mercoledì 1 gennaio 2014

Quest'uomo è il personaggio dell'anno. La mattina del 3 ottobre Costantino Baratta, 56 anni, muratore, è uscito in barca dal porto di Lampedusa ed è entrato nella cronaca di una tragedia che ha segnato indelebilmente il 2013. Inginocchiato su un piccolo scafo di cinque metri e mezzo, Costantino ha sollevato dall'acqua 11 ragazzi e una ragazza alla deriva nel mare piatto ricoperto dai riflessi arcobaleno della nafta. Li ha afferrati dai pantaloni per tirarli a bordo come manichini stremati. E quando li ha trovati completamente nudi, si è aggrappato alla loro pelle unta di carburante fino ad adagiarli ai suoi piedi. (da Huffington Post). Ricomincio a scrivere sul mio Blog. Latinera è attuale, è il futuro. I nuovi italiani sono latineri.

venerdì 5 ottobre 2012

IO STO CON INGROIA

Ricevo questa telefonata. È giovedì pomeriggio. Ma Ingroia, mi chiedono. Ha firmato degli autografi e qualcuno protesta. Tu che ne pensi? Sto dalla sua parte, rispondo. Dalla parte di Antonio Ingroia e di quelli che gli chiedono un autografo. Io mi ricordo. Erano gli anni Ottanta. Avevano già ucciso. Mattarella. La Torre. E tanti altri, buoni e meno. Nell’83, ricorsero al tritolo, per l’autobomba che uccise Rocco Chinnici. Un’azione di guerra. Libanese, dissero. E libanesi furono altre stragi. Fino a quelle del ’92 e del ’93. Mi ricordo quei magistrati che a Palermo, con Chinnici, provarono a scardinare un intero sistema, colpendo anzitutto Cosa Nostra. Oggi abbiamo la consapevolezza che il sistema criminale italiano si fonda da una parte sulla prevaricazione legalitaria – leggi ad hoc, professionisti dello svuotamento del senso residuo delle leggi, imprenditori – e dall’altra sulla violenza, delle mafie e di altri soggetti armati. Di quei magistrati che provavano a incrinarne il funzionamento, uomini come Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, dicevano, fra l’altro: comunisti, golpisti, illusi, narcisisti, pazzi. Tralascio gli insulti. Sono passati vent’anni. Falcone e Borsellino non riuscirono a demolire quel sistema criminale. E furono uccisi, dalla mafia e dai suoi alleati, per obiettivi non solo mafiosi: a dircelo, oggi, sono storici e magistrati. La Trattativa che si svolse tra Stato e Mafia è stata raccontata da pentiti e testimoni. C’è anche il colossale depistaggio sulla strage di via D’Amelio. Manca la verità sui delitti politici. E vengono fuori verità un tempo indicibili sui rapporti tra mafia, neofascismo e poteri occulti: dalla revisione del processo per la strage di Alcamo, ad esempio. Tutto si tiene. In più, rispetto ad allora, c’è l’inveramento della profezia di Sciascia sui professionisti dell’antimafia. Si ha l’impressione che sotto la maschera di antimafiosi oggi possano nascondersi dei rappresentanti di interessi, come dire, sgradevoli. Antonio Ingroia ha il coraggio di denunciare il fallimento di quel tentativo di scardinamento, proseguito fino ad oggi con coraggio e nonostante i tanti morti. Fallimento che, a mio parere, non è solo della magistratura onesta. È nostro, di tutti noi. Ingroia dice con tono pacato e con argomenti seri di quel che è accaduto e accade. Ha svolto una funzione di supplenza. Parlo al passato prossimo perché sta per andar via da Palermo, sia pure per un anno, per un incarico ONU. In Guatemala, e non alle Bahamas. Ingroia non va via da vincitore. Ma da sconfitto. Lui come tanti italiani. Confesso che per qualche tempo ho criticato i magistrati che rilasciavano interviste sui processi dei quali si erano occupati. Distinguevo tra Gherardo Colombo e Antonio Di Pietro, tanto per dire. Avevo voglia di normalità. Ora mi sento trascinato indietro nel tempo. Ad anni terribili. Ripenso alla ragione della telefonata. Ingroia ha firmato degli autografi. E mi dico, quasi quasi, gliene chiedo uno anch’io.

domenica 15 luglio 2012

CHE SUCCEDE NELLA CHIESA SICILIANA?

C’era un tempo, non lontano, a Palermo, in cui un arcivescovo s’ingeriva di frequente nelle cose della politica: c’era “una grave congiura – scrisse, in una lettera pastorale, nel 1964 - per disonorare la Sicilia”, e colpevoli ne erano la mafia, il Gattopardo e Danilo Dolci. A Monreale, negli anni Ottanta, un altro arcivescovo, grand'Ufficiale dell'Ordine Equestre del Santo Sepolcro di Gerusalemme, fu implicato in alcune inchieste di mafia e poi prosciolto, condannato in appello per una truffa all’Unione Europea e poi definitivamente assolto, dopo un annullamento della Corte di Cassazione. Nel 1982, a Palermo, celebrando i funerali del Generale Carlo Alberto dalla Chiesa, il cardinale Salvatore Pappalardo tuonò contro Cosa nostra e chiese alla politica di salvare Sagunto: Palermo, oramai espugnata. Fu una svolta. Molti parroci scelsero di parlarne con i fedeli, pronunciando una parola a lungo bandita dalle omelie: Mafia! La Primavera di Palermo nacque nelle stanze di un centro studi dei Gesuiti, con padre Ennio Pintacuda e padre Bartolomeo Sorge. Nel 1993, ad Agrigento, il Papa, Giovanni Paolo II, si rivolse ai mafiosi, ordinando loro: “Convertitevi”. Pochi mesi dopo, a Palermo, giunse la risposta di Cosa Nostra: il parroco di Brancaccio, Don Pino Puglisi, presto Beato, fu ucciso a colpi di pistola; aveva provato a sottrarre i ragazzi all’abbraccio mortale dei boss, solo esempio d’ascesa sociale, nelle periferie. Ombre e luci, dunque. Al punto che, nel 1996, un teologo siciliano, padre Francesco Michele Stabile, scrisse: “Perché la Chiesa in Sicilia non ha individuato la mafia non solo come nemico della vita civile, ma soprattutto come un impedimento alla evangelizzazione e alla coerenza di vita della comunità cristiana?”. Nell’ultimo anno, nella Chiesa siciliana sono accadute molte cose. Alcune tra le più rilevanti conducono a Trapani, dove il vescovo è stato rimosso per le conclusioni di un’inchiesta interna disposta dal Vaticano (e condotta dal vescovo di Mazara del Vallo, Monsignor Domenico Mogavero), e un arciprete è indagato dalla Procura locale per la gestione degli immobili della Curia; o ad Acireale, dove un sacerdote ha conversato, non sapendo d’esser registrato, dei suoi rapporti con un uomo al tempo in cui quest’ultimo era minorenne: il sacerdote è stato sospeso dalle sue funzioni e i pm hanno aperto un’indagine. Penso a tutto questo - alla Chiesa e alla Sicilia di ieri e di oggi -, mentre leggo delle cronache romane. Lo Ior di nuovo al centro delle cronache (e nell’inchiesta capitolina confluiscono pure i fatti di Trapani). La defenestrazione del Presidente della Banca Vaticana, Ettore Gotti Tedeschi, collaboratore del Papa nella stesura dell’enciclica “Caritas in Veritate”. Poi, l’arresto del maggiordomo del Santo Padre, che avrebbe trafugato delle lettere riservate e pubblicate in un libro inchiesta. E infine, le rivelazioni sui rapporti tesissimi nella Chiesa tra due ali: quella innovatrice, che fa capo all’attuale Pontefice, e quella conservatrice, legata ai vecchi assetti. Il Papa, Joseph Ratzinger, ex capo della Congregazione per la Dottrina della Fede (l’ex Sant’Uffizio), è un intellettuale: docente a Tubinga negli anni del Concilio, e vicinissimo, in quel tempo, al teologo progressivo Hans Kung. Non certo un uomo di potere. Giunto al sacro soglio, Papa Benedetto XVI aveva lanciato segnali chiari, sin dalla nomina di Padre Federico Lombardi a suo portavoce, seminando autentico entusiasmo nella Chiesa: un enfant prodige, padre Lombardi, giovanissimo provinciale d’Italia dei Gesuiti al tempo della Primavera di Palermo, nominato a soli 42 anni. Benedetto XVI si è proposto di restituire trasparenza alle finanze vaticane e di ridimensionare alcuni poteri cresciuti a dismisura negli ultimi trent’anni. E ha infranto il tabù della pedofilia. Nella lettera ai cattolici irlandesi del 19 marzo 2010, parlando dei sacerdoti colpevoli di abusi sessuali, ha scritto: “Avete tradito la fiducia riposta in voi da giovani innocenti e dai loro genitori. Dovete rispondere di ciò davanti a Dio onnipotente, come pure davanti a tribunali debitamente costituiti”. Penso che, come me, tanti siano smarriti, disorientati. Chi tiene alla Chiesa, deve sostenere questo Pontefice coraggioso, capace di autentici gesti di rottura: anche in Sicilia. Forse non riuscirà nell’impresa. Ma se fallirà, sarà anche per il nostro silenzio.

