giovedì 24 aprile 2008

UNDICI VARIAZIONI

La scrittura piena di svolazzi e la firma, con quella Effe svettante verso Occidente, erano senz'altro di don Felipe, che conoscevo da lunghi anni. Il mio nome, abbellito da alcuni recentissimi titoli, al suo confronto appariva miserabile.
Nella sua lettera, mi lusingava con il ricordo miracolosamente dettagliato di un'udienza reale alla quale avevo preso parte, alcuni anni prima.
Il Protocollo aveva previsto che io e gli altri magistrati della Real Corte di Giustizia ci schierassimo, coi nostri pastrani, dinanzi alla statua che nel Palazzo Normanno raffigurava un uomo alquanto pensieroso; e che attendessimo lì il passaggio della Famiglia Reale, Dio Guardi.
Dopo quel far velo al pensieroso sconosciuto, compito dei giudici era di condursi rapidamente e in tutta dignità fino alla Sala del Trono – nel tredicesimo ordine, dietro la Nobiltà di sangue, l'Alto Clero, i Generali di tutte le Armi e la Nobiltà terriera, e prima dei Capitani del Regno – per rendere omaggio ai Sovrani, Dio li Conservi.

Vi chiedo dunque – diceva don Felipe, Duca de Valencia y Cordoba – di porvi alle mie dirette dipendenze, per il tempo che vi occorrerà, ospite presso il mio Palazzo, a Palermo, e di arricchire la mia Biblioteca con un saggio del vostro preziosissimo pensiero.
In considerazione della Vostra benemerita esperienza, in seno alle Corti della Corona di Spagna, Dio La Protegga, desidero che voi componiate una mirabilissima opera d'invenzione su quella perigliosa arte del navigare tra le ragioni del Bene e del Male: nel giudicare colpevoli e innocenti per l’esclusivo abbisogno del Regno.
Arte, la Vostra, del Giudicare, che il nostro popolo, sempre in procinto d'affogare nel mare delle rivoluzioni, induce all'obbedienza.
Auspico che quest'opera sia l'esca d'accensione delle nostre facoltà intellettive, sopite dal silenzio.

Era una sorta di gioco, per don Felipe.
Dietro quel linguaggio ampolloso, quelle formule così vaghe, si nascondeva un losco disegno: attrarre uno stimato magistrato a riposo, e farne un Eretico Civile, al riparo delle mura del proprio Palazzo.
Avrei formulato, in apparente libertà, la più severa delle accuse contro la Spagna e le sue Leggi: dicendo dei processi, delle pene, dell'arbitrio, delle carceri.
Nel segreto, avrei vergato una Teoria del Bene e del Male.
Sarebbe rimasta nelle sue mani, ed io, se pure fossi uscito da quel Palazzo, non avrei più vissuto un giorno senza chiedermi se i gendarmi, per strada, non stessero cercando me; se il Capitano mio genero, che con mia figlia aveva preso possesso di un piano del nostro modesto Palazzo, parte di un’eredità ricevuta da mia moglie, non avrebbe cancellato nel sangue la vergogna di un mio arresto per alto tradimento.
Ebbi per un attimo la tentazione di sfuggire a quell’invito. Mi dissi, però, che non avrei potuto sottrarmi. Don Felipe era tra i primi Famigli della Santa Inquisizione di Spagna.
Scrissi dunque la mia risposta, e la consegnai al Valletto più giovane affinché di corsa la recapitasse al Palazzo del Duca.
Salutai mia moglie e i miei famigliari come se non dovessi più rivederli, e nel congedarmi da essi, rivolsi partitamente alcune raccomandazioni.
La prima è che nessuna denuncia della mia scomparsa era da presentarsi, nel caso in cui non avessi più fatto ritorno.
Poi, dissi dell'uso del patrimonio, della salute e degli studi dei nipoti, il primo dei quali sarebbe nato entro poche settimane, da mia figlia Eleonora.
La carrozza era pronta. I bagagli erano stati preparati e caricati in pochi minuti.
Guardai le vie di Palermo e mi sorpresi ad osservare i volti dei mendicanti. Loro erano liberi. Il Cassaro era illuminato da un sole ardente come il volto del Diavolo.
Fui ricevuto dal Segretario del Duca, un giovanissimo sacerdote portoghese, di bell'aspetto, devotissimo al Sacramento e ancor di più, si diceva, al suo padrone.
Padre Alfonso mi condusse fino alla scala di marmi rossi e verdi, e sollevando appena la sua tonaca, mi fece segno di precederlo.
Spolverai la mia giubba, impolverata dal vento libico di giugno, e varcai la porta che conduceva allo studio privato del Duca.
La grande sala era deserta. La porta si richiuse alle mie spalle.
Gli affreschi, sulle altissime volte, raffiguravano le dispute olimpiche, ed i volti maschili erano indiscutibilmente quelli di Dionisos e Apollo, benché una mano pietosa avesse pennellato i nomi di Pietro e Paolo, coprendo di un velo nero e avorio piedi e zoccoli degli Dei.
Sull'imponente scrittoio di quercia, vi erano dei preziosi volumi rilegati in pelle. Ne scorsi un paio. Origene e Tertulliano. Feci appena in tempo a riporli, che alle mie spalle udii la voce tonante del Duca.

– Dovreste leggerne, don Alejandro. Dobbiamo protegger le nostre anime, esposte ai pericoli dell'eresia e del giudaismo.
– Stavo ammirando i vostri libri, e questa biblioteca, così...
– Così insultante, per la Fede. E così bella, come immagino foste per dire.
– Il Maligno usa le armi della Seduzione.
– E del Pensiero. Per questo, l'Indice abbisogna del suo contrario. E' bene che si scrivano dei libri proibiti, e che alcuni di noi possano leggerli.
– Posso parlare liberamente?
– Vi ho chiamato per scrivere liberamente. Dunque, potete anche parlare.
– Come mai mi avete chiesto di venir qui?
– Ora che siete a riposo, che avete abbandonato la bilancia e le altre insegne della magistratura, credo che possiate rispondere ad un quesito, al quale io non posso e non debbo rispondere.
– Ditemi.
– Io ho ucciso mia moglie. Sono colpevole per questo?
– Lo siete agli occhi di Dio. – Ora, la mia paura si era fatta solida, come di pietra, dinanzi ad un'eventualità che non potevo figurarmi. Pensavo di dover far filosofia, ed ero chiamato, invece, a far sofismi da avvocato.
– A quella giustizia so già che non potrò sottrarmi. Ma sono un famiglio dell'Inquisizione, e non posso essere arrestato, processato, condannato e incarcerato al pari di un suddito qualsiasi.
– Salvo che il Re non lo disponga. Vostra moglie era una sua cugina.
– Voi reagite troppo freddamente alle mie parole. Poco importa. Voglio che voi scriviate per me un breve trattato, per la mia lettura. Non provate a fornirmi gli strumenti perché altri sia accusato della morte di mia moglie. Desidero undici motivi per non considerarmi colpevole: pur se i giudici sapranno che sono stato io, in effetti, ad averla colpita. I motivi, undici come gli anni del mio matrimonio, riguarderanno me, la mia posizione, gli interessi della Giustizia, della Spagna, della Corona.
– So cosa intendete.
– Mettetevi al lavoro. Occuperete gli appartamenti che furono di Caravaggio. – E mi congedò.

