità. Bellanca nelle sue opere scava nella memoria per capire l’origine e il divenire del nostro destino e per questo adopera alfabeti, numeri, segni, elementi, forme e colori che ci parlano del prima e del dopo che è in ognuno di noi. Arte e vita, storia ed esistenza viaggiano insieme nella sua elaborazione artistica.

La partecipazione si allarga ad altri scrittori, ognuno dei quali sceglie un’opera e, senza alcuna informazione o spiegazione in merito, vi si immerge per poi riemergere con la propria creazione letteraria. Dal Dialogo tra il mondo di Bellanca e quello degli scrittori citati, l’opera dell’artista si arricchisce , di rimando, di ulteriori significati letterari che amplificando l’idea iniziale la consegnano allo spettatore sotto una nuova prospettiva e una nuova chiave di “lettura”.

Catalogo Silvana Editoriale

MAFIA FILM

Una volta, entravi in libreria, scusandoti con il commesso, appena assunto, o scambiando uno sguardo d'intesa con il proprietario, e senza aggiungere altro, vagabondavi per tavoli e scaffali, osservando la mercanzia, sfogliandola, pesandola, osservandola dalla prima alla quarta di copertina. Con You Tube, è un po' più triste e veloce. Però. Di tanto in tanto, per intuito, o per caso, ti capita tra le dita il capolavoro. Editore sconosciuto, fattura poverissima. Autore, quello sì: te ne ricordi. Il nome. Ma sarà lui? Ugo Giuliani? Il tuo vecchio compagno di scuola? E' successo. Date uno sguardo a questo film scovato in rete. Mafia film, si chiama. Girato a Palermo. Geniale. Risposta ad un sacco di domande. Tranne una. Ma Ugo è proprio Ugo?

www.google.com/s2/sharing/stuff?user=115182503647860734563

GLI ATTI RELATIVI

Sostiene, il Procuratore della Repubblica a Palermo, Francesco Messineo, che presto a Palermo la raccolta dei rifiuti, o per dovuta precisione la mancata raccolta, ci precipiterà in una condizione simile a quella di Napoli. E al riguardo, in Procura è già stato "aperto" un fascicolo. Di atti relativi. Il che, letterariamente, ci riconduce ad altri "atti relativi", ad inchieste mai approdate a nulla, su suicidi propriamente detti, ed altrettanto inspiegabili. Se Palermo corre verso il suo, e per nulla vorremmo assistervi, non sarebbe il caso di arrestarlo, l'Angelo della Morte? Che, nel caso, si chiama imperizia, o incapacità organizzativa.
Le entità chiamate ATO, Ambiti Territoriali Ottimali, si sono rivelate delle macchine mangiasoldi. Andrebbero abolite per decreto, e sostituite con aziende a partecipazione pubblica.
Non siamo nella condizione di poter licenziare alcuno, purtroppo, e dunque, la cosiddetta privatizzazione, dalle nostre parti, è solo un modo per spendere di più, e per affidare ai privati le scelte che la politica non può legittimamente compiere: ad esempio, l'assunzione di cognati, figli e cugini di politici.
Non resteranno che "Atti relativi", altrimenti: dove il termine "relativi" mostrerà soltanto l'insufficienza degli atti medesimi.

martedì 3 giugno 2008

TERREMOTO RIFIUTI

In Campania c'è stato il terremoto rifiuti. E' ancora in corso, a dire il vero.
In Sicilia, in vitro, stiamo forse assistendo allo stesso fenomeno.
Le avvisaglie, le prime scosse, sono di questi mesi, e di questi giorni.
La chiusura temporanea di Bellolampo, da parte di un pm, per fatti amministrativi (anch'essi rivelatori: ritardi, proroghe) e l'annuncio della prossima chiusura definitiva, comunque, per via dell'inevitabile riempimento dell'ultima vasca disponibile.
I rifiuti accumulati sulle strade di Messina, per via di un vortice di stipendi non pagati, scioperi, cassonetti bruciati e inchieste della magistratura.
I rifiuti di Enna, anche qui, per via di stipendi non pagati et cetera. Qui, però, ad Enna, mancano i soldi. Le tasse sui rifiuti le pagano solo 3 cittadini su 10. Troppo care, visto che, con il nuovo tariffario, sono aumentate del 300 per cento.
Tornando a Palermo, ci sarebbe da dire dell'Amia, dei lavoratori che si apprestano ad uno sciopero dello straordinario, e in provincia, del Coinres, già al centro di uno scandalo per un'infornata di assunzioni, delle proteste dei lavoratori vecchi e nuovi.
Insomma, il sistema sta esplodendo.
Brutto affare.
Di chi è la colpa?
Qualcuno dice che sia degli Ato Rifiuti. Inefficienti e costosi? Tocca alla Regione accertarlo. E in fretta. E già che ci siamo, Palazzo d'Orleans potrebbe dare uno sguardo anche agli Ato Idrici.

