sabato 1 dicembre 2007
IBLA BICOLORE
A Ibla c’è qualcosa da vedere subito, prima che scompaia.
E’ il colore nascosto e ritrovato della candida Chiesa di San Giorgio: il nero asfalto di capitelli, fasce e decori.
Quel colore durerà poco tempo. Poi, inevitabilmente, sparirà.
Così dicono gli esperti, che saprebbero come richiamarlo ancora in vita.
Ma non si può essere affatto sicuri che ci riproveranno, dopo la guerra di qualche mese fa.
Bisogna andare ad Ibla, per farsene una ragione.
Il Fascismo abbatté il Castello chiaramontano, e costruì una nuova strada fra Ragusa ed Herea (Hybla Hereia). Percorrerla è attraversare la storia: come se, in sospensione, restassero degli atomi, particelle infinitesime delle mura possenti, delle sale d’armi, degli alloggi dei Chiaramonte, dei Conti che vollero farsi Re e pagarono con la testa; gli successero i Cabrera, con una capra nel blasone, e Ragusa fu sottomessa alla vicina Modica per cinquecento anni.
La strada termina dinanzi alla cancellata del giardino Ibleo, in zona pedonale. Risaliamo per i vicoli, sfiorando il ristorante di Ciccio Sultano, gli emporii con le delizie iblee in vetrina: i formaggi, il miele, la cioccolata alla vaniglia e alla cannella (“come ad Alicante, in Spagna”, ricordava Leonardo Sciascia).
La strada sbuca in una sorta d’antipiazza. Orgogliosa, l’edicola espone “Sicilia Libertaria”, affissa alla vecchia persiana. A fianco, i finestroni del Circolo di Conversazione incorniciano alte librerie di noce bene incerate, e un paio d’ospiti, intenti alla lettura.
Sono le sei, e la sera è scaldata dalle luci gialle.
In piazza del Duomo, s’intravedono pochi turisti sotto la scalinata della Chiesa di San Giorgio, attratti per lo più dallo scenario dei film televisivi del Commissario Montalbano.
Come se Ibla fosse la piazza di Vigàta, e non invece il cuore di un luogo abitato da millenni, le pareti calcaree forate, le caverne mutate in case, poi in necropoli e ancora in case, le mangiatoie costruite con pietre graffite e scolpite.
La Chiesa spagnolesca disegnata da Rosario Gagliardi, la torre campanaria al centro, si erge di sbieco su questa piazza televisiva, e ad arrivarci dal basso, si allunga biancastra come la pietra che la compone. Un ologramma, al quale occorre avvicinarsi.
Alla fine dell’ultimo restauro, smantellate le impalcature, ripiegati i teli, gli Iblei non credevano ai loro occhi: al lucore del calcare, s’era aggiunta la notte della pietra pece.
In altri tempi, un banditore sarebbe andato di strada in strada: berretto, giummo e tamburo.
“Currìti, currìti!”.
Taratatàn.
“San Giorgio si fici bianca e nivura”.
Taratatàn.
Era il primo incantamento che da secoli si potesse ricordare su Ibla; o forse, un maleficio.
Fabio Granata, che è stato un eccellente assessore, prima ai Beni Culturali e poi al Turismo, ha protestato, per il restauro di una delle Chiese più importanti della Sicilia, nel Val di Noto, oramai patrimonio mondiale dell’Umanità (e del riconoscimento Unesco, buona parte del merito va proprio a Granata).
“Una delirante interpretazione dei materiali”, ha detto.
A Granata, ha risposto la Sovrintendente ai Beni Culturali, Enza Cilia: “sono trasecolata”, ha scritto, “ritengo incauti i suoi inopinati allarmismi”. Replica ton sur ton, barocco su barocco.
La vicenda è intricata. Il reato è quello di “delirante interpretazione dei materiali”. Un abuso architettonico, commesso in luogo di un intervento “puro”, neutro.
Questa purezza è un punto quasi invisibile, su una mappa antica, e malridotta. Servono storia e filosofia, per l’investigatore: dei testimoni, delle tracce.