sabato 30 giugno 2012

CONVERSAZIONE CON DI LELLO SULLA TRATTATIVA

Ci sono parole che, con il tempo, perdono di senso, di significato. Dietrologia è una di queste.
Il nostro contesto interpretativo è l’Italia (e già “contesto” è un termine letterario, per via del romanzo di Leonardo Sciascia: ambiguo per eccellenza, multiforme, e dunque adatto all’investigazione).
Anni fa, in Italia, dietrologi erano coloro che intravedevano, dietro i fatti di sangue e i rivolgimenti politici, delle trame tessute da certi poteri che agivano nell’ombra: servizi segreti italiani e stranieri, poteri economici e politici, lobbies e confraternite.
Ora, dinanzi all’esito di indagini giudiziarie e inchieste giornalistiche sulle stragi del ’92, bisogna chiedersi: che significa dietrologia? Furono dietrologi coloro che si esercitarono nel sospetto, coloro che rimasero insoddisfatti delle indagini e delle verità di Stato?
Vi fu una trattativa, dicono pm e testimoni, che coinvolse uomini della mafia e dello Stato: mentre Cosa Nostra preparava il tritolo per Capaci e Via d’Amelio.
Paolo Borsellino sapeva che sarebbe stato ucciso. Era stato avvertito. Si era preparato alla morte.
Si dice che uomini dello Stato fossero “punciuti”: che fossero passati per l’iniziazione mafiosa, che prevede una puntura di spillo, su un dito, e la fuoriscita del sangue, da cospargere su un’immagine sacra, che brucerà come le carni dell’iniziato, se tradirà.
Si dice che uomini delle istituzioni abbiano depistato, sin dall’inizio, le indagini sulle stragi.
Si dice che Falcone e Borsellino siano stati accompagnati dinanzi al plotone d’esecuzione.
Bisogna chiedere ai testimoni, ai sopravvissuti: che è successo?
Giuseppe Di Lello è stato giudice istruttore al tempo di Rocco Chinnici: testimone, dunque.
È rimasto nel pool antimafia pure al tempo di Antonino Caponnetto, con Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Poi, dal 1999, è stato deputato europeo e senatore, per Rifondazione Comunista. Ora è in pensione.
Giuseppe Di Lello ha assistito, ha preso parte; ha visto e pianto. È un esile e roccioso abruzzese di Villa Santa Maria, nel Teatino; arrivato in Sicilia dopo il concorso, nel 1971, e rimasto in Sicilia, per amore e per passione civile. Me lo ricordo, in una fotografia in bianco e nero: ad una camera ardente. Dinanzi ad una bara. In toga. Il volto più magro del solito. Un’espressione sofferente, dietro gli occhiali spessi. Forse per la morte di Chinnici, o di Falcone, di Borsellino.

Ma è possibile? Una trattativa tra mafia e Stato?
Devo fare una premessa. Sono sempre stato restio ad inseguire un complotto mondiale. Contrario ad immaginare una storia d’Italia ispirata al meccanismo servizi-mafia-complotti. La storia d’Italia è stata costruita anche da tante forze democratiche e sindacati che la mafia hanno sempre combattuto. Però bisogna dire che il depistaggio del processo Borsellino è emblematico. Non è detto che sia stato tutto dovuto al solo Questore di Palermo Arnaldo La Barbera. È solo un esempio, naturalmente. Dietro la strage di via D’Amelio, ci doveva esser dietro qualcuno che non fosse solo mafia. La Barbera era un personaggio abbastanza equivoco. Era a libro paga dei servizi. Vista retrospettivamente, questa vicenda dell’agenda e dell’invenzione di Scarantino comincia a spiegare che dietro questi fatti non poteva esserci solo mafia. Dando ragione a Falcone, che a proposito del fallito attentato contro di lui e due giudici svizzeri all’Addaura parlò di “menti raffinatissime”. Falcone aveva capito tutto. Anche che Salvo Lima non era un mafioso, nel senso che non era “punciuto”. Falcone lo disse anche a Ciriaco De Mita, che allora era segretario della DC. Lima era un punto di raccordo tra la mafia e la politica. Ma non aveva il calibro del mafioso. E lo sapevano anche i mafiosi. Forse, era anche un po’ millantatore, avendo offerto una specie di assicurazione sull’aggiustamento dei processi. E prendeva i voti dei mafiosi.

Forse l’assassinio di Lima fu un colpo tirato a freddo contro Giulio Andreotti: non doveva essere eletto Presidente della Repubblica. E Capaci, potrebbe esser stato il colpo di grazia.
Fu a mio parere un fatto accessorio, un danno collaterale. L’attentato di Capaci era stato preparato con anticipo. Così come quello di via D’Amelio, nonostante l’accelerazione decisa dopo la morte di Falcone.

E gli Stati Uniti? Non avevano mai visto in Andreotti un interlocutore credibile. Troppo filo arabo, e in un momento molto difficile.
Penso che gli Usa avessero l’obiettivo di combattere la mafia. Tennero in custodia per noi Buscetta e Marino Mannoia, facendoci un gran favore. E Buscetta parlò dei Salvo e di Andreotti.

Gli Usa però non cedettero mai un altro loro detenuto: Gaetano Badalamenti. E Badalamenti, contrariamente a Buscetta, era stato un capo: il capo di Cosa Nostra in Italia. E se avesse parlato Badalamenti?
Avrebbe fatto luce sui reali rapporti tra mafia e politica. Buscetta parlò solo, e bene, di mafia militare. Ma tenne per sé molti segreti. E tacque di sé. Non era stato un capo, ma forse, immagino, aveva ucciso, con le sue mani. Si pensa che lo abbia fatto. Era uno degli affiliati ad un clan sanguinoso, quello dei La Barbera. Ma di questo, con noi, non parlò mai.

Più volte ho pensato a Cosa Nostra come ad un’agenzia criminale, sul mercato, e non come ad un’entità criminale a se stante.
Le due cose non sono in contraddizione. Credo che la mafia abbia agito anche su impulsi esterni ma badando sempre ai suoi interessi.

Parliamo di omicidi politici. Nel ’78, le BR e chissà chi altri uccidono Aldo Moro. Nel ’79, la mafia – e chissà chi altri – uccide Michele Reina. Nell’80, tocca a Piersanti Mattarella. Tutti e tre, democristiani. Tutti e tre, protagonisti di aperture al PCI: a Roma, a Palermo, alla Regione. Tutti e tre, morti. Con loro, finisce la politica di solidarietà nazionale.
Non c’è dubbio che se devi uccidere qualcuno di importante in Sicilia non puoi non passare per quest’organizzazione criminale. E dunque è possibile che se altri volessero la morte di Reina e Mattarella, siano passati per la mafia.