sabato 24 maggio 2008

GESTI SARKOZISTI

Al programma elettorale di Raffaele Lombardo hanno lavorato sindacalisti, imprenditori e docenti universitari.
Ci sono delle novità, in quelle pagine. Dal punto di vista ambientale, anzitutto, e dell'approccio alle questioni dell'energia e dello sviluppo.
La scelta di nominare Massimo Russo alla Sanità, inoltre, può costituire un ulteriore segno di novità rispetto al passato. Un magistrato, e non dei più docili, alla guida dell'assessorato più delicato: per gli interessi in gioco, per l'enormità del deficit da ridurre, per l'efficienza da restituire al sistema.
C'è chi parla di scelta sarkozista. In piccolo. Di un laboratorio siciliano. E' presto per dirlo. Ed è prestissimo per anticipare giudizi. Vedremo quante altre intelligenze saranno coinvolte, nell'opera promessa di ricostruzione: con quale spirito, e con quali obiettivi.
Un paio di cose, però, possono esser già dette.
Lombardo, anzitutto, è stato eletto con un consenso pari quasi al 70% dei voti: il più alto mai registrato finora, probabilmente, nelle passate elezioni regionali svoltesi nel nostro Paese, con il sistema dell'elezione diretta. E questo dà all'inquilino di palazzo d'Orleans un potere d'investimento politico enorme.
In secondo luogo, il recupero del modello politico autonomistico consente un superamento delle culture politiche tradizionali, peraltro già in crisi da tempo, e una straordinaria capacità d'attrazione.
E' un capitale, questo, da amministrarsi con cura e con coraggio.
Nessuna illusione, ovviamente. Non ci vorrà molto per scoprire se questi talenti sono stati spesi bene, nell'interesse della Sicilia: per porre rimedio alle arretratezze, alle devastazioni. E naturalmente, contro la mafia.

GUAI A PARLAR BENE

Una volta si diceva: non parlar mai male di nessuno.
Ora, coi tempi che corrono, si rischia di più a parlar bene di chicchessia: un giorno, è un santo; l'indomani, scopri che trattavasi di Belzebù.
Accade coi medici, coi magistrati, coi giornalisti.
La qualifica non salva.
E' il razzolare, il problema.
A predicare, siamo quasi tutti buoni.

mercoledì 7 maggio 2008

QUANDO MARCELLETTI INVOCAVA IL CAMBIAMENTO

Per chi ha buona memoria. E per chi dimentica. Due prese di posizione di Carlo Marcelletti, il cardio chirurgo infantile arrestato per concussione, peculato e truffa. Sul Corriere della Sera e su Repubblica. Entrambe risalgono allo scorso anno. Il 2007. Buona lettura.

Corriere della Sera.