Si diceva che quegli affreschi, che io vedevo per la prima volta, si dovessero alle mani di Caravaggio, che li avrebbe dipinti durante il suo esilio siciliano.

Due servi, di robusta complessione, mi accompagnarono.
Le stanze erano tre, sul margine orientale del Palazzo, affacciate sull'antico mercato della Vucciria. Stanze spoglie, le pareti tinteggiate: di azzurro, la prima, con un salotto ed un tavolo; verde, la seconda, uno spogliatoio; rosso sangue la terza, con un letto a baldacchino.
I miei vestiti erano già stati riposti. La cena era servita. Avrei vissuto in quelle stanze, a quanto pareva.
Da solo.
La famiglia era a lutto.

Non toccai cibo.
Scrissi invece un rapido brogliaccio, attingendo alla casistica dei miei processi.
Le circostanze di quell'omicidio mi erano oscure. Doveva trattarsi di un atto d'impeto. Il Duca era facile all'ira.
Undici motivi.

La Duchessa era gravemente inferma, a causa di un male oscuro che di notte la induceva a lamentazioni e sanguinamenti. Il duca aveva pietosamente posto fine a quelle sofferenze.
La Duchessa si era segretamente convertita al giudaismo, e in un'occasione, era stata vista bere del sangue, probabilmente di un bambino di religione cristiana. Il Duca, sconvolto da quell'orrore, l'aveva uccisa.
La Duchessa aveva alzato la mano contro il marito, e armata di un coltello, aveva tentato di assassinarlo. Il Duca s’era difeso.
La Duchessa era posseduta dal diavolo, e l'azione violenta del Duca era stata ispirata dalla carità divina.
La Duchessa era dominata dalla tentazione carnale, ed era stata sorpresa in compagnia di uno stalliere. Il Duca aveva il diritto di vendicarsi dell'onta subita.
La Duchessa aveva tentato d'appiccare il fuoco alla biblioteca del marito, gelosa dei libri con i quali egli soleva trascorrere la parte maggiore del suo tempo. Il Duca l’aveva colpita per impedire la distruzione dell’intero Palazzo.
La Corte palermitana era incompetente a giudicare sull'assassinio di un membro della Famiglia Reale, Dio Guardi.
Il Duca aveva agito in una condizione di ristretto raziocinio per la malattia che l'affligge, un rigonfio maligno del fegato, e che potrebbe condurlo presto alla morte.
Il Duca può esser talvolta accecato da improvvisi accessi di follia, e pertanto non è responsabile delle sue azioni.
La Duchessa aveva chiesto al marito di ucciderla, e di porre così termine alla sua vita, così difficile, e inutile, per l'assenza di figli.
La Duchessa è stata effettivamente colpita dal marito, ma è sopravvissuta, e dopo la guarigione, ha preferito partire per la Spagna.

Passai i due giorni successivi a dar corpo a quelle ipotesi. Citai a memoria passi interi di alcune mie vecchie sentenze, e trascrissi in latino i miei appunti, in bella copia, sulla carta pergamena che Don Felipe mi aveva fatto trovare sul tavolo.
Chiesi ad un servo di comunicare al Duca che il mio lavoro era da considerarsi concluso.
Fui nuovamente convocato al suo cospetto. Lo attesi nella Biblioteca di Caravaggio. Lo scrittoio era sgombro.
Dopo qualche minuto, la porta alle mie spalle, si aperse, e quel che vidi, mi paralizzò.

– Spero che sia riuscito nel suo intento.
– Ho solo osservato le indicazioni.
– Sapevo che l'avrebbe fatto. Posso avere il vostro manoscritto? Sono certa che troverò le prove di tutti i vostri crimini.

Lesse con attenzione, e approvò. Mise il manoscritto sul piano intagliato, e fece un cenno. I servi, alti e robusti come soldati, mi si fecero accanto, e mi afferrarono le braccia.

– Siete in arresto, giudice – disse Padre Alfonso.
– Non comprendo, Duchessa. Dovevate esser morta. E poi, perché questi uomini mi arrestano?
– Con il loro aiuto, ho persuaso mio marito a convocarvi, e a chiedervi, per la seconda volta, di elaborare una strategia per la sua assoluzione dalla colpa di omicidio. Il mio omicidio, stavolta. Una strategia che si componesse di undici diverse ipotesi d’innocenza: tante quanti gli anni trascorsi dal nostro matrimonio, e dall'assassinio di mio fratello Juan, che investigò sulle origini della ricchezza del mio pretendente, il Duca de Valencia y Cordoba. Don Felipe era caduto in disgrazia, in Patria. A Palermo, invece, era divenuto ricchissimo: con la Santa Inquisizione, denunciando falsi eretici e appropriandosi dei loro beni.
– Non sapevo nulla.
– Voi non dovevate sapere. Non rientrava nei vostri compiti, sapere. E poi, siete stato pagato perché nessuno sapesse. Io ho fatto solo da poco tempo la stessa scoperta che undici anni fa aveva fatto mio fratello: pagandola con la vita.
– Qual è la mia colpa?
– Siete ostinato, don Alejandro. Dovreste arrendervi all’evidenza. So tutto del vostro commercio di sentenze. Voi avete assolto l’assassino di mio fratello: un domenicano, che aveva dichiarato d'avere agito dopo aver visto Juan bere del sangue, quello di un bimbo, un cristiano. Il frate era stato pagato dal Duca, mio futuro marito.
– Io non sono stato corrotto da alcuno.
– Verissimo. Il vostro compenso lo ricevette vostra moglie, in forma di eredità. Ma la famiglia che le donò un palazzo e delle terre, era morta nelle carceri del Sant'Uffizio, dove il Duca, spietatamente, l'aveva fatta rinchiudere.
– Voi mostrate di sapere molte cose.
– Le so, don Alejandro, ed è tutto merito di Padre Alfonso. O meglio, di don Alfonso Alenteja, della Gendarmeria Reale. E' il più grande cercatore di criminali della Spagna. Mio cugino, il Re, ha voluto prestarmelo. Ha dovuto fingere un accento portoghese per non sollevare sospetti. Mio marito si fidava ciecamente di lui. E voi. Siete riuscito ad assolvere tutti gli assassini che erano in grado di pagarvi.
– Vostro marito?
– Due giorni fa, dopo aver parlato con voi, è stato imbarcato su un Postale. Tra qualche giorno, sarà accolto a Madrid e alloggiato in una fortezza. In attesa del boia.