Si è sempre detto, però, che per Reina e Mattarella vi era un movente mafioso: non un semplice uso strumentale della mafia da parte di terzi. E i depistaggi cominciano subito. Per Reina, s’assistette ad una messinscena con finte rivendicazioni terroristiche, da parte di BR e Prima Linea: e le indagini s’incagliarono. Per Mattarella, fu cassata la testimonianza della vedova, testimone oculare dell’assassinio, che aveva riconosciuto nel terrorista nero Giusva Fioravanti il killer del marito, e si seguì la pista debolissima di un piccolo appalto di mafia.
Mi è sempre sembrato strano che un Presidente della Regione potesse essere ucciso per un appalto relativo alla costruzione di sei scuole. Ma non c’è dubbio che si è sempre voluto trovare un movente mafioso per omicidi che potevano rispondere anche ad altre logiche. Anche per quanto riguarda il Generale dalla Chiesa, nominato Prefetto di Palermo. Se la mafia avesse voluto uccidere tutti i Prefetti di Palermo…

E il suo posto, lo prese Emanuele De Francesco, ex capo del Sisde. E Bruno Contrada è stato numero 3 del Sisde. E il Sisde compare più volte: persino nelle indagini su via D’Amelio.
I servizi segreti in questo Paese sono sempre stati determinanti. Il potere politico non si è mai mostrato capace di domarli. Fino al Caso Pollari. Prodi lo ha nominato al Consiglio di Stato.

Proprio come Vincenzo Parisi, ex capo della polizia al tempo delle stragi ed altro ex capo del Sisde. E la questione della collaborazione tra mafia e Stato? Ora s’indaga su una trattativa. Anzi: la trattativa.
Noi l’avevamo sfiorata, quella collaborazione. Ma gli strumenti a nostra disposizione erano quelli di una magistratura con poche armi, con una legislazione normale. Basti pensare alla tecnica delle intercettazioni, come si è evoluta. Noi ce li sognavamo, i tabulati e le localizzazioni GPS. E l’apparato giudiziario, aggiungo, era quel che era. Basti rileggere i diari di Rocco Chinnici. Falcone poi non aveva gran fiducia nel reato associativo, nel 416 bis: preferiva fosse riscontrato da reati specifici. Voleva fatti concreti. Erano certo tempi diversi, che impedivano di andare a fondo di determinate complicità tra mafia e pezzi dello Stato, a pena dell’interruzione di ogni collaborazione reale. Falcone ne era consapevole. Era molto difficile andare a fondo di determinati filoni d’indagine. Era un sistema – quello delle relazioni occulte – che funzionava perfettamente. Arrestare un uomo che fosse una tessera del mosaico, avrebbe significato trovarsi addosso l’intero sistema. Ricordo di un mio amico, un magistrato galantuomo che lavorava a Roma e indagava sul terrorismo neofascista: chiamava a deporre dei graduati delle varie forze dell’ordine e quelli, semplicemente, non si presentavano. Cosa devo fare, mi chiedeva?

Il sistema blindava i suoi uomini più esposti. Poi qualcosa è cambiato. È arrivato il ’92. Tangentopoli. Oliviero Tognoli – snodo importante del riciclaggio di denaro sporco, a Milano - era stato indagato anni prima, a Palermo. Dopo il fallito attentato dell’Addaura, Falcone dichiara: “(Non) sembra da trascurare il fatto che proprio i colleghi svizzeri (Carla del Ponte e Claudio Lehman, suoi ospiti all’Addaura e con lui bersagli dell’esplosivo, ndr) in quel periodo stavano occupandosi di indagini soprattutto finanziarie riguardanti notissimi esponenti della mafia siciliana. In quel procedimento, allora in corso in Svizzera, non tutto è chiaro circa i ruoli di Vito Roberto Palazzolo, Leonardo Greco, Salvatore Ammendolito e Oliviero Tognoli; né credo che soprattutto quest’ultimo abbia detto per intero la verità sui suoi collegamenti con la mafia siciliana su inquietanti vicende riguardanti la sua fuga da Palermo subito dopo l’emissione di un ordine di cattura nei suoi confronti (…)”.
Si scopre questo canale di riciclaggio: un canale unico, per tangenti e mafia. L'inchiesta Mani Pulite aveva dei legami con l’Isola. C’è Raul Gardini che d’improvviso compra Pizzo Sella, terreno di una delle più grandi speculazioni di quel tempo, a Palermo. E si suicida prima di dire quel che sa. S’era suicidato anche Michele Sindona. Il quale non era un uomo di mondo: era uno che aveva detto cose simili a quelle pronunciate da Gaspare Pisciotta prima del suo “suicidio” (ex braccio destro del bandito Salvatore Giuliano, ndr). Molte cose non verranno mai fuori. Nessuno ha interesse a farle venire fuori.

Dai nuovi processi sulle stragi potrebbe venir fuori la verità, finalmente?
Io ho fiducia di sì. Se all’interno di questo Procure si vuol cercare qualcosa di nuovo. Gli archivi non bastano. La frase “aprite gli archivi” non ha senso senza una diversa intelligenza degli eventi.

La conversazione finisce, e Giuseppe Di Lello mi suggerisce un libro. Un diario, che racconta del funzionamento di certi poteri. E capisco che la mafia è sempre la mafia, ma non ha più il monopolio della violenza. Il potere è altrove.

venerdì 29 giugno 2012

BALOTELLI E LA MAMMA

La più bella immagine, finora, di questi Europei. Più dei gol e delle esultanze; più delle acrobazie e delle pose scultoree. Per la tenerezza. Per il futuro. Per tutti noi.