Sicilia, il chirurgo Marcelletti da Cuffaro a Veltroni

DAL NOSTRO INVIATO PALERMO - Molti fremono per la nascita del Pd. Perché la creatura potrebbe presentare qualche affanno già ai primi vagiti. Ma c' è un medico di fama, un cardiochirurgo pediatrico come Carlo Marcelletti, pronto a dare una mano in sala parto per aiutare il leader che più gli piace, Walter Veltroni. E qualcuno forse si sorprenderà di ritrovarlo nella lista dei 33 componenti del coordinamento siciliano pro Walter visto che, con sfortunate e brevi incursioni in politica, oltre al camice bianco del suo ospedale palermitano, Marcelletti ha indossato quattro casacche. Passando dall' «illusione» di Forza Italia con Gianfranco Micciché alle «promesse senza seguito» di Totò Cuffaro, dalla «ribellione» di Francesco Musotto contro gli azzurri a quello che definì il «finto autonomismo» di Raffaele Lombardo. Deluso, ma tenace, deciso a spendersi per «denunciare gli intrecci fra sanità e mafia, politica e malaffare», lo specialista zompato su tutte le tv del mondo ai tempi degli interventi sulle gemelline siamesi spera adesso nel successo di Veltroni e azzarda la diagnosi sul nascituro: «La creatura non sembra venir fuori robusta. Perché ha da fare i conti con tutte le tensioni correntizie che ci sono». Come proteggerla? Propone incubatrice e terapia intensiva? Si limita a un consiglio: «Tocca a Veltroni non cedere agli apparati. Se vuole fare una cosa buona per questo Paese non può riciclare l' 80% di quelli che hanno già avuto un ruolo. Occorrono facce nuove». Lo ha detto anche a Veltroni, dopo i contatti stabiliti attraverso uno dei candidati alla guida del Pd in Sicilia, Giuseppe Lumia, vice presidente dell' Antimafia. Una telefonata del sindaco di Roma che ringraziava, come riferisce Marcelletti: «Mi ha parlato di meritocrazia e ammodernamento del mercato, le cose che volevo sentirgli dire. Mi sono sembrate simili a quelle di Montezemolo. Quel che cattura è il Veltroni progressista, kennediano, non massimalista. I suoi discorsi non appartengono né alla destra né alla sinistra. Vi si ritrovano ideali fortemente ispirati anche da Montezemolo e non solo...». Lo dice mentre le sue mani preziose sfiorano i testi di Ichino, Giavazzi e Alesina, confusi fra quelli di patologia.

Repubblica. Edizione di Palermo.

Intervento di Carlo Marcelletti.

C’è del buono nel Regno di Sicilia. E chissà che non spazzi via il marcio. Proprio così. È entusiasmante la campagna elettorale che si profila per le prossime elezioni regionali. Addirittura travolgente, poi, potrebbe essere il dopo 13 e 14 aprile, quando si tratterà davvero di voltare pagina e di chiudere con il «cuffarismo», un «sistema» che ha allargato le distanze dell’isola dal resto del Paese tanto sul piano economico quanto, soprattutto, sul versante morale. È bello osservare che la Sicilia torna a essere quel laboratorio politico che è sempre stata. In cui il confronto avviene sulle idee, sui programmi, sulla voglia di cambiamento e non sulle logiche di schieramento, di appartenenza e, in definitiva, di puro potere.Chiaro, è un segnale importantissimo quello lanciato dal Partito democratico, che ha scelto un candidato forte. Chi meglio di Anna Finocchiaro, ex capogruppo del Pd al Senato, che di questa terra è figlia e profonda conoscitrice? Sono stato tra i primi a credere nell’importanza della nascita, in Italia, di una forza progressista moderna, pragmatica, senza lacci e laccioli ideologici, capace di rinnovare l’Italia adottando come criterio principale la valorizzazione del merito degli individui. Non ho avuto difficoltà, malgrado mi pesassero addosso le «sbandate» del passato per Raffaele Lombardo e per lo stesso Salvatore Cuffaro, ad aderire al Comitato pro-Veltroni, a poche ore dalla sua istituzione qui a Palermo. Bene, se Veltroni voleva dimostrare che il nuovo avanza realmente e che il cambiamento è possibile anche in Sicilia, con Anna Finocchiaro ha scelto la persona giusta. Tutti i siciliani liberi, davvero in buona fede, lo riconosceranno. Non solo quelli di sinistra.Ma attenzione, le carte si sono rimescolate anche nel centrodestra. Ed è stato quasi un terremoto. Temo che Gianfranco Miccichè avrà i suoi problemi a fare digerire la candidatura a Silvio Berlusconi e ai vertici del Partito della Libertà. Ma la sua «Rivoluzione siciliana» appare esattamente come una piccola, grande rivoluzione. Destinata a rompere gli schemi consolidati a destra e a porsi come una novità con la quale pure Anna Finocchiaro e il Pd dovranno fare i conti. C’è una sintesi fulminante nelle dichiarazioni programmatiche di Miccichè. Che cos’è il «cuffarismo»? «Un sistema clientelare che ha bloccato la Regione, che ha trasformato il lavoro da diritto a favore, che fa fuggire le imprese del Nord stanche di dovere passare sotto le grinfie della politica».So perfettamente che Pinocchio in confronto ai politici nostrani è un dilettante. Ma fino a prova contraria sarebbe importante dare credito a Miccichè. Anzi, prenderlo alla lettera e verificare se alle parole vuole aggiungere i fatti. Per questo non sono d’accordo con Anna Finocchiaro quando lo accomuna a Lombardo e conclude, tranciante, che nemmeno lui può diventare un interlocutore credibile. Per carità, in campagna elettorale è giusto che ognuno faccia la propria corsa. Né io caldeggio «inciuci» o grandi coalizioni che dir si voglia. Il mio sogno è un altro. Perché non provare a vedere se con Miccichè, indipendentemente dai risultati delle elezioni di aprile, fosse possibile stendere una sorta di Carta per la rinascita della Sicilia? Un accordo di metodo, le classiche regole del gioco da stabilire insieme, in perfetto stile bipartisan, su dieci punti chiave: legalità, meritocrazia nelle nomine pubbliche, sicurezza dei cittadini, trasparenza negli appalti e nei finanziamenti, snellimento degli apparati e della burocrazia, rilancio economico, lavoro e precariato, investimenti in alta tecnologia, freno alla fuga dei cervelli. E, naturalmente, riordino della Sanità, per abbattere gli sprechi e puntare al raggiungimento di standard di eccellenza.Meglio che Miccichè ci rifletta sopra, perché su questi nodi dovrà misurarsi. E tutti potranno scoprire se effettivamente, come sostiene, a muoverlo è unicamente l’amore per la Sicilia. Ma per quanto non ne abbia alcun titolo, mi sento allo stesso tempo di rivolgere un invito ad Anna Finocchiaro affinché verifichi la disponibilità dell’avversario quanto meno alla nascita di un clima di confronto. L’unico clima dentro al quale è possibile produrre un vero cambiamento. Lo chiede la Sicilia. E questa terra è la nostra terra.