Sono finito anch'io in una fortezza, e messo ai ceppi.
Al processo, celebrato a Madrid, l'accusa ha mostrato le mie sentenze, falsificate ad arte, e le motivazioni, riportate nelle undici variazioni riportate sulla carta pergamena del Duca, hanno convinto la Corte della mia colpevolezza.
Sono stato condannato a morte, per aver venduto la Giustizia di Spagna.
Ho scritto la mia Teoria del Male, e del Bene, e contrariamente a quel che pensavo, l'hanno letta in tanti.

martedì 22 aprile 2008

L'EMERGENZA INSICUREZZA

Ancora per qualche giorno, l'emergenza sicurezza sarà a parole in cima all'agenda politica dei nostri rappresentanti in Parlamento.
Ieri sera, a Porta a Porta, Di Pietro ha detto che agli imputati di certi reati occorrerebbe vietare il Gratuito Patrocinio. Pensavo d'aver sentito male, o d'aver capito peggio. No. L'ex pm, leader dell'Italia dei Valori, lo ha ripetuto. Eppure. Il rischio che si rinvii a giudizio un innocente è elevato. E pure un colpevole confesso di omicidio ha diritto ad un processo che con equità distingua tra occasionalità non ricercata e sistematica spietatezza. A riportare su un terreno "occidentale" il dibattito, è stato Castelli, della Lega.
Simili rovesciamenti servono. La resa dei conti con certi pregiudizi è già iniziata. Però. Mi chiedo. Quanto tempo occorrerà per giungere ad una riforma della Giustizia che restituisca a ciascuno il timore dello Stato?
Il rischio che certi reati si ripetano è una delle condizioni per l'applicazione della custodia cautelare. Ciò che potrebbe soccorrere alla durata del processo, se fosse ragionevole.
Il tema, allora, è far sì che vadano a processo le sole inchieste capaci di passare un vaglio di fondatezza, e che questo vaglio, a maggior ragione, vi sia tra il primo e il secondo grado.
Ciò però imporrebbe una qualche modifica al concetto di obbligatorietà dell'azione penale, e una qualche variazione dell'ordinamento giudiziario.
Da noi, come sempre, l'emergenza vera è l'insicurezza: dinanzi ad un problema vero, non sappiamo - quasi mai - come comportarci.

domenica 20 aprile 2008

INTELLETTUALI E POLITICA

Nel suo editoriale di oggi, Paolo Mieli analizza con proprietà e concretezza le cause della vittoria dell'alleanza tra Pdl e autonomisti, della sconfitta dell'alleanza tra Pd e Italia dei Valori, dell'esclusione dal Parlamento dei partiti della Sinistra Arcobaleno.
Nelle pagine interne, alle quali è rinviata la seconda parte del suo editoriale, Mieli scrive: "I limiti per Veltroni sono stati tre: quello di non avere una solida base culturale di riferimento (alla sinistra manca un Tremonti, cioè un politico di primo piano che produca analisi innovative in sintonia con quello che si dibatte nel resto del Pianeta); quello di aver prodotto un eccesso di ammiccamenti a culture ed esperienze internazionali di complesso amalgama; quello ormai consolidato (nel senso che lo ha ereditato dai suoi predecessori) di non aver capito che il Nord merita un'attenzione strutturalmente diversa".
Qualche considerazione, al riguardo.
L'editoriale di Mieli, anzitutto, è un editoriale politico. Nel senso che ha un'intenzione sommamente politica, e non punta, non solo, ad una mera analisi dei fatti secondo le categorie del Politico.
Il direttore del Corriere vuol spingere il PD ad una presa d'atto delle mutate condizioni del nostro Paese. Dal punto di vista economico e sociale.
Mieli, però, trasferisce dalla prima pagina alla trentesima (nella parte interna dell'editoriale) la riflessione che dovrebbe apparire centrale, nel suo quasi del tutto condivisibile ragionamento.
Il PD - sostiene Mieli, che è giornalista e storico di vaglia - non ha una solida base culturale di riferimento.
Il PD, tuttavia, è l'erede di almeno tre tradizioni politiche e culturali.
Quella comunista. Quella democristiana. Quella laica progressista (almeno in parte).
La prima di esse ha di fatto dominato la Cultura italiana per oltre mezzo secolo, dopo la seconda guerra mondiale, avendo di fatto rappresentato la prima delle opposizioni al Fascismo, durante il ventennio che precedette il conflitto.
Al di fuori di quell'Universo, un intellettuale non poteva dirsi tale: per la sua distanza dalle masse, per la sua non adesione allo schema gramsciano. Le conseguenze di questo stato di cose potevano esser misurate nell'insegnamento, nel giornalismo, nella letteratura, nelle arti.
Potremmo dire anche del contributo del cattolicesimo politico al nostro Paese, e di quello di parte laica.
Quasi a metà degli anni Novanta, l'avvento di un'alleanza autodefinitasi di Centro Destra violò due tabù.
Destra era parola impronunciabile: nell'accezione italiana, era sinonimo di Fascismo, Golpe, Repressione, Arretratezza.
Con il Centro Destra, si schierarono numerosi "intellettuali": Colletti, Ferrara, Melograni, Urbani (solo per citarne alcuni, tra i più celebri).
Oggi, rispetto ad allora, la situazione sembra affatto rovesciata.
Ed è da questo punto che bisogna ripartire: dalla centralità della questione culturale. La sinistra non ha più intellettuali in grado di decodificare la realtà e indicare punti d'approdo, nuovi territori. E ciò non vale solo con riferimento all'interpretazione dei segnali del popolo delle partite iva del Nord.
Non è un Tradimento dei Chierici.
E' il mondo che sta cambiando. Il mondo intero.
Siamo certi che nel Centro Destra non se ne siano accorti?