giovedì 28 giugno 2012

GLI ANNI RUGGENTI DE L'ORA

Nell’anno di grazia 1900, anno di esposizioni universali e di grandi entusiasmi borghesi, il mondo girava ancora per il suo verso, nel proustiano ordine degli anni e dei mondi. C’erano ancora le avanguardie: poetiche, politiche, persino giornalistiche. A Palermo, il commendator Vincenzo Florio, armatore e imprenditore vinicolo a Marsala, per l’omonimo concorrente dell’inglesissimo Sherry, fondò un giornale che nel nome, inciso a caratteri floreali, liberty, aveva già un programma: L’Ora, come dire l’ora di muoversi, di cambiare tutto. In primisi, a dirigerlo, fu il calabrese Vincenzo Morello, inteso Rastignac, e in seguito venne anche l’aquilano Edoardo Scarfoglio, che maggior celebrità avrebbe acquisito alla guida del Mattino di Napoli. I primi vent’anni trascorsero sereni: Palermo era Capitale, nel Mediterraneo. Poi venne il fascismo che, dice Flaiano, “conviene agli italiani perché è nella loro natura e racchiude le loro aspirazioni, esalta i loro odi, rassicura la loro inferiorità”. Male però incolse al Regime mussoliniano e ai suoi podestà locali, che per censura prima spensero e poi riaccesero le rotative, affidando infine, per imprudenza, l’interruttore allo sportivissimo cronista Nino Sofia, che per sport, appunto, giocò alla fronda, al dissenso. Dopo la seconda grande guerra, la vedova dell’ultimo editore, Sebastiano Lo Verde, vendette la testata, il palazzo e le macchine ad una società guidata da Amerigo Terenzi, l’editore rosso, legato direttamente al Partito Comunista Italiano. E un giovane cronista politico del Paese, Vittorio Nisticò, fu nominato direttore. Un contratto ventennale, il suo. “Ai lettori, dunque, salute! Noi non intendiamo di fare o i maestri o le guide: ambiziosi da vecchi o da sediziosi, ma aspiriamo a diventare, modestamente e semplicemente, i segretari della pubblica opinione siciliana”. Citava il suo predecessore Rastignac, e un poco mentiva, Nisticò, nel suo corsivo programmatico, dettato al primo piano d’una grigia palazzina in purissimo stile casadelpopolo, addossata al cuore finanziario della Città, che per lapsus urbanistico sorgeva in piazzale Ungheria. Altro che segretari della pubblica opinione siciliana! I frequentatori di quella palazzina squadrata sposarono un sicilianismo eretico, quello dei Varvaro. Dal frondismo di destra si passò al frondismo di sinistra. Giacobini sarebbero stati, preti spretati per quegli ortodossi che al mattino si bagnavano nell’acqua della Moscova. Quando il mondo girava per il suo verso, coi comunisti e i fascisti e in mezzo la Democrazia Cristiana, ogni inchiesta pareva un eroico abbordaggio nei mari della malapolitica. Ogni titolo, era un trofeo, da strillare nei pirateschi vicoli di Palermo, una città che pareva la salgariana Maracaibo, fra i pescherecci ancorati al porto della Cala e i banchi di pesce e frutta al popolare mercato di Ballarò. Vittorio Nisticò ha raccontato il suo giornale in mille pagine, e nei due volumi, pubblicati da Sellerio, ci si perde e ritrova, ed è bene che il lettore abbandoni ogni pregiudizio, prima di avventurarsi nella lettura, e in quel labirinto che era Palermo mezzo secolo fa. Accadeva in Sicilia. Gli anni ruggenti dell’<> di Palermo. E’ il romanzo civile di un calabrese, Nisticò, che guardò giustamente alla Sicilia come al continente, e l’aria che ne assaporò fu sempre di mistero. Ed è come se, con tutto il rispetto, un vecchio corsaro avesse deciso di aprire il forziere, lasciando di stucco i poveri contemporanei con i frutti del suo cimento: pietre di mille colori e metalli preziosissimi. Il Vascello di Nisticò per vent’anni traversò quei sette mari, infestati di pesci lupara e pesci tritolo, e tra le ondate perse un nocchiero, come Mauro De Mauro, ucciso a Palermo dalla mafia, e qualche marinaio, Giovanni Spampinato, ammazzato a Ragusa, e Cosimo Cristina, freddato a Termini Imerese. Era già un tempo che annunciava il verso contrario, come nel ‘59 profetizzò Flaiano: “L’evo moderno è finito. Comincia il medio evo degli specialisti. L’arte è inutile, la poesia superata dagli avvenimenti. La musica è quella dei pianeti rotanti negli spazi, la filosofia finalmente si confonde nella fisica. Continuare il proprio lavoro per il progresso dell’umanità? Ah, questo è troppo!”. Meno intellettuali, i giornalisti, e anche meno pirati: più impiegati, semplicemente, negli uffici redazione. Dal forziere, Nisticò estrae i suoi ricordi, della volta che L’Ora in qualche modo propiziò il governo regionale di Silvio Milazzo, tutti insieme dal Msi al Pci, tutti tranne la Dc. Strana occasione, il menàge tra rossi e neri: un’alleanza talmente anomala che - arrischia Nisticò – fu forse benedetta da un pezzo di Vaticano (Papa Roncalli era stato appena eletto); una bomba che doveva esplodere a Piazza del Gesù e invece non riuscì, per uno scandalo forse orchestrato del Sifar, come suggerì anni dopo il generale De Lorenzo. Auspicava Nisticò che quel gesto inconsulto spianasse “la via per un cammino autonomo civile e rinnovatore della Sicilia” (24 ottobre 1958). Cinquecento giorni dopo, il miraggio di un governo regionale slegato dagli equilibri politici nazionali svanì. Da allora è stato rincorso mille volte. Racconta ancora Nisticò di quella volta che il primo capo dei capi di Cosa nostra, Lucianeddu Liggio, offeso da un titolo irriverente, stampò una bomba vera, 4 chili di tritolo sotto il portone di piazzetta Napoli. E la politica dei quartier generali, a sua volta offesa dal sostegno del giornale al milazzismo, si voltò a guardare dall’altro lato. Poi vennero i moti operai dell’8 luglio, al confronto dei quali i fatti di Genova e del G8 paiono palicu, stuzzicadenti. A Palermo costarono tre morti. L’Ora finì denunciato, d’iniziativa della Procura, per vilipendio del governo (di Tambroni). Vennero pure i dibattiti sul Gattopardo, con Sciascia e Rea, e quel Vittorini che niente aveva capito dell’opera del Principe. E la Targa Florio, e il processo a Danilo Dolci, e la caduta di Genco Russo, e lo scempio della Città dei Templi, e i ragazzi del ’68, e la strana morte di Enrico Mattei. Fu levatrice di cronisti, L’Ora, e custode di talenti. Angelo Arisco, Orazio Barrese, Letizia Battaglia (mastra di fotografia, che poi vinse il pulitzer della fotografia, il premio Eugene Smith), Roberto Baudo, Mino Bonsangue, Giacinto Borelli, Bruno Carbone, Nicola Cattedra, Felice Chilanti, Marcello Cimino, Roberto Ciuni, Aniello Coppola, Aldo Costa, Angela Fais, Mario Farinella, Etrio Fidora, Franco Foresta Martin, Giacomo Galante, Mario Genco (che a questa fatica di Nisticò ha collaborato), Mario Giordano, Tano Gullo, Salvo Licata, Gianni Lo Monaco, Alfonso Madeo, Kris Mancuso, Gabriello Montemagno, Gilberto Nanetti, Franco Nicastro, Gino Pallotta, Enzo Perrone, Giovanni e Tanino Rizzuto, Giulio Roberti, Giuliana Saladino, Alberto Scandone, Ebe Sesto, Marcello Sofia, Guido Valdini e Nicola Volpes. Fu pure palestra, e tanti si fecero le ossa, prima di andarsene in Italia. Antonio Calabrò, Giuseppe Cerasa, Francesco La Licata, Francesco Merlo, Sebastiano Messina, Giampiero Mughini, Sergio Sergi, Marcello Sorgi, Giuseppe Sottile, Alberto Stabile, Bianca Stancanelli. Marcello Sorgi, che firma l’introduzione ai 2 volumi, e oggi dirige La Stampa di Torino (forse a titolo di risarcimento per centomila emigranti Fiat), era il figlio dell’avvocato del giornale, Nino Sorgi, e il buio e il puzzo della tipografia li respirò da ragazzino. “E fui presto introdotto nel salone della rotativa: una specie di locomotiva stanca, ansimante, rumorosa, regolata con furia, a colpi di mazza, da una squadra affollata di operai, e protesa verso una enorme bocca sdentata dalla quale, incredibilmente, cominciavano a venir fuori copie nitidissime di giornale”. Mille furono poi gli intellettuali e i collaboratori del giornale. Critici d’arte e teatrali, fotografi, musicologi, registi, scrittori, sociologi. E tra di loro, Sebastiano Addamo, Vincenzo Consolo, Danilo Dolci, Beppe Fazio, Franco Grasso, Gioacchino Lanza Tomasi, Michele Perriera, padre Ennio Pintacuda (gesuita di gran razza, che difatti Cossiga voleva rispedire in Paraguay), Enzo Sellerio e Piero Violante. A partire dal 24 marzo del ’55, pure Leonardo Sciascia raccontò di libri e di zolfare, a caratteri di piombo. Nanà faceva a piedi quattro rampe di scale e arrivato nello stanzone si cavava dalla tasca della giacca un foglio ripiegato, e al capo cronista diceva né più né meno: “Non so se va bene, vedete voi”, che così, con poche e modestissime parole, ragionava il Maestro. Altri libri ci sono, altri due piccoli tesori di Sellerio, che raccontano di quegli anni ruggenti. Una biografia di Marcello Cimino (Vita e morte di un comunista soave), composta in lapislazzuli e turchesi da quell’artigiano finissimo che è Michele Perriera, tra i fondatori del Gruppo ‘63, e la riedizione di Terra di rapina, vecchio libro inchiesta di Giuliana Saladino, moglie di Cimino. Ne è passato di tempo. Nessuno si è indignato quando, alla fine del secolo scorso, correva il 1999, il Time scrisse che il boss Lucky Luciano, gran diplomatico dello sbarco alleato in Sicilia, era da considerarsi uno tra i cento “costruttori e titani” dell’economia mondiale del secolo, accanto a Ford, Disney, Gates e Rockfeller. Nessuno s’indignò, tranne appunto in questi 2 volumi Nisticò, titolare di una duecentina di querele, guadagnate sul campo da Direttore un poco frondista. E il Direttore dedica poche righe alla fine del giornale, nel ’92, quando la Nuova Editrice Meridionale, emanazione dei post comunisti del Pds, riuscì dove manco fascismo e mafia avevano potuto, ad astutare la candela accesa da don Vincenzo Florio. Forse, la ruggine si mangiò le rotative a saldo dell’antico vezzo di molti redattori di quel giornale: l’andar come salmoni, controcorrente.