lunedì 5 maggio 2008

SMETTERLA PURE CON LE AUTO

Da fumatore, ero d'accordo con il Ministro della Salute Sirchia: stop alle sigarette al chiuso.
Da automobilisti, con SUV, sono d'accordo con il Sindaco di Palermo, Cammarata, sulle restrizioni al traffico in città.
Il fatto è che dopo qualche tempo con le sigarette ho smesso.
La vedo dura, invece, per le auto.
Avete mai provato ad andare in bicicletta, a Palermo?

giovedì 24 aprile 2008

UNDICI VARIAZIONI

La scrittura piena di svolazzi e la firma, con quella Effe svettante verso Occidente, erano senz'altro di don Felipe, che conoscevo da lunghi anni. Il mio nome, abbellito da alcuni recentissimi titoli, al suo confronto appariva miserabile.
Nella sua lettera, mi lusingava con il ricordo miracolosamente dettagliato di un'udienza reale alla quale avevo preso parte, alcuni anni prima.
Il Protocollo aveva previsto che io e gli altri magistrati della Real Corte di Giustizia ci schierassimo, coi nostri pastrani, dinanzi alla statua che nel Palazzo Normanno raffigurava un uomo alquanto pensieroso; e che attendessimo lì il passaggio della Famiglia Reale, Dio Guardi.
Dopo quel far velo al pensieroso sconosciuto, compito dei giudici era di condursi rapidamente e in tutta dignità fino alla Sala del Trono – nel tredicesimo ordine, dietro la Nobiltà di sangue, l'Alto Clero, i Generali di tutte le Armi e la Nobiltà terriera, e prima dei Capitani del Regno – per rendere omaggio ai Sovrani, Dio li Conservi.

Vi chiedo dunque – diceva don Felipe, Duca de Valencia y Cordoba – di porvi alle mie dirette dipendenze, per il tempo che vi occorrerà, ospite presso il mio Palazzo, a Palermo, e di arricchire la mia Biblioteca con un saggio del vostro preziosissimo pensiero.
In considerazione della Vostra benemerita esperienza, in seno alle Corti della Corona di Spagna, Dio La Protegga, desidero che voi componiate una mirabilissima opera d'invenzione su quella perigliosa arte del navigare tra le ragioni del Bene e del Male: nel giudicare colpevoli e innocenti per l’esclusivo abbisogno del Regno.
Arte, la Vostra, del Giudicare, che il nostro popolo, sempre in procinto d'affogare nel mare delle rivoluzioni, induce all'obbedienza.
Auspico che quest'opera sia l'esca d'accensione delle nostre facoltà intellettive, sopite dal silenzio.