sabato 19 aprile 2008

TELEFONARE UCCIDE

Dieci al giorno. A volte, anche venti. Non riesco a farne a meno.
Se per caso non l'ho in tasca, mi sembra di impazzire.
Sono un addict anch'io, ma a volte entro in una stanza, mi guardo intorno e devo scappare: tutti quanti...
Presto, sarà riammesso sugli aereoplani.
Lo so bene che dovrei diminuire. O smettere.
I medici cominciano a parlarne. La dentista, quando le ho detto che avevo un po' di sensibilità a sinistra, un fastidio sordo, e persistente, mi ha chiesto se, per caso, non avessi un ponte metallico. Le ho detto di sì. Bé, capita, allora. Se ne fai uso regolarmente, capita.
Regolarmente?
Ora, mio figlio dice che anche lui vorrebbe. E io gli rispondo che fa male. E tu, allora? Dovrei smettere, rispondo. Tristemente. Come mi ripeto ad ogni mal di testa.
Di dati scientifici ce ne sono pochi. Diciamo che le case produttrici non incentivano le Università alla ricerca. E i governi, tutti quanti, non obbligano a scriverci sopra che fa male.
Isolati ricercatori azzardano che, tra qualche anno, il suo uso sarà forse la prima causa di morte. O la prima causa di cancro, che è poi la stessa cosa.
Dovrei spegnerlo e non riaccenderlo più.
Il telefonino.

giovedì 17 aprile 2008

GLI EFFETTI DEL VOTO

L'assenza della Sinistra Arcobaleno dal Parlamento produce già adesso i suoi primi effetti. Tra i militanti dei quattro partiti che avevano dato vita al raggruppamento, anzitutto. Sono effetti dolorosi, per il valore attribuito all'esercizio dell'attività politica. Per i valori messi in gioco. Per la funzione salvifica attribuita al partito.
Serviranno degli anni per riassorbire i conflitti che inevitabilmente si apriranno in quello schieramento, e per costruire un nuovo sistema di relazioni.
Occorre avere del rispetto per questo processo. Ed è stato un segno di raggiunta civiltà politica l'ascoltare le parole di attenzione che sono state pronunciate da numerosi esponenti degli altri schieramenti.
Ma ci saranno degli effetti anche su questi ultimi.
Per il PD, saranno effetti tendenzialmente inclusivi di porzioni della Sinistra Arcobaleno.
Nel Centro Destra attuale, una duplice probabile conseguenza: un atteggiamento di pacificazione, nei confronti della principale opposizione parlamentare (il PD), e di apertura alle istanze sociale dei ceti più deboli, che molti anni fa avevano un rapporto simbiotico con la sinistra radicale ed ora, sempre di più, si rivolgono alla Lega.
C'è un aspetto, infine, che occorrerà valutare meglio. Il mutamento del rapporto dei cittadini con la politica. Più individualistico, e più diffidente nei confronti del potere ordinativo delle istituzioni. Anche in questo, più anglosassone: vogliamo contare - sembra che dicano i cittadini elettori - sulla nostra libertà, e su uno Stato che la garantisca, e sia meno invadente. Vale per il Fisco, vale per lo Stato Sociale, per la Sicurezza e per l'Immigrazione.

mercoledì 16 aprile 2008

OLTRE IL NOVECENTO

Nel prossimo Parlamento nazionale, i soli eredi delle tradizioni politiche novecentesche saranno i rappresentanti dell'Udc, con poco più del 5 per cento dei voti, buona parte dei quali siciliani. Gli altri, comunisti e socialisti in primo luogo, resteranno fuori.
Il partito più vecchio sarà la Lega, che guarda al cuore tedesco d'Europa.
I due partito più nuovi traggono invece la loro prima ispirazione dalla tradizione politica anglosassone (nella variante d'oltre atlantico).
E' questa la Seconda Repubblica, sgusciata finalmente fuori da un uovo deposto sedici anni fa, al culmine della stagione conosciuta come Mani Pulite.
Ora, sarebbe un errore prendere atto della nuova situazione ed usare comunque i vecchi criteri d'analisi: la divisione in destra e sinistra, anzitutto.
Come hanno intuito alcuni commentatori che s'autodefiniscono di sinistra.
Non è un caso che Marco Revelli, studioso d'area della Sinistra Arcobaleno, individui nella strutturazione territoriale della Lega una possibile risposta alla crisi irreversibile del suo schieramento di riferimento (Revelli però si ferma lì, e non coglie l'elemento fondamentale del successo della Lega: i Lumbard rappresentano gli interessi popolari, siano essi il Fisco, il Welfare o la Sicurezza).
E nemmeno è un caso che il Movimento per l'Autonomia di Raffaele Lombardo, simmetrico corrispondente della Lega al Sud, abbia di fatto inaugurato la seconda e più importante fase della sua esistenza: aprendosi ad altre aree culturali, già nella fase di composizione delle liste, ed ora nel tentativo di dar vita ad una giunta regionale siciliana "nuova".
Il punto d'arrivo, per l'MPA, è un Partito del Sud. E già, tra gli scontenti del Partito Democratico, par di cogliere alcuni rilevanti segni d'interesse.
Se la Seconda Repubblica è cominciata, non tutto - del suo concretarsi - è ancora visibile. E la gestazione, ancora in corso, di PDL e PD, riserverà certamente delle sorprese. La prima delle quali potrebbe esser questa: ci saranno altre robuste formazioni politiche, nel complicato scacchiere italiano.