KUFRA

Era un luogo di sfruttamento e di sofferenza, Kufra. Stazione di transito dei migranti che partivano dal cuore dell’Africa e attraverso la Libia cercavano di arrivare ai porti che conducevano alla Sicilia: al mare, a quel Mediterraneo che ha inghiottito migliaia di persone, negli ultimi anni. Poi, una sorta di campo profughi, simile ad un lager, secondo i racconti delle organizzazioni non governative. Avevo trasformato Kufra in Kenafra, nel mio romanzo “Questo è un uomo”. Avvicinandolo ad altri campi e ad altri tempi in cui la dignità dell’uomo era calpestata e derisa, per usare un’espressione antica: avvicinandolo ad Auschwitz Birkenau, a Bergen Belsen, a Treblinka. Avevo riletto Primo Levi, che nel 1987 - ben 42 anni dopo la liberazione da Auschwitz ad opera dei militari sovietici - si suicidò, non reggendo al dolore e alla colpa che s’ingenerò nei Salvati, in coloro che sopravvissero, a prezzo di indicibili sofferenze e di piccoli tradimenti: il pane negato all’affamato e il capo chino dinanzi al compagno che andava alle docce (sapemmo poi, affumicate di Zyklon B, un veleno micidiale a base di cianuro) e ai forni crematori. Con che animo leggo dunque, in una cronaca di giornale, che l’Italia ha ribadito con la Libia i termini di un accordo di respingimento in mare dei migranti e l’utilizzo di Kufra: di quel campo, per trattenere i migranti. Sono tempi difficili, me ne rendo conto: economicamente e socialmente. E so anche che l’Europa scarica il peso dell’emergenza migratoria in Africa sui Paesi cerniera, l’Italia innanzitutto; e che in Libia vi è un tentativo democratico, dopo la rivoluzione che ha liquidato Gheddafi ed il suo clan. Mi chiedo, tuttavia, se non vi fossero altre vie da percorrere: vie che non passassero per Kufra. I racconti dei migranti passati per quell’Oasi, dicono di dolore e di colpa: proprio come ad Auschwitz Birkenau. Di violenze e di stupri, perpetrati con il potere delle armi. Il nostro Paese, che ha conosciuto l’orrore della guerra e delle persecuzioni, non può dire: Non sapevo. Il mondo intero, quando si riseppe delle sofferenze nei lager, disse: Non sapevo. Ma sono passati 67 anni. Elie Wiesel giunse ad affermare che Dio doveva esser morto (come predetto da Nietzche), perché fosse concesso alla barbarie nazista di massacrare gli ebrei, il popolo prediletto da Dio. Racconta Moni Ovadia di un sopravvissuto che all’uscita da un campo di concentramento urlò ad un rabbino: “Il tuo Dio è morto”. E il rabbino: “Può darsi, è probabile, ma l’importante è che sia nato l’uomo”. Penso che ad addormentarsi, talvolta, siano la memoria e la pietà degli uomini. Ho letto anche una buona notizia. L’Unione Europea ha appena varato un piano strategico per combattere la schiavitù e il trafficking: il traffico di esseri umani. Milioni di persone: 21, secondo l’Organizzazione In-ternazionale del Lavoro (e un quarto di essi, minorenni); vittime di lavoro forzato, di stu-pri, di accattonaggio organizzato. Alcune misure dovranno essere adottate nei prossimi anni. Cinque le priorità: prevenzione, identificazione, protezione e supporto delle vittime, attività repressive. Ogni Paese avrà i suoi compiti, e dovrà collaborare con gli altri Paesi europei: un milione e mezzo di quei 21, infatti, risiedono nei Paesi sviluppati, e dunque anche in Europa. Kufra, però, resta: e sarà utilizzato da Italia e Libia per il respingimento dei migranti. A nessuno sarebbe venuto in mente, dopo il 27 gennaio del ’45, data della liberazione di Auschwitz ad opera dei militari sovietici, di riutilizzare quel campo: se non a fini di memoria. Mi chiedo se non si possa, se non si debba, rimediare.

UOMINI DI LAMPEDUSA

Lavoro in Sicilia, e mi è capitato spesso di raccontare storie di migrazioni. Ricordo la storia della Cap Anamur, nel 2004: una nave tedesca che raccoglieva nel Mediterraneo i sopravvissuti alle navi negriere e ai gommoni in avaria. Il comandante - che aveva salvato 37 sudanesi, poi espulsi -, fu arrestato al suo arrivo a Porto Empedocle. Ricordo di aver visitato la nave e le sue stive bene ordinate, fuori delle acque territoriali. Avevo sorvolato la Cap Anamur con un elicottero, alla notizia dell’Sos lanciato per ottenere ospitalità in un porto siciliano; poi, ero arrivato a bordo con un gommone non so più se di Emergency o di Medecins sans frontieres. Ricordo la mia amarezza. Quando hai finito le interviste e l’operatore ha terminato di girare le altre immagini che serviranno a montare il servizio – totali, particolari, dettagli -, stringi le mani, saluti e, con un po’ d’imbarazzo, vai via. Non hai scuse, e lo sai. Quegli uomini hanno detto delle cose al mondo, e non a te; vorrebbero che quelle frasi arrivassero a casa loro, con i loro volti, per le madri, i fratelli, gli amici. Tu non puoi assicurargli niente: solo un minuto e mezzo di buona volontà, ad ora di pranzo, o di cena. Quando incontro qualcuno con una storia dolorosa – come può esserlo una fuga dal Sudan, dal Ciad, dalla Costa d’Avorio, dalla Somalia, dall’Eritrea – so già che lo deluderò. Nel 2011, le storie da raccontare sulle migrazioni sono state molte, e io le ho apprese dalle agenzie di stampa, o dai post di pochi ostinati sui social network. Le storie su Lampedusa riguardavano mancati approdi e rivolte. Non vado più tanto in giro, oramai: raramente, mi allontano da Palermo. Uso il telefono e il computer, per il mio lavoro giornalistico. Al mattino, all’alba, fuori è ancora buio, sei al lavoro e scavi con la tastiera nella rete. A volte, trovi la notizia di un avvistamento. Vai testardamente in cerca di conferme o di smentite. Di dettagli. Dieci, cinquanta, cento persone disperse, in un punto radar in mezzo al mare. Hanno lanciato un Sos. Poi, più nulla. I naufraghi partono dai porti libici dopo un’odissea attraverso il deserto e i campi profughi: luoghi di violenze indicibili. E dopo lunghe settimane, mesi d’attesa, s’imbarcano e si perdono in mare. A volte, li ritrovano, li soccorrono: gli italiani, e qualche volta anche i maltesi. Fanno la conta dei vivi e dei morti. Di fronte, si trovano dei sopravvissuti. La differenza tra italiani e maltesi non è da poco. A volte gli italiani li trattengono, quei sopravvissuti, se hanno diritto a chiedere asilo. Dovrebbero esser liberi, nei centri nei quali attendono per mesi il pronunciamento della commissione incaricata di valutare le loro richieste, ma di frequente restano chiusi a doppia mandata, come nei campi d’identificazione e di espulsione. Fatto sta che nel 2011, complici le rivoluzioni del Maghreb e la pressione decisa sull’Italia traditrice dal clan Gheddafi, a Lampedusa sono arrivati in cinquantamila. Non eravamo preparati. Quel che è successo dopo, lo testimonia. A febbraio, in pochi giorni, erano sbarcati in quattromila. Il Centro di prima accoglienza, chiuso per eccesso d’ottimismo, era stato riaperto in tutta fretta. Gli sbarchi sembravano non fermarsi mai. Il 20 settembre, il Centro ospitava 1200 tunisini esasperati. D’improvviso, i più violenti hanno appiccato il fuoco in diversi punti dell’edificio, usando i materassi. Il fumo si è levato altissimo. Nero. E dal Centro, quel fumo aspro e irrespirabile è finito in Paese. La gente scappava. I migranti e i lampedusani. Le prime immagini sapevano di tragedia. All’indomani, nuova rivolta, nello stadio comunale, vicino al porto, utilizzato - dopo la devastazione del Centro - per un centinaio di tunisini. Alcuni migranti hanno minacciato di far esplodere delle bombole di gas. La polizia è intervenuta in assetto antisommossa, a suon di cariche e manganelli. Poi, anche i lampedusani si sono rivoltati: lanciando delle pietre, urlando. E si è temuto che alla violenza degli uni, dei tunisini, seguisse la violenza incontenibile degli altri, degli isolani. Chi avrebbe potuto frenarla, quella moltiplicazione di infelicità? I poliziotti, forse? No, troppo pochi, con turni massacranti e disagi insopportabili. E’ finita che Lampedusa è stata svuotata con le navi: normali navi turistiche, accuratamente devastate da chi era stato spinto nelle grandi sale, con pochi bagni sporchi per migliaia di persone alla volta. Lampedusa è un’isola generosa, e ha perso una stagione turistica. Berlusconi ha promesso fondi e leggi speciali. Secondo Save the Children, nel 2011 sono arrivati a Lampedusa 2.737 minorenni: 2.599 da soli, senza famigliari. Un migliaio di loro ha fatto la trafila dalle strutture di assistenza fino alle case alloggio. In centosei sono fuggiti (metà da Calabria e Campania, metà dalla Sicilia), e non se ne sa più nulla. Nel 2009, ho scritto un romanzo per dire della tragedia di chi parte da villaggi poverissimi e muore lungo la strada del sogno. Ho letto, per immedesimarmi e vivere quella fuga senza luce, i reportage di Fabrizio Gatti, i dossier delle ONG pubblicati su Internet e, infine, ho riletto i libri di Primo Levi. Ho chiamato il mio romanzo “Questo è un uomo”. In questa, che è forse la più grande migrazione della storia umana, i morti sono tanti. Oltre diciottomila, quelli censiti dal 1988. Come i morti di Portopalo di Capo Passero. E gli altri? E i morti lungo la strada, nel deserto africano? Uccisi dalla fame, dai predoni. E i morti nei campi di detenzione? E gli altri morti in mare? Di quanti altri non si è mai saputo nulla? Il 17 gennaio del 2012, Fortress Europe, un blog straordinario sui migranti, ha raccontato di 55 dispersi libici sulla rotta per Lampedusa. Quando cammino per strada, penso che quelli che vedo – volti neri o nerissimi, dai tratti scavati o più sottili, di una parte o di un’altra dell’Africa – sono in realtà solo dei sopravvissuti, e si portano dietro immagini e ricordi di morte.