Era una sorta di gioco, per don Felipe.
Dietro quel linguaggio ampolloso, quelle formule così vaghe, si nascondeva un losco disegno: attrarre uno stimato magistrato a riposo, e farne un Eretico Civile, al riparo delle mura del proprio Palazzo.
Avrei formulato, in apparente libertà, la più severa delle accuse contro la Spagna e le sue Leggi: dicendo dei processi, delle pene, dell'arbitrio, delle carceri.
Nel segreto, avrei vergato una Teoria del Bene e del Male.
Sarebbe rimasta nelle sue mani, ed io, se pure fossi uscito da quel Palazzo, non avrei più vissuto un giorno senza chiedermi se i gendarmi, per strada, non stessero cercando me; se il Capitano mio genero, che con mia figlia aveva preso possesso di un piano del nostro modesto Palazzo, parte di un’eredità ricevuta da mia moglie, non avrebbe cancellato nel sangue la vergogna di un mio arresto per alto tradimento.
Ebbi per un attimo la tentazione di sfuggire a quell’invito. Mi dissi, però, che non avrei potuto sottrarmi. Don Felipe era tra i primi Famigli della Santa Inquisizione di Spagna.
Scrissi dunque la mia risposta, e la consegnai al Valletto più giovane affinché di corsa la recapitasse al Palazzo del Duca.
Salutai mia moglie e i miei famigliari come se non dovessi più rivederli, e nel congedarmi da essi, rivolsi partitamente alcune raccomandazioni.
La prima è che nessuna denuncia della mia scomparsa era da presentarsi, nel caso in cui non avessi più fatto ritorno.
Poi, dissi dell'uso del patrimonio, della salute e degli studi dei nipoti, il primo dei quali sarebbe nato entro poche settimane, da mia figlia Eleonora.
La carrozza era pronta. I bagagli erano stati preparati e caricati in pochi minuti.
Guardai le vie di Palermo e mi sorpresi ad osservare i volti dei mendicanti. Loro erano liberi. Il Cassaro era illuminato da un sole ardente come il volto del Diavolo.
Fui ricevuto dal Segretario del Duca, un giovanissimo sacerdote portoghese, di bell'aspetto, devotissimo al Sacramento e ancor di più, si diceva, al suo padrone.
Padre Alfonso mi condusse fino alla scala di marmi rossi e verdi, e sollevando appena la sua tonaca, mi fece segno di precederlo.
Spolverai la mia giubba, impolverata dal vento libico di giugno, e varcai la porta che conduceva allo studio privato del Duca.
La grande sala era deserta. La porta si richiuse alle mie spalle.
Gli affreschi, sulle altissime volte, raffiguravano le dispute olimpiche, ed i volti maschili erano indiscutibilmente quelli di Dionisos e Apollo, benché una mano pietosa avesse pennellato i nomi di Pietro e Paolo, coprendo di un velo nero e avorio piedi e zoccoli degli Dei.
Sull'imponente scrittoio di quercia, vi erano dei preziosi volumi rilegati in pelle. Ne scorsi un paio. Origene e Tertulliano. Feci appena in tempo a riporli, che alle mie spalle udii la voce tonante del Duca.

– Dovreste leggerne, don Alejandro. Dobbiamo protegger le nostre anime, esposte ai pericoli dell'eresia e del giudaismo.
– Stavo ammirando i vostri libri, e questa biblioteca, così...
– Così insultante, per la Fede. E così bella, come immagino foste per dire.
– Il Maligno usa le armi della Seduzione.
– E del Pensiero. Per questo, l'Indice abbisogna del suo contrario. E' bene che si scrivano dei libri proibiti, e che alcuni di noi possano leggerli.
– Posso parlare liberamente?
– Vi ho chiamato per scrivere liberamente. Dunque, potete anche parlare.
– Come mai mi avete chiesto di venir qui?
– Ora che siete a riposo, che avete abbandonato la bilancia e le altre insegne della magistratura, credo che possiate rispondere ad un quesito, al quale io non posso e non debbo rispondere.
– Ditemi.
– Io ho ucciso mia moglie. Sono colpevole per questo?
– Lo siete agli occhi di Dio. – Ora, la mia paura si era fatta solida, come di pietra, dinanzi ad un'eventualità che non potevo figurarmi. Pensavo di dover far filosofia, ed ero chiamato, invece, a far sofismi da avvocato.
– A quella giustizia so già che non potrò sottrarmi. Ma sono un famiglio dell'Inquisizione, e non posso essere arrestato, processato, condannato e incarcerato al pari di un suddito qualsiasi.
– Salvo che il Re non lo disponga. Vostra moglie era una sua cugina.
– Voi reagite troppo freddamente alle mie parole. Poco importa. Voglio che voi scriviate per me un breve trattato, per la mia lettura. Non provate a fornirmi gli strumenti perché altri sia accusato della morte di mia moglie. Desidero undici motivi per non considerarmi colpevole: pur se i giudici sapranno che sono stato io, in effetti, ad averla colpita. I motivi, undici come gli anni del mio matrimonio, riguarderanno me, la mia posizione, gli interessi della Giustizia, della Spagna, della Corona.
– So cosa intendete.
– Mettetevi al lavoro. Occuperete gli appartamenti che furono di Caravaggio. – E mi congedò.