martedì 15 aprile 2008

X FACTOR E LE ELEZIONI

Ora che la Seconda Repubblica è fatta, con l'approdo alle sacre rive di Britannia e delle sue ex colonie (bipartitiche, obviously), non resta che occuparsi del corredo culturale di questa nuova Italia.
Ieri, ad X Factor, format dal titolo a prima vista incomprensibile (senonché, parrebbe trattarsi di quel Fattore X che qui da noi si tradurrebbe in Fattore C come il sinonimo di terga), si è esibito un concorrente, Emanuele. Suonava e cantava, in modo eccellente, e con qualche vezzo country, uno dei masterpieces degli U2, Sunday Bloody Sunday. Canzone simbolo della rivolta irlandese, e della feroce repressione inglese.
Una delle tre giurate, dal viso solitamente cattivo, ha abbozzato: "Bene bene". Simona "Simo" Ventura, che aveva mulinato le braccia come una sedicenne al suo terzo concerto, ha pronunciato una Lode senatoriale. Morgan, ex di Asia Argento, da Pirata par suo si è contraddetto: hai suonato da Dio, ma era una canzone da dilettanti. Sunday Bloody Sunday. Due giri di chitarra e stop.
Io, devo confessarlo, in quel frullatore di concetti, in quel vuoto pneumatico provocato dalla velocità della centrifuga, ho ripensato alla campagna elettorale che si era appena conclusa, e al posato periodare di uno dei candidati - assai professionale in verità, chiarezza ironia voce sguardo mani taglio d'abito gambe accavallate, con qualche vezzo country - e ho pensato che anche lui aveva suonato da Dio. Ma anche in questo caso, doveva trattarsi di una canzone da dilettanti.