PIO LA TORRE E GLI ALTRI

Qual è il nesso tra molti delitti politico mafiosi siciliani? Ad esser colpiti, son stati degli uomini che avevano “capito”, e che avrebbero potuto scardinare il “Sistema” di alleanze tra la mafia ed altri poteri abituati ad agire nell’ombra a difesa di colossali interessi: economici e geopolitici. Pio La Torre fu ucciso, insieme alla sua guardia del corpo, Rosario Di Salvo, il 30 aprile dell’82: crivellato di colpi da un commando mafioso: oramai, questa è verità giudiziaria, così come il fatto che fu la Cupola ad ordinare quell’omicidio. Ma la domanda, ovvia, è se la mafia abbia agito da sola o per conto terzi (e se, meno ovviamente, questa sua caratteristica, l’agire per conto terzi, non sia la condizione essenziale del suo agire). La Torre aveva conosciuto la mafia: veniva da una borgata di Palermo; giovanissimo aveva aderito al Pci, organizzando i braccianti per occupare le terre incolte, e attirandosi le minacce, non troppo velate, del capomafia della zona (il papà di quel Leonardo Vitale, il primo pentito di mafia in Italia, che molti anni dopo avrebbe raccontato Cosa Nostra dal di dentro); era stato in Commissione Antimafia per tre legislature, insieme a Cesare Terranova, ucciso nel ’79, ed aveva scritto una proposta di legge per colpire al cuore Cosa Nostra, introducendo il reato di associazione di stampo mafioso e, sempre sul modello americano, consentendo l’aggressione ai capitali mafiosi. Ma, fate attenzione, La Torre era stato anche quell’alto dirigente comunista che, in una fase cruciale della storia siciliana, aveva scelto di lasciare gli incarichi nazionali di partito e di tornare nella sua Isola, da segretario regionale del Pci. Nel 1981, aveva dato il via alla costruzione del più esteso movimento pacifista d’Europa: schierato, unitariamente con cattolici e ambientalisti, contro l’installazione dei missili Cruise a Comiso. Contro la morte nucleare, La Torre aveva portato in piazza centinaia di migliaia di persone: costituiva, per gli Stati Uniti, un pericolo reale, immediato. Raccontò, per questo, d’esser pedinato da uomini dei servizi segreti. Intuì, attraverso la lettura di documenti riservati, e con l’aiuto di alcuni esperti consultati in segreto, la presenza in Sicilia di una rete segretissima legata alla Nato. E si trattava, naturalmente, di Gladio (o Stay Behind). Cosa unisce, quindi, tanti omicidi e tante stragi: di giornalisti, politici, magistrati? La risposta è semplice (pure se non dimostra che quel nesso sia la causa della loro morte). Il colore nero. Il nero delle alleanze oscure: con servizi segreti italiani e stranieri. Il nero dei neofascisti. Il nero dell’eversione armata. A capire, erano stati per primi i giornalisti, sin dal ’70. Mauro De Mauro e Giovanni Spampinato s’erano imbattuti, in modi diversi, in quel colore nero (De Mauro in Junio Valerio Borghese e nel Golpe che preparava; Spampinato nei neofascisti che allora affollavano Ragusa: Delle Chiaie, fra gli altri), così come Peppino Impastato e Mauro Rostagno: Impastato aveva messo il naso nella strage di Alcamo del ’76 (dove il nero abbonda e ricopre ogni cosa, persino la verità giudiziaria), e Rostagno s’era spinto oltre, fino ai traffici d’armi con la Somalia. Poi, capirono i magistrati. Pietro Scaglione, procuratore della Repubblica, indagava sulla morte di De Mauro. Venne ucciso nel ’71, e subito scattò una campagna di diffamazione che impedì per decenni di far luce sulla sua morte. Vittorio Occorsio fu ucciso a Genova da un neofascista palermitano, Pierluigi Concutelli, killer a conoscenza dei segreti dell’alleanza nero mafiosa siciliana. Gaetano Costa fu il testardo indagatore dei misfatti di Rosario Spatola, legato all’”americano” Michele Sindona. Giangiacomo Ciaccio Montalto e Carlo Palermo finirono nel mirino per aver scoperchiato, a Trapani, il calderone dei traffici d’armi e droga: Palermo si salvò ma lasciò la magistratura. Rocco Chinnici, nel suo diario segreto, scrisse dell’omicidio Mattarella, di De Mauro e della presenza di Sindona in Sicilia: dinamite. E poi, le stragi del ’92, per eliminare Falcone e Borsellino e sovvertire la storia d’Italia: storia che è ancora da scrivere. Ma in via D’Amelio le ombre, il nero, s’infittiscono. E infine, i politici. Michele Reina venne ucciso all’indomani di un accordo tra la sua Dc e il Pci (quasi esattamente un anno dopo il rapimento a scopo di omicidio di Aldo Moro: autore, dunque, dello stesso imperdonabile “errore” politico; e la sua morte, con un primo depistaggio, venne imputata alle Brigate Rosse). Piersanti Mattarella, il 6 gennaio del 1980, infranse, per la terza volta, quella regola vigente dal dopoguerra: mai il Pci nel governo; e la moglie di Mattarella riconobbe nell’assassino il volto di un terrorista nero, quello di Giusva Fioravanti, ma non venne creduta. Poi, La Torre. E infine, l’ex sindaco Dc Giuseppe Insalaco (che alcune inchieste ipotizzarono vicino ai servizi segreti e a Gladio). Questa è solo una parte della storia: bisognerebbe raccontare della morte di poliziotti, carabinieri; del Generale dalla Chiesa. Tout se tient, come si dice. Ci sarebbe molto da rileggere: ad esempio, il rapporto di quel vice questore siciliano, Giuseppe Peri, su mafia, neofascismo, sequestri e attentati. I libri sono importanti. Dicono quasi tutto. Leggete i due volumi su La Torre di Sorrentino e Mondani, per Castelvecchi, e di Vasile e Lo Monaco, per Flaccovio. Poi, provate a mettere insieme le tessere del mosaico. Ne vien fuori la Sicilia nel ventesimo secolo. E forse, l’Italia.