Si diceva che quegli affreschi, che io vedevo per la prima volta, si dovessero alle mani di Caravaggio, che li avrebbe dipinti durante il suo esilio siciliano.

Due servi, di robusta complessione, mi accompagnarono.
Le stanze erano tre, sul margine orientale del Palazzo, affacciate sull'antico mercato della Vucciria. Stanze spoglie, le pareti tinteggiate: di azzurro, la prima, con un salotto ed un tavolo; verde, la seconda, uno spogliatoio; rosso sangue la terza, con un letto a baldacchino.
I miei vestiti erano già stati riposti. La cena era servita. Avrei vissuto in quelle stanze, a quanto pareva.
Da solo.
La famiglia era a lutto.

Non toccai cibo.
Scrissi invece un rapido brogliaccio, attingendo alla casistica dei miei processi.
Le circostanze di quell'omicidio mi erano oscure. Doveva trattarsi di un atto d'impeto. Il Duca era facile all'ira.
Undici motivi.

La Duchessa era gravemente inferma, a causa di un male oscuro che di notte la induceva a lamentazioni e sanguinamenti. Il duca aveva pietosamente posto fine a quelle sofferenze.
La Duchessa si era segretamente convertita al giudaismo, e in un'occasione, era stata vista bere del sangue, probabilmente di un bambino di religione cristiana. Il Duca, sconvolto da quell'orrore, l'aveva uccisa.
La Duchessa aveva alzato la mano contro il marito, e armata di un coltello, aveva tentato di assassinarlo. Il Duca s’era difeso.
La Duchessa era posseduta dal diavolo, e l'azione violenta del Duca era stata ispirata dalla carità divina.
La Duchessa era dominata dalla tentazione carnale, ed era stata sorpresa in compagnia di uno stalliere. Il Duca aveva il diritto di vendicarsi dell'onta subita.
La Duchessa aveva tentato d'appiccare il fuoco alla biblioteca del marito, gelosa dei libri con i quali egli soleva trascorrere la parte maggiore del suo tempo. Il Duca l’aveva colpita per impedire la distruzione dell’intero Palazzo.
La Corte palermitana era incompetente a giudicare sull'assassinio di un membro della Famiglia Reale, Dio Guardi.
Il Duca aveva agito in una condizione di ristretto raziocinio per la malattia che l'affligge, un rigonfio maligno del fegato, e che potrebbe condurlo presto alla morte.
Il Duca può esser talvolta accecato da improvvisi accessi di follia, e pertanto non è responsabile delle sue azioni.
La Duchessa aveva chiesto al marito di ucciderla, e di porre così termine alla sua vita, così difficile, e inutile, per l'assenza di figli.
La Duchessa è stata effettivamente colpita dal marito, ma è sopravvissuta, e dopo la guarigione, ha preferito partire per la Spagna.

Passai i due giorni successivi a dar corpo a quelle ipotesi. Citai a memoria passi interi di alcune mie vecchie sentenze, e trascrissi in latino i miei appunti, in bella copia, sulla carta pergamena che Don Felipe mi aveva fatto trovare sul tavolo.
Chiesi ad un servo di comunicare al Duca che il mio lavoro era da considerarsi concluso.
Fui nuovamente convocato al suo cospetto. Lo attesi nella Biblioteca di Caravaggio. Lo scrittoio era sgombro.
Dopo qualche minuto, la porta alle mie spalle, si aperse, e quel che vidi, mi paralizzò.