Non sono solo in quest’arrampicata. Ho una guida, accanto. Quasi me ne dimenticavo.
“Di me non si parla”, sussurra, scorbutica.
La pietra che fonda la città è calcarea, e l’intera Ibla ne fu cava d’estrazione.
C’è un’altra presenza, sotto terra, a queste latitudini: il petrolio.
Quando il petrolio e il calcare s’incontrano, e l’olio fossile s’insinua tra i pori che innervano la pietra cotta in antichi vulcani, nasce una pietra nera, dotata di numerose qualità: elastica, resistente alle sollecitazioni, docilissima all’intaglio dello scalpellino, dello scultore. Il petrolio può ravvivarla anche a distanza di secoli.
E dunque, dove sta il problema?
Quando l’architettura discute, e non è che lo faccia spesso, s’attacca a questo genere di sciocchezze. Del resto, non si occupa.
Dipenderà dal fatto che tutto ciò avviene a Ragusa. Mi viene da pensare a Sciascia. E’ la seconda volta, questo pomeriggio
Sciascia lo frequentava volentieri, il ragusano.
Nel suo “La Contea di Modica”, scrisse che qui era da rilevare una presenza dell’invettiva e della satira più aperta e affilata che in altre parti della Sicilia, per un più avvertito gusto di libertà.
E aveva ragione. Se tutto ciò fosse accaduto altrove? Chi se ne sarebbe preoccupato, a Palermo?
Di questo, dunque, si può discutere solo a Ragusa. Per gusto di libertà.
Non è la prima volta che qui si polemizza sui restauri. Vittorio Sgarbi denunciò l’orrore della tettoia posta a protezione di quel che rimaneva della vecchia Chiesa di San Giorgio, il portale trecentesco. E qualche anno fa, per il francescano Convento di Gèsu (così: con l’accento sulla “e”), sconciato da un terremoto, si escluse il riuso dei materiali originari, ritenendosi più “puro” l’uso di mattoni di cotto. Su un manufatto di pietra calcarea. Il vero è falso, e il falso è vero.
Miracoli della dialettica.
Oggi, il sofista Gorgia da Leontini farebbe l’architetto.
Se Atene piange, Sparta non ride.
Vuole parlare di San Giovanni, di Ragusa nuova? In piazza Gramsci hanno tolto le palme centenarie e una pregevole piazzetta novecentesca per fare il parcheggio della Stazione. Indispensabile. Per Palermo, il treno ci mette sette ore: sono 250 chilometri. Per Catania, cinque ore: 100 chilometri. Dicono che alla fine dei lavori, ricostruiranno tutto com’era.
Torniamo alla Chiesa di San Giorgio, se non le dispiace. Stiamo un poco divagando. Chi era l’architetto, Rosario Gagliardi?
Un siracusano, un Genio, a giudicare dalle sue opere: perché di lui, della sua vita, ancora oggi, si sa poco o nulla (se si eccettua la devozione al Bernini e al Barocco romano). Ricevette l’incarico di rifare San Giorgio nel 1738. Nel 1693, gli iblei avevano contato i loro morti - cinquemila: quanti un secolo prima ne aveva fatti la peste – e avevano deciso di separarsi, consensualmente, tra Sangiorgiari e Sangiovannari. La nobiltà più recente si arrampicò su per il colle; la più antica rimase dov’era sempre stata. Gagliardi si guardò intorno, chiese agli artigiani. Scelse quella pietra più scura per ragioni estetiche o strutturali, chi lo sa, e forse, la utilizzò quando l’aria l’aveva già ingrigita.
Nessuna delirante interpretazione?
No, l’interpretazione c’è stata, e i restauratori potrebbero aver calcato la mano nell’imbibire la pietra di petrolio. Ma così facendo, avrebbero solo rinviato di qualche mese l’esatta coincidenza con il grigio originario.
Si può ipotizzare un lavoro di restauro “ideale”?