sabato 12 aprile 2008

NEL CRETTO RIVIVE GIBELLINA

I vecchi passeggiano tra i vicoli del Grande Cretto e additano i luoghi della loro vita precedente, senza un filo di tristezza, sapendoli ben conservati, nella loro memoria, e sotto quella pietra dolce senza iscrizioni: la Chiesa, le case, e le putìe, i negozi, delimitati dal filo dei solchi.
Le vecchie foto in bianco e nero di Gibellina, conservate al Museo della Fondazione Orestiadi, raccontano di un paese abbarbicato al fianco scosceso di una collina esposta ai venti.
Le case, tutte affacciate sulla valle, dinanzi alla scena verde e gialla delle stagioni, erano più alte davanti, con un piano terreno per riparare gli animali e conservarne il calore, e più basse di dietro, con un solaio per dormire.
C'erano le fontane, e la piazza. Ovunque, le scale, ripide come sentieri di montagna, e ostinate, come l'erba che cresceva in ogni loro interstizio. Acchianate e scinnute si facevano a dorso di mulo, e più spesso a piedi.
Chiudi gli occhi, e al Cretto rivedi ogni cosa.
Le donne portavano il bummulo di terracotta pieno d'acqua sulla testa, avendo appreso il segreto dell'equilibrio.
Gli uomini trascorrevano le settimane in campagna: a badare alla terra, madre di frumento, e agli animali: pecore, per lo più. Il sabato, la pelle cotta dal sole, o ispessita dal freddo e dalla neve, i cristiani se ne tornavano in Paese, ed era grande festa, allora.
Chiudi gli occhi, e al Cretto rivedi ogni cosa.
Gibellina era lontana dal mondo. Il suo tempo era quello del Feudo, come le sue coltivazioni: feudali, estensive, sulla terra ancora risvegliata dall'aratro e assaggiata dall'uomo, che ne masticava per saperne di ferro, di sali e di argilla, e indovinarne il parto di spighe.
Terra assaggiata e masticata, e ingravidata dal sudore, ancora nel 1968, nonostante le lotte contadine degli anni Quaranta e Cinquanta; nonostante la morte dell'arciprete che aveva incrinato l'abside con le sue grida: niente mafia, e niente feudi!
Chiudi gli occhi, e al Cretto rivedi ogni cosa.
Nel pomeriggio del 14 gennaio, un pomeriggio di sabato e dunque di festa, la terra si mosse. Le case oscillarono, scosse da una forza sovrumana. La frustata precipitò fuori tutti quanti: le facce giarne, scantate.
Aveva nevicato, e faceva freddo, in quel presepe, tra i vicoli di Gibellina.
Puoi osservarli ancora, nel Grande Cretto, mentre si interrogano, muti, sul da farsi; mentre soffia un vento sordo, minaccioso.
Ci fu chi decise di non sfidare l'ira di Dio, e se ne restò fuori, tutta la notte, battendo i denti, stretto nelle coperte, e chi se ne tornò a dormire, a fianco al braciere.
Poi, Dio, che pure il suo l'aveva fatto, dicendo a chi aveva orecchie per sentire che il tempo di Gibellina stava per arrivare, prese i fili delle profondità della terra e li scosse nuovamente, e stavolta le case di pietra e di tufo si fecero di polvere, il sangue scorse per gli scaluna, le cappelle del cimitero, squinternate, liberarono i morti.
Ci fu un attimo in cui si zittirono pure i vermi.
In quella notte brillavano molte stelle. Tutte sapevano, e tutte volevano esserci, e illuminare quei poveri Cristi.
Il primo lamento, forse, fu di un bambino. Piansero tutti, poi. Mentre provavano a togliersi di dosso i conci, i cantuna. Le pietre.
Era l'Italia del 1968.
Io me ne stavo a Palermo, e quello del terremoto è il mio primo ricordo. Di me, in braccio ad uno zio, in ascensore. Il palazzo aveva oscillato come un metronomo alle prese con un Improvviso. Al nostro tredicesimo piano, i letti s'erano ubriacati, e sbattevano da muro a muro.
Palermo non sapeva ancora di Gibellina. E nemmeno di Calatafimi, di Partanna, di Poggioreale, di Salaparuta, di Salemi, di Santa Margherita Belice, di Santa Ninfa.
Disgrazia nella disgrazia.
L'esercito ripeteva le esercitazioni di sempre, coi vecchi fucili regalati dagli americani. Non s'intendeva di Protezione Civile. I francesi vennero dieci giorni dopo, coi cani. Sguinzagliati a fiutare le carogne.
Gibellina contò centoundici morti. Finì che i vivi s'asciugarono le lacrime e rimisero i morti vecchi al loro posto, insieme ai nuovi; e dalla sera alla mattina, si ritrovarono con niente in mano; nelle tende; con le quarare di rame annerito a cuocere sulle pietre.
Li aspettavano vent'anni di baracche. Fogli di lamiera. Con l'Eternit sulla testa e l'amianto nei polmoni.
Quando i vecchi tornano al Cretto, si dicono: “Finìu u tempu di barracchi”. E qui, si capisce che la malinconia è per il ciauro di pomodoro e basilico che si diffondeva per la baraccopoli, per i picciriddi scalzi che giocavano sulle pozzanghere, per il primo panificio e la prima gioielleria, e la prima sala trattenimenti, che in quella città di ferro arrugginito avevano riportato la speranza. Nonostante i ritardi dei politici, ai quali aveva fatto appello Danilo Dolci, nel 1970, con la sua Radio, a Partinico, la prima libera d'Italia, con una trasmissione durata 27 ore e interrotta dai Carabinieri.
Gibellina ebbe pure un secondo terremoto. Quando il profumo dei piccioli arrivò a Palermo, a Gibellina mandarono ruspe e dinamite, per l'inevitabile trionfo del purissimo stile Geometra che contraddistingue non meno di trecento città siciliane.
Le rovine resistettero.
Ora, bisogna dire che, in Sicilia, la morte è sempre accompagnata da una rinascita che vuol contraddirla: per puntiglio, per principio. Così a Ragusa, a Noto, a Modica, a Catania, dopo il terremoto del 1693; così a Messina, dopo il terremoto e lo tsunami del 1908.
Prima che quel nefasto 1968 si chiudesse, a Gibellina elessero sindaco un giovane deputato, Ludovico Corrao, che era eretico e cristiano. Cristiano sociale. Testimone di quell'eresia politica che era stato il governo Milazzo, qualche anno prima, coi fascisti e i comunisti insieme contro Roma e la Democrazia Cristiana.
Corrao, che sarebbe rimasto Sindaco per quasi trent'anni, conosceva Berlino. Sapeva di Hansaviertel, il quartiere che dopo la seconda guerra mondiale era stato tirato su dalle visioni architettoniche di Aaalto, Gropius, Niemeyer.
Sapeva pure di Nietzsche, Corrao, a volerci scommettere: della Nascita della Tragedia, e di Apollo e Dioniso.
Corrao, dunque, che sapeva del mondo, si trovò subito d'accordo con Alberto Burri. E i gibellinesi videro che non era triste quel Sacrario.
Ad un'idea sacra, infatti, riuscì a dar forma il cemento dolce e bianchissimo versato sulle rovine e sulle molecole dei morti.
Non era il primo Cretto al quale Burri avesse lavorato, ma quello di Gibellina fu il Grande Cretto.
Un segno bianco come un lenzuolo. Un sudario dinanzi al quale, la Democrazia Cristiana di Gibellina affisse manifesti che protestavano per la follia delirante di Burri e Corrao.
Burri voleva che quelle rovine restassero, sotto il Cretto. Non si può ricostruire, pensava. E bisogna dare pace al morto. Dorma con le sue pietre.
La sua anima, però, pensava Burri, era ancora viva: Gibellina, che era greca e forse elima, in arabo era Piccola collina, e secondo altre traduzioni, Gazzella che corre sulle colline.
Altri non ebbero il coraggio.
Oltre la collina che si alza ad Oriente, c'è Poggioreale, coi suoi fantasmi, tra le rovine ancora appese le une alle altre, e i conci di questo tufo gessoso che della vicina Salemi, Shalom, tra le capitali dell'ebraismo isolano fino alla cacciata del 1492, facevano dire: “Unni viditi muntagni di issu, chissa è Salemi, passaticci arrassu. Sunnu nimici di lu Crucifissu e amici di lu Satanassu”.
Fu poi Salemi che regalò a Gibellina i vigneti sui quali far sorgere la città nuova, a venti chilometri da qui. Ludovico Corrao, che sapeva di Berlino e di Nietzsche, di Modica e di Messina, volle radunare due generazioni di scultori, fieri oppositori della retorica della statuaria.
Pietro Consagra, e Pomodoro, Cascella, Franchina, Mirko, Quaroni, Uncini, Staccioli. Per non dirne altri. E per tacere di architetti, urbanisti, pittori, scenografi.
Fecero le sculture, fecero i palazzi, fecero pure i drappi che a Pasqua le processioni recavano per i solchi del Grande Cretto che una volta erano stati le acchianate e le scinnute di Gibellina.
Diceva una vecchia profezia degli ebrei di Salemi, che mai sarebbe caduta, Salemi, come Gerusalemme.
Senonché, potrebbe intendersi, la profezia, a rovescio, e per esteso: E' volere di Dio che essa rinasca, benché distrutta, e che dia i natali a città nuove.
Salemi, dunque, ospitò Gibellina nuova. Alla quale si accede passando per la Grande Stella di Consagra, che ripeteva la visione che da queste parti, a Castelvetrano, ebbe una notte Goethe guardando attraverso un foro nel tetto di una locanda.
A dar carne alla nuova Gibellina, sono anche la Chiesa Madre, con la sfera cristiana e il parallelepipedo mussulmano; il Teatro; la fermata degli autobus; la fontana; l'orto botanico; la casa del farmacista; il corso; i giardini segreti; i palazzi; il sistema delle piazze.
Visioni. Come il gigantesco aratro di Pomodoro.
A Gibellina vecchia, nel 1985, Burri mise mano al Grande Cretto. Sei anni dopo, chi teneva la mano sul rubinetto dei soldi, decise di chiuderlo, lasciandolo incompleto.
Chiudi gli occhi, e al Cretto rivivi ogni cosa.
Vedi i primi giorni di lavoro.
Gli ingegneri, i capimastri, i bracci e i mezzibracci che pazientemente tentano di persuadere Burri a scegliere tutt'altra mescola, per quel sudario. L'umbro, imperturbabile, risponde che vuole un cemento che non sia liscio come il basalto. Preferisce un tessuto poroso, come la spugna dei polmoni.
Vedi i primi sopralluoghi. I gibellinesi. Corrao. E altri eretici. Buttitta, Guttuso, Sciascia. Il sole andava da Oriente a Occidente, altissimo, così luminoso che faceva notte sotto le rovine.
Ora, Burri se ne é andato, Consagra riposa nel cimitero nuovo che lui stesso ha disegnato, protetto dai più bei cancelli che un cimitero possa vantare.
I nervi e i muscoli del Cretto, le armature di ferro, si sono rigonfiati, per la ruggine. La stoffa del sudario si è strappata.
Prima del restauro, già deciso, apriranno dei Cantieri di Conoscenza. Per studiare. Per vedere.
Chiudi gli occhi, e al Cretto rivedi ogni cosa.
Le rappresentazioni teatrali degli anni Ottanta. Thierry Salmon, e le sue Troiane. L'Oresteia di Xenakis. Le comparse erano i giovani e i vecchi di Gibellina. Le macchine. Le scenografie. Di Scialoja. Di Paladino.
I concerti degli anni Novanta. Franco Battiato accosciato su un tappeto, dinanzi a migliaia di persone.
Le musiche di Philip Glass, per una regia di Bob Wilson.
Se oggi guardi il Cretto, vedi che il bianco si è fatto grigio, e che il grigio è tornato a macchiarsi di giallo e di bianco, del tufo e del gesso delle cave di queste parti.
L'erba s'insinua come una volta sulle scale. Burri non voleva che la tagliassero, d'estate. E' la vita che torna, diceva.
Chiudi gli occhi, e vorresti non vedere più le pale degli impianti eolici che un'impresa ha voluto incistare sulla collina, proprio sopra il Cretto, con il benestare del Comune. Corrao non è più sindaco da quattordici anni.
Lungo i solchi, vedo tre cantuna, l'uno sull'altro. Tre pietre gialle, in prossimità di una ferita, del ferro arrugginito. Preferisco pensare che li abbiano sistemate delle mani pietose per accompagnare il riposo dei morti.