– Spero che sia riuscito nel suo intento.
– Ho solo osservato le indicazioni.
– Sapevo che l'avrebbe fatto. Posso avere il vostro manoscritto? Sono certa che troverò le prove di tutti i vostri crimini.

Lesse con attenzione, e approvò. Mise il manoscritto sul piano intagliato, e fece un cenno. I servi, alti e robusti come soldati, mi si fecero accanto, e mi afferrarono le braccia.

– Siete in arresto, giudice – disse Padre Alfonso.
– Non comprendo, Duchessa. Dovevate esser morta. E poi, perché questi uomini mi arrestano?
– Con il loro aiuto, ho persuaso mio marito a convocarvi, e a chiedervi, per la seconda volta, di elaborare una strategia per la sua assoluzione dalla colpa di omicidio. Il mio omicidio, stavolta. Una strategia che si componesse di undici diverse ipotesi d’innocenza: tante quanti gli anni trascorsi dal nostro matrimonio, e dall'assassinio di mio fratello Juan, che investigò sulle origini della ricchezza del mio pretendente, il Duca de Valencia y Cordoba. Don Felipe era caduto in disgrazia, in Patria. A Palermo, invece, era divenuto ricchissimo: con la Santa Inquisizione, denunciando falsi eretici e appropriandosi dei loro beni.
– Non sapevo nulla.
– Voi non dovevate sapere. Non rientrava nei vostri compiti, sapere. E poi, siete stato pagato perché nessuno sapesse. Io ho fatto solo da poco tempo la stessa scoperta che undici anni fa aveva fatto mio fratello: pagandola con la vita.
– Qual è la mia colpa?
– Siete ostinato, don Alejandro. Dovreste arrendervi all’evidenza. So tutto del vostro commercio di sentenze. Voi avete assolto l’assassino di mio fratello: un domenicano, che aveva dichiarato d'avere agito dopo aver visto Juan bere del sangue, quello di un bimbo, un cristiano. Il frate era stato pagato dal Duca, mio futuro marito.
– Io non sono stato corrotto da alcuno.
– Verissimo. Il vostro compenso lo ricevette vostra moglie, in forma di eredità. Ma la famiglia che le donò un palazzo e delle terre, era morta nelle carceri del Sant'Uffizio, dove il Duca, spietatamente, l'aveva fatta rinchiudere.
– Voi mostrate di sapere molte cose.
– Le so, don Alejandro, ed è tutto merito di Padre Alfonso. O meglio, di don Alfonso Alenteja, della Gendarmeria Reale. E' il più grande cercatore di criminali della Spagna. Mio cugino, il Re, ha voluto prestarmelo. Ha dovuto fingere un accento portoghese per non sollevare sospetti. Mio marito si fidava ciecamente di lui. E voi. Siete riuscito ad assolvere tutti gli assassini che erano in grado di pagarvi.
– Vostro marito?
– Due giorni fa, dopo aver parlato con voi, è stato imbarcato su un Postale. Tra qualche giorno, sarà accolto a Madrid e alloggiato in una fortezza. In attesa del boia.

Sono finito anch'io in una fortezza, e messo ai ceppi.
Al processo, celebrato a Madrid, l'accusa ha mostrato le mie sentenze, falsificate ad arte, e le motivazioni, riportate nelle undici variazioni riportate sulla carta pergamena del Duca, hanno convinto la Corte della mia colpevolezza.
Sono stato condannato a morte, per aver venduto la Giustizia di Spagna.
Ho scritto la mia Teoria del Male, e del Bene, e contrariamente a quel che pensavo, l'hanno letta in tanti.