QUELLI DI COMISO

Avrei voluto scrivere di tutto, stavolta. Del ragazzo di Acireale che ha denunciato per stupro un sacerdote e dei sacerdoti che ho conosciuto: umanissimi, santi o peccatori: del missionario in Kenya, smagrito dalla fede e dalla fame, del parroco ucciso a Palermo, e dell’insegnante che nel 1978, all’indomani di un omicidio, chiese alla mia classe di implorare il Paradiso: non per Aldo Moro e la sua scorta bensì per un capomafia, definito “brava persona”. O della tesi di laurea su Angelo Russo, il primo interprete del Catarella di Montalbano, mezzo secolo dopo la “Fenomenologia di Mike Bongiorno” azzardata da Umberto Eco: del reciproco intrecciarsi del genio di Russo e di Camilleri. Avrei voluto scrivere dei rifiuti che soffocano Palermo e della Palermo dei politicanti. Scrivo invece di un giovane professore tedesco, di un nonviolento sardo e della scoperta del naturismo, trent’anni fa, a Comiso. Un anno fa, era l’11 febbraio, Jochen Lorentzen stava facendo jogging, quando si è accasciato per terra ed è morto. Era a Pisa, per una conferenza. Nell’estate dell’83, Jochen era a Comiso, per l’International Meeting against Cruises. Migliaia di ragazzi in un campo pacifista: da tutta Europa e dagli Stati Uniti, contro i missili nucleari, i Cruises, schierati in un vecchio aeroporto, contro l’Urss o, secondo alcuni, contro quel matto di Gheddafi. Jochen era il mito di noi ragazzini: in prima fila, nei cortei, a proteggere i più giovani, a isolare i pochi violenti, a mediare con la polizia. Non ho più saputo nulla di lui. Fino alla notizia della morte. Docente a Copenhagen, a Cape Town, Jochen studiava le innovazioni e i modelli di apprendimento nei paesi emergenti: fedele a se stesso, come riesce a pochi. Ad Enrico Euli, per esempio: psicologo, studioso delle relazioni interculturali, dell’ecologia e della non violenza. Al mattino presto, ci svegliava una voce non so più se inglese o tedesca: “Sono le quattro e mezza, è ora di svegliarsi”. Così, di continuo, ossessivamente. Era ancora buio. Sotto una tettoia, accosciato come un bonzo, Enrico svolgeva le sue quotidiane lezioni di resistenza non violenta. Ci sarebbero servite, diceva, in caso di cariche della polizia, dinanzi ai cancelli dell’aeroporto. Quando le cariche arrivarono, Oscar Luigi Scalfaro era stato appena nominato Ministro dell’Interno del governo Craxi: noi provammo per un poco a resistere ai manganelli e al resto, poi ci alzammo e ce la demmo a gambe. Io persi le scarpe. Altri gli occhiali, o le ossa. Furono picchiati anche dei parlamentari. Comiso era il centro della Sicilia, e in quel cuore antico, c’erano anche Modica, Ragusa e Vittoria, con le loro storie di terre e di contadini mai vessati da feudi e feudatari, con le serre e le cooperative: c’era un’isola nell’Isola: ricca e senza mafia. E proprio lì, sarebbero arrivati i missili, la morte cieca di Hiroshima e Nagasaki. Forse per questo era morto Pio La Torre. A Comiso, nel nostro campo, in molti facevano la doccia nudi. Ragazzi e ragazze. Un giorno, vennero due dirigenti della mia organizzazione giovanile. Mai stati all’Imac, prima. Presero due sedie e sedettero dinanzi alle docce. Come in un locale porno. Provai un brivido di vergogna, per la prima volta. E capii che il naturismo era non provarne. Trent’anni sono tanti. Ma quando ho letto di altre proteste, e di violenze tra i No Tav, ho pensato ad un comizio in piazza Fonte Diana, a Comiso, dopo l’ennesima carica. Un oratore, piuttosto famoso, diceva: “La prossima volta, gli idranti innaffieranno le piante della pace”. Lo interruppe qualcuno, tra i presenti, ancora bagnato. Un insulto secco. Quattro lettere. Grandi risate. Accadde un miracolo, trent’anni fa in Sicilia. Vennero in tanti e parlarono tra di loro. Fecero la pace.