giovedì 10 aprile 2008

IL PENSIERO DEBOLE DI VATTIMO

Un signore torinese, Vattimo Gianni, che ha scritto dei libri e insegnato nelle Università, alle soglie della senescenza ha scoperto che quella della Storia è una camicia che puoi indossare rivoltata.
Il dritto è quel che ciascuno di noi miseramente può pensare, dei fatti di Lhasa: che i monaci tibetani abbiano protestato per aver più libertà, per la loro identità culturale, per il loro Paese schiacciato dalla tirannia.
Il rovescio è che, a Lhasa, i monaci hanno messo in atto "un pogrom anticinese".
Ora, poiché la parola Pogrom suscita tanti ricordi, potremmo rivoltare delle altre camicie, già indossate dalla storia: la rivolta degli ebrei rinchiusi nel Ghetto di Varsavia, fu "un pogrom antitedesco"; il pietoso tentativo d'opporsi alla morte da parte dei kolchozi fu "un pogrom antisovietico"; la resistenza italiana fu "un pogrom antifascista".
Vattimo non deve scusarsi di nulla. Lo conosciamo. E' il Maestro del Pensiero Debole. Debolissimo.

mercoledì 9 aprile 2008

UNA CERIMONIA PER IL TIBET

Sarko l'aveva solo ventilato: potrei non andare alla cerimonia inaugurale dei Giochi olimpici di Pechino, per protesta contro il comportamento della Cina in Tibet.
A G.W. Bush, l'ha chiesto la Speaker democratica del Congresso, Nancy Pelosi.
Gordon Brown l'ha detto con chiarezza: non andrò a Pechino.
E l'Italia?
Un Premier uscente, ovviamente, deve aver la cortesia di lasciar decidere il successore, ma i candidati potrebbero pronunciarsi già in campagna elettorale. Anche per farci dimenticare quel che è accaduto con l'ultima visita del Dalai Lama in Italia. Avevano tutti un altro impegno. Sola a rendergli il dovuto omaggio, il Sindaco di Milano, Letizia Moratti.
Nel giorno dell'inaugurazione dell'Olimpiadi, potremmo goderci, in diretta tv, una Cerimonia alternativa: per il Tibet libero.
Da Washington, Londra, Parigi, Roma. Dal mondo libero.

LE OMBRE CHE UCCIDONO

Piombavano in casa tua, improvvisamente, e senza alcun riguardo per la tua persona, e per la tua famiglia, ti trascinavano via. I tuoi famigliari non avrebbero avuto alcuna notizia, del tuo destino. Avrebbero implorato clemenza.
E tu, dopo le torture, i tratti di corda, gli schianti al suolo, avresti ammesso ogni cosa. Firmando una falsa confessione.
Così funzionava l'Inquisizione. I tuoi beni sarebbero stati sequestrati, o venduti ad un incanto privato, ad un prezzo men che simbolico. La tua reputazione, macchiata da una colpa inesistente, avrebbe accompagnato i tuoi figli.
Intorno a te, la delazione, il ricatto.
La denuncia nei tuoi confronti era stata probabilmente sollecitata: dite quel che sapete, di quell'uomo, o anche voi sarete ritenuti responsabili delle sue offese. A te, l'impossibile compito di mostrare la tua innocenza, dinanzi a dei giudicatori, e senza alcun diritto ad una vera difesa.
Così, il processo.
Sono passati degli anni. Secoli. Ma il sospetto; la delazione; il processo ingiusto; la perdita della reputazione; l'offesa arrecata alla Fede e alla Pubblica decenza. Sembra che, per tutto ciò, il tempo non sia passato.
A questo mi vien da pensare scorrendo il Corriere della Sera, laddove si scrive di pesantissimi sospetti su Tano Grasso, promotore di una delle prime rivolte antiracket, ed oggi al vertice della FAI.
Sonia Alfano, figlia di Beppe Alfano, giornalista onesto di Barcellona Pozzo di Gotto, lo ha invitato a dimettersi, finché le ombre che lo circondano non si saranno diradate.
E dunque, può un'ombra far velo alla storia e al valore morale di una persona come Tano Grasso? Quante volte è accaduto che un'ombra abbia ucciso un onest'uomo?
Dovremmo pensar meglio alla Giustizia.

martedì 8 aprile 2008

L'OMICIDIO SECONDARIO

Trent'anni di galera. Per omicidio. Il giudice l'ha condannato per aver pestato a sangue la fidanzata incinta e averla sepolta viva. Per l'omicidio del figlio, no. Nessuna aggravante, per il duplice omicidio. Il giudice, secondo i giornali, avrebbe considerato la morte del bambino un effetto secondario, non voluto. L'assassino, difatti, avrà pensato che il bambino per il quale aveva litigato, sarebbe sopravvissuto: al pestaggio, alla sepoltura, alla morte della madre. Farà giurisprudenza, la sentenza? Lo sparo di un proiettile, talora, provoca l'effetto secondario della morte di qualcuno. Così, l'auto che punta il passante, la bomba sull'aeroplano, l'esplosivo su un traghetto e via ipotizzando. A volte, per citare una vecchissima filosofica vignetta di Altan, penso cose che non condivido, o mi trovo a condividere cose che non avrei mai pensato. Come certe dichiarazioni, sulla necessità di valutare periodicamente la capacità di giudizio di un magistrato.