martedì 22 aprile 2008

L'EMERGENZA INSICUREZZA

Ancora per qualche giorno, l'emergenza sicurezza sarà a parole in cima all'agenda politica dei nostri rappresentanti in Parlamento.
Ieri sera, a Porta a Porta, Di Pietro ha detto che agli imputati di certi reati occorrerebbe vietare il Gratuito Patrocinio. Pensavo d'aver sentito male, o d'aver capito peggio. No. L'ex pm, leader dell'Italia dei Valori, lo ha ripetuto. Eppure. Il rischio che si rinvii a giudizio un innocente è elevato. E pure un colpevole confesso di omicidio ha diritto ad un processo che con equità distingua tra occasionalità non ricercata e sistematica spietatezza. A riportare su un terreno "occidentale" il dibattito, è stato Castelli, della Lega.
Simili rovesciamenti servono. La resa dei conti con certi pregiudizi è già iniziata. Però. Mi chiedo. Quanto tempo occorrerà per giungere ad una riforma della Giustizia che restituisca a ciascuno il timore dello Stato?
Il rischio che certi reati si ripetano è una delle condizioni per l'applicazione della custodia cautelare. Ciò che potrebbe soccorrere alla durata del processo, se fosse ragionevole.
Il tema, allora, è far sì che vadano a processo le sole inchieste capaci di passare un vaglio di fondatezza, e che questo vaglio, a maggior ragione, vi sia tra il primo e il secondo grado.
Ciò però imporrebbe una qualche modifica al concetto di obbligatorietà dell'azione penale, e una qualche variazione dell'ordinamento giudiziario.
Da noi, come sempre, l'emergenza vera è l'insicurezza: dinanzi ad un problema vero, non sappiamo - quasi mai - come comportarci.

domenica 20 aprile 2008

INTELLETTUALI E POLITICA

Nel suo editoriale di oggi, Paolo Mieli analizza con proprietà e concretezza le cause della vittoria dell'alleanza tra Pdl e autonomisti, della sconfitta dell'alleanza tra Pd e Italia dei Valori, dell'esclusione dal Parlamento dei partiti della Sinistra Arcobaleno.
Nelle pagine interne, alle quali è rinviata la seconda parte del suo editoriale, Mieli scrive: "I limiti per Veltroni sono stati tre: quello di non avere una solida base culturale di riferimento (alla sinistra manca un Tremonti, cioè un politico di primo piano che produca analisi innovative in sintonia con quello che si dibatte nel resto del Pianeta); quello di aver prodotto un eccesso di ammiccamenti a culture ed esperienze internazionali di complesso amalgama; quello ormai consolidato (nel senso che lo ha ereditato dai suoi predecessori) di non aver capito che il Nord merita un'attenzione strutturalmente diversa".
Qualche considerazione, al riguardo.
L'editoriale di Mieli, anzitutto, è un editoriale politico. Nel senso che ha un'intenzione sommamente politica, e non punta, non solo, ad una mera analisi dei fatti secondo le categorie del Politico.
Il direttore del Corriere vuol spingere il PD ad una presa d'atto delle mutate condizioni del nostro Paese. Dal punto di vista economico e sociale.
Mieli, però, trasferisce dalla prima pagina alla trentesima (nella parte interna dell'editoriale) la riflessione che dovrebbe apparire centrale, nel suo quasi del tutto condivisibile ragionamento.
Il PD - sostiene Mieli, che è giornalista e storico di vaglia - non ha una solida base culturale di riferimento.
Il PD, tuttavia, è l'erede di almeno tre tradizioni politiche e culturali.
Quella comunista. Quella democristiana. Quella laica progressista (almeno in parte).
La prima di esse ha di fatto dominato la Cultura italiana per oltre mezzo secolo, dopo la seconda guerra mondiale, avendo di fatto rappresentato la prima delle opposizioni al Fascismo, durante il ventennio che precedette il conflitto.
Al di fuori di quell'Universo, un intellettuale non poteva dirsi tale: per la sua distanza dalle masse, per la sua non adesione allo schema gramsciano. Le conseguenze di questo stato di cose potevano esser misurate nell'insegnamento, nel giornalismo, nella letteratura, nelle arti.
Potremmo dire anche del contributo del cattolicesimo politico al nostro Paese, e di quello di parte laica.
Quasi a metà degli anni Novanta, l'avvento di un'alleanza autodefinitasi di Centro Destra violò due tabù.
Destra era parola impronunciabile: nell'accezione italiana, era sinonimo di Fascismo, Golpe, Repressione, Arretratezza.
Con il Centro Destra, si schierarono numerosi "intellettuali": Colletti, Ferrara, Melograni, Urbani (solo per citarne alcuni, tra i più celebri).
Oggi, rispetto ad allora, la situazione sembra affatto rovesciata.
Ed è da questo punto che bisogna ripartire: dalla centralità della questione culturale. La sinistra non ha più intellettuali in grado di decodificare la realtà e indicare punti d'approdo, nuovi territori. E ciò non vale solo con riferimento all'interpretazione dei segnali del popolo delle partite iva del Nord.
Non è un Tradimento dei Chierici.
E' il mondo che sta cambiando. Il mondo intero.
Siamo certi che nel Centro Destra non se ne siano accorti?