Che avrebbero dovuto fare, i restauratori? Individuare le esatte intenzioni di Gagliardi? O riproporre l’interpretazione che di quelle intenzioni diedero i mastri d’Officina? Senza contare che da allora, sono trascorsi quasi tre secoli: la storia avrà pure i suoi diritti, avendo modificato il lavoro altrui e impresso il “suo” colore.
E qui arriviamo a ben altri interrogativi.
Può considerarsi “puro” l’agire sulle lancette della Storia? Ridare la vita ai morti? Rimettere del petrolio in quei fori dai quali altro petrolio era evaporato secoli prima?
Come fosse l’anima, che per Democrito è fatta di atomi, e si respira.
Tra qualche mese, o tra qualche anno, dipenderà dalla mistura usata dai restauratori, il nero della pietra degraderà in grigio, e la bicromia immaginata da Gagliardi, sparirà agli occhi dei più; si manterrà una differenza quasi impercettibile, che sarà colta, come segno distintivo, pure da chi oggi s’imbizzarisce al solo parlarne.
Converrà che ad Ibla c’era un barocco bianco, e che ora è bicolore.
Il Barocco appartiene solo al Seicento, e niente di significativo, ad Ibla, è stato riedificato prima del 1739. Di “Barocco siciliano” parlò per primo Anthony Blunt, nel 1968. Gli architetti di Ibla avevano una visione manualistica del Barocco. Lavoravano su immagini. Ma il risultato è unico. Guardi con i suoi occhi. Ha mai visto niente del genere?
Restiamo in silenzio, davanti a San Giorgio. Sono le otto, e il freddo entra nelle ossa. Si torna a casa, a Ragusa nuova, a San Giovanni. In macchina, a sorpresa, il mio Cicerone, o Virgilio che sia, ossimoro vivente, accademico e saggio, difende la polemica di Granata.
Pure se non la condivido, non è del tutto infondata: potrebbe avere un’efficacia preventiva; evitare future manipolazioni; riaccendere i riflettori su Ibla. Gagliardi - con la sua Chiesa di San Giorgio, un capolavoro assoluto - non riuscì ad opporsi alla decadenza. E nel Novecento, le case popolari tornarono a svuotare i quartieri di Herea, uno per uno. Soltanto ora Ibla si sta ripopolando, e i prezzi delle vecchie case sono saliti a dismisura.
Mi volto verso di lui. Sul sedile accanto, però, non c’è nessuno. Soltanto libri, ritagli, appunti. Sintesi di mille conversazioni, ricordi, impressioni.
Nell’aria, dev’esser rimasto anche qualche atomo dei Cabrera. A metà del Quattrocento, abolirono di fatto il feudalismo, concedendo ai contadini il possesso delle terre, in enfiteusi. Senza aspettare l’Illuminismo, il Costituzionalismo e il 1812. Ciascuno sarebbe stato proprietario del suo: della sua terra, del suo denaro, della sua casa; sicché, il ragusano ebbe ed ha ancora una sua borghesia, ante litteram, un risparmio ordinato, una civile convivenza.
Nel 1808, l’abate Paolo Balsamo, di Termini Imerese, venne nel ragusano a dorso di mulo. Economista e uomo politico, studi in Inghilterra, Balsamo sapeva di numeri e di caratteri, e nelle sue accurate relazioni, ricorrevano i paragoni con lo Yorkshire e la campagna piemontese. A Ragusa, scriveva, “abbondano quelli che si chiamano capitalisti”, e “sono sparse le mezzane fortune”.
Ma il tempo, anche qui, sta cambiando ogni cosa.
Quegli atomi, dei Chiaramonte e dei Cabrera, sono tutto quel che resta dell’incantesimo che ha fatto di Ragusa un’isola nell’Isola (senza mafia, finora, e con una pasta umana di buona qualità). Incantesimo che si deve ai Siculi, ai primi abitatori dell’Isola, e che è sopravvissuto a romani, bizantini, arabi, svevi, angioini e spagnoli.
Né ossa né ruderi sono rimasti per queste strade.
I profumi, semmai.
Gli atomi di Democrito, l’anima del passato.
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