lunedì 7 aprile 2008

QUEL TRENO PER PUNTA RAISI

I biglietti li trovi dal tabaccaio, e fai la fila con l’ansia dell’ex fumatore. Glielo chiederò un pacchetto?
Niente binario, sul tabellone. Sarà una svista. Qualcuno dice che quello giusto è sicuramente il numero 3. La tabaccaia conferma. Una ragazzina, pietosa, t’insegue e guardandosi intorno ti dice sottovoce che è il 4, in realtà. A chi credere? Due minuti dopo, lo speaker conferma. Ufficialmente. Il treno per l’aeroporto di Punta Raisi parte dal binario 4. Alle 7 e 52.
Ma non si chiamava Falcone e Borsellino, l’aeroporto? Ci fu pure un dibattito, sull’opportunità di ricordare ai turisti che a Palermo si muore di mafia. Punta Raisi, ribadisce lo speaker. Qui, alla Stazione Notarbartolo, risolsero la questione. Niente mafia. Il paradosso è che pure Emanuele Notarbartolo, datore del proprio nome alla Stazione medesima, morì di mafia. Accoltellato su un treno.
Dunque. Ricapitoliamo. Si parte alle 7 e 52. Dovremmo farcela ad arrivare all’aeroporto rinominato per le 9.40, orario d’imbarco del volo per Milano Linate. Lo speaker non ha dubbi. E in effetti, il treno si presenta puntualmente al binario di partenza.
Ricordavo, per la verità, una specie di pendolino. L’avevo magnificato: finalmente una bella cosa, europea. Un treno modernissimo. Pulito. Luminoso. Vale la pena di risparmiarsi un taxi. E invece, qui davanti c’è una specie di reperto archeologico, tornato alla vita come per miracolo.
Sembra di stare sul set di Una Notte al Museo. Se è così, tra un poco si presentano il dinosauro, Teddy Roosvelt a cavallo, Attila con gi Unni, i soldati romani con i Confederati della guerra di secessione americana. Tutti vivificati dalla tavoletta magica del Faraone che certamente dev’esser conservato qui, da qualche parte, nel suo sarcofago.
E’ un treno tutto verde, il nostro reperto. Verde come la tela di panno della giacca dello steward dal volto rassegnato che si materializza al di là della porta scorrevole.
La porta si apre con lo sbuffo regolamentare. A vapore. Seduti ai loro posti, ci sono quelli che vanno a lavorare, i ragazzini delle scuole, i viaggiatori con trolley al seguito.
Seduti, dunque. Cinquecento metri tranquilli. L’illusione di un viaggio sereno. Libro in mano e un accenno di conversazione. Galleria. Luce spenta. Buio come la notte, sul vagone. Alla fine, appena usciti, la luce si riaccende. Se ci fossero gli interruttori, ai lati delle porte, penseremmo allo scherzo di un buontempone. Ma gli interruttori non ci sono. Che fu, allora?
C’è puzza di bruciato? Ma no. E’ un’impressione.
Solo che dalla Stazioncina nominata Francia il treno non riparte. Riaccendono i motori elettrici. Un metro e stop.
Tutti si guardano negli occhi. Bigliettai e capotreni pattinano lungo i corridoi, telefonini incollati alle orecchie. Qualcosa dev’esser successo. Niente avvisi. Niente spiegazioni.
Al terzo passaggio, a domanda uno risponde: “Sì, in effetti, c’è qualche problema. Speriamo”. E’ il massimo dell’informazione.
Il treno riparte lento lento. La puzza di bruciato si fa insopportabile. Tutti in piedi, verso le uscite.
Fino alla Stazioncina di San Lorenzo Colli. Tutti giù. “Guardate che non si sa. Forse lo ripariamo”.
Chi ci crede, resta sopra. Gli altri, tutti giù. Ad aspettare il prossimo per Punta Raisi.
Il treno verde, intanto, si è messo sul binario sbagliato. Il numero 3. Doveva mettersi sul numero 2, spiega il Capostazione, baffo gitano e camicia sbottonata sulla maglietta della salute.
E il prossimo per Punta Raisi? Passerà? Sì, certo. Tra un poco.
Va a Punta Raisi? Certo. Ma ora si deve fare tutte le fermate intermedie che l’altro non ha fatto più.
E quello delle 9? Cancellato.
Si vede che era destino.
Il nuovo treno sarà modernissimo. Pulito. Luminoso. La speranza rinfranca. Consola. E invece, ne arriva uno uguale uguale all’altro.
Lo steward ha le occhiaie.
Quasi tutti decidono di sedersi. Il passeggero di fronte aveva previsto tutto. “Ho preso il treno precedente, pensando che magari si poteva guastare e allora prendevo il successivo”. Dalla tasca, tira fuori un orario ferroviario aggiornatissimo. Sottolineato per bene.
Il milanese della compagnia, rimane nel corridoio. Una telefonata dopo l’altra. Scarpe abbottonate marroncino chiaro, pantaloni neri di lana grossa, giacca doppiopetto con bottoni d’oro stile country club e cravatta rossa regimental. Il tutto, sigillato da un impermeabile beige. Dal tascone, occhieggia il Corriere dello Sport.
Fuori, scorrono gli intestini di Palermo. Non si sa come, ma ai binari le città offrono sempre il peggio. Pareti scrostate. Balconi eccessivi. Biancheria affollata su cordoni estenuati. Serbatoi cotti dal sole. Parabole spaziali. Superato il confine, è uno spaccato sociologico sullo storico fenomeno dell’abusivismo. Case, casette e casine di tutti i tipi. Dalle parti di Isola delle Femmine, si apre osceno uno squarcio triangolare sul mare, contenuto dal cielo e su due lati da tonnellate di cemento indurito male.
Leggere è impossibile. Quel che sta fuori, urla. Anche il vagone, per la verità. Un clangore metallico. Che dopo un po’, fortunatamente, si spegne.
Arriva. Dopo 40 minuti, il secondo treno verde, finalmente arriva.
Dalla Stazione Notarbartolo all’aeroporto Punta Raisi, già Falcone e Borsellino, un’ora e venti minuti. Di corsa al check in.
La prossima volta, in taxi.