CONVERSAZIONE CON ANTONIO INGROIA

Milioni di articoli, inchieste, libri. Giornalismo, sociologia, letteratura. Scrivere di mafia significa aggiungere carta a carta. Di tanto in tanto, dopo aver nuotato in quest'oceano, dopo aver perso la rotta tra nomi, morti e processi, il dolore e la nausea inducono a giurare: mai più. Serve un po' di tempo per tornare a rendersi conto che i mafiosi vivono senza fatica in quegli scenari che per noi divengono archivi e aule processuali, e restano invece vita reale: nel tempo della nostra disillusione (ad un capo ne succede un altro, ad un sodale un altro, ad un tesoro un altro), i mafiosi trovano nuovi alleati, e minacciano la nostra libertà. Capire è necessario, ci diciamo allora. E ricominciamo, per atto di responsabilità civile e intellettuale. Con l'aiuto di chi conosce i fatti. Antonio Ingroia, procuratore aggiunto a Palermo, ha cominciato il suo lavoro nel 1987, nel pool antimafia di Falcone e Borsellino, smantellato - dopo la guida eroica di Antonino Caponnetto - per vicende troppo lunghe e dolorose da raccontare. Al tempo delle stragi, nel '92, aveva solo 33 anni. Si è occupato di numerose inchieste. Di processi, da pm, ne ha vinti e persi. Vorrei trattare, in questa conversazione, anzitutto il tema del cambiamento della mafia da organizzazione a sistema. Formulo quest'ipotesi per tre ordini di ragioni: il ricorso di Cosa Nostra ad elementi esterni; la forte competizione criminale; la reazione istituzionale e civile. Per il resto, solo accennare, per brevità, ad alcune questioni cardine. Alla luce della sua esperienza, e delle risultanze delle più recenti inchieste, ritiene anche lei che la mafia per sopravvivere possa rinunciare ad alcune delle sue caratteristiche essenziali e mutare da organizzazione chiusa ed impermeabile a sistema? Un sistema aperto ai non affiliati, e disponibile ad inglobare organizzazioni criminali più piccole o ad allearsi con altre organizzazioni. Sono d'accordo con lei. La mafia siciliana è in una fase di riorganizzazione, in parte frutto di scelta autonoma, in parte necessitata dalla situazione. Da un lato, i duri colpi repressivi subìti ne hanno indebolito il controllo militare del territorio, e il progresso della coscienza civile ne ha minato l'ampio e spontaneo consenso popolare di cui prima godeva; dall'altro, il processo di finanziarizzazione delle proprie attività, dentro il fenomeno della globalizzazione, ha imposto ai suoi capi un adeguamento di organizzazione e strategie operative. Il risultato è che oggi l'organizzazione è meno chiusa, meno gerarchica, meno "verticale": niente capo dei capi, niente cupola, niente guerra allo Stato e così via. Molti colletti bianchi vengono inglobati nella struttura del "sistema criminale integrato" che fa blocco comune con le altre componenti che prima agivano da complici esterni, e con le altre mafie con le quali gestisce traffici illeciti. Nel contempo, è in corso anche un processo di deterritorializzazione: la mafia è meno forte e meno presente militarmente sul territorio siciliano, ed è molto più presente altrove, specialmente nelle regioni più ricche del Nord Italia. Il che, ovviamente, non significa che Cosa Nostra possa rinunciare a quel radicamento sul territorio che costituisce il suo DNA. Si tratta solo di un radicamento più diluito. C'è ancora un consenso di massa a Cosa Nostra? Ed esiste ancora un vertice unitario e collegiale di Cosa Nostra? Causa ed effetto di tutto ciò che abbiamo detto, sono un minore consenso culturale di massa a Cosa Nostra e un maggior consenso di convenienza da parte di chi trae profitto dalle proprie relazioni col sistema criminale; sistema che nel frattempo non ha più un vertice unico, strategico e gerarchico. Cosa Nostra, in particolare, in questo momento non ha un vero "capo dei capi" sul modello dei capi corleonesi, e neppure una cupola, ma organismi per la composizione dei conflitti: una sorta di "direttorio consultivo" dove incontrarsi per comporre le controversie sul territorio fra famiglie che operano su territori vicini. Cosa Nostra era governativa in un sistema politico bloccato. È ancora così? O la mafia ė divenuta meno selettiva, ideologicamente parlando, e più pragmatica? La mafia non è stata mai "governativa" per ragioni ideologiche, ma solo per interesse. Perché trae benefici dalla sua relazione col potere politico che governa ed amministra. Era quindi "anticomunista" e "antifascista" non per ragioni ideologiche, ma perché stava coi gruppi politici al governo e contro i partiti di opposizione. Infatti, era contro i socialisti quando i socialisti erano partito di opposizione, sostenne il P.S.I. quando il PSI divenne partito governativo di spicco. A maggior ragione, oggi, la mafia sceglie secondo convenienza. Chiunque sia dentro le stanze del potere, e che ci stia. È ancora efficace lo strumento della collaborazione con la giustizia dei mafiosi pentiti? Un suicidio e un tentativo di suicidio, parlo di due casi recentissimi, indicano un disagio. A che cosa si deve? Ovvio che i collaboratori di giustizia servono sempre contro un'organizzazione segreta come Cosa Nostra, ma questa è una fase difficile. Il grande isterilimento del fenomeno è dovuto principalmente a due fattori: agli effetti della legge sui collaboratori, entrata in vigore dieci anni fa e ispirata da una pregiudiziale diffidenza nei confronti dei pentiti, ma anche alla grave restrizione dei fondi stanziati per la sicurezza che si ripercuote sull'efficienza del servizio di protezione dei collaboratori. Una miscela che ha provocato una situazione di crescente disagio nel mondo dei pentiti, che si somma a quello - fisiologico - che si determina nel repentino cambio di vita del mafioso che inizia a collaborare con lo Stato, col risultato che alcuni dei pentiti hanno rinunciato a collaborare ed altri sono arrivati addirittura al suicidio. La lotta alla mafia si conduce giudiziariamente e socialmente, e non di rado i due piani si sovrappongono: si può affermare che l'isolamento dei mafiosi possa dover comportare un affievolimento di alcune libertà civili? La segretezza della corrispondenza e dei conti bancari, ad esempio. Così come accadde ieri con la lotta al terrorismo interno e accade oggi con la lotta al terrorismo esterno. Certo che la lotta alla mafia determina sacrifici, e occorre una società disposti a pagarli, anche in termini di rinuncia al massimo di estensione di alcuni diritti, come quello alla privacy (in materia di intercettazione e di controlli di corrispondenza e segreto bancario) o alla libertà personale (con l'inasprimento di regime carcerario e di custodia cautelare per i fatti di mafia). E non sempre la nostra società è disposta a pagarne il prezzo. Se dovesse tracciare un bilancio di questi ultimi anni, cosa metterebbe al passivo? Quali errori sono stati commessi e si potevano evitare? Il primo fondamentale errore sta nell'aver delegato il compito di contrastare la mafia alla sola magistratura con le forze dell'ordine. Comodo alibi per molti, che la magistratura non ha saputo ben respingere: in qualche caso, anzi, facendosene carico. Altro errore, l'aver puntato tutto sulla repressione della mafia militare senza valorizzare adeguatamente il contrasto alla mafia finanziaria ed alla mafia politica. E ancora: il liquidare, per anni, il problema mafia come legato alla questione meridionale, senza considerare adeguatamente i rischi per il Nord Italia. E infine, non aver, complessivamente, il nostro Paese, compreso quanto la lotta alla mafia convenga molto più di quella convivenza, con la mafia, che è ancora l'atteggiamento prevalente. E il principale risultato positivo? L'avere intaccato il mito dell'impunità della mafia e dei suoi complici, ed il suo controllo totalizzante sul territorio, sottraendo alla mafia quell'ampio e spontaneo consenso di massa di cui prima godeva nelle regioni del meridione d'Italia. Se dovesse abbandonare la magistratura per la politica, come proporrebbe di riformare la normativa antimafia e il funzionamento del sistema della giustizia? Con riferimento al contraddittorio tra le parti durante le indagini e nel processo, intendo. Abbandonare la magistratura per la politica? Al momento non ci penso nemmeno! Però, se dovessi dare dei suggerimenti, anche da magistrato, direi: 1) accorciare i tempi del processo: consentendo maggiori ingressi nel processo a prove scritte, ed evitando le lungaggini del ripetere verbalmente ciò che è già scritto, ad esempio, nelle informative di polizia; 2) abolire il secondo grado di giudizio, l'appello, e per tutte le sentenze di primo grado, siano esse di assoluzione o di condanna. Ieri la mafia poteva far cadere un governo o influenzare con un attentato l'elezione di un Presidente della Repubblica, e non faccio degli esempi a caso. Oggi potrebbe influenzare le borse internazionali. Ieri varammo dei reati a sanzionare la contiguità politica. E la contiguità finanziaria? Servono strumenti nuovi? Cosa fare contro la mafia finanziaria? Innanzitutto, punire, al pari di tutti Paesi a democrazia avanzata, l'autoriciclaggio: oggi è impossibile condannare un mafioso che ricicla da sé il proprio denaro illecito. E poi, recepire in Italia la direttiva comunitaria che impone ad ogni Paese dell'UE di eseguire sul proprio territorio provvedimenti di confisca definitiva emessi in altro Paese: a causa del mancato recepimento in Italia di questa direttiva, altri Paesi membri, in base al principio di reciprocità, hanno negato la possibilità di eseguire confische definitive nei confronti della criminalità organizzata italiana. Più in generale, occorre introdurre un testo unico antiriciclaggio che contenga un aggiornamento ed un adeguamento di tutta la normativa in materia. Un'ultima questione. Secondo le ultime risultanze investigative, alcun processi - per le stragi del '92 - sarebbero da riscrivere, e nel fallito attentato dell'Addaura dell'89 contro Falcone e due giudici svizzeri, vi sarebbero gravi responsabilità istituzionali. Ci sono state delle deviazioni, si dice. Come è stato possibile arrivare a questo punto? A sentenze definitive rivelatesi fallaci, intendo, e a nessuna verità sull'Addaura. A proposito di stragi e Addaura (e non solo...): quel che sembra di percepire è che troppo spesso la verità è difficile da conquistare e che per farlo occorre un Paese intero che la voglia, e che si batta per averla a tutti i costi, quella verità. A volte, la mia sensazione è che prevalga la voglia di non averla, quella verità.

PUBBLICHE SCUSE

Chiedo scusa per la lunga assenza. Cercherò di farmi perdonare. Pubblico i testi finora non inseriti.

sabato 22 ottobre 2011

UN HOMO NOVUS PER PALERMO

Servirebbe un homo novus: uno che non sia passato per il vaglio largo della politica e per il vaglio stretto dei politicanti; uno che abbia vissuto davvero, senza negarsi al mondo; uno di quelli che la città la conosca e le voglia bene; uno che abbia delle idee e non contrabbandi per nuovi dei vecchi slogan; uno che sappia vedere nel futuro e non sia appesantito dal passato; uno che ragioni di persone e interessi e che non deliri di vecchie insignificanti alleanze; uno che voglia ricostruire Palermo e non precipitarla più in basso di come si trova. Il resto è dibattito.

domenica 18 settembre 2011

UNIVERSAL PALERMO

In questi giorni, Palermo è scossa da un dibattito su un romanzo che la racconti in modo universale. Esistono idee diverse, al riguardo. Io sento un certo afrore: di inchiostro moscovita, o newyorkese. Non so. Vaghi ricordi. Perciò, mi spiego a modo mio. Con la traccia di un romanzo universale.

Soggetto.

Due gemelli di 14 anni, nati alla periferia di Palermo e universalmente appassionati di Spinoza e letteratura afroamericana, vengono scippati lungo la strada per la scuola: frequentano un alberghiero a indirizzo macrobiotico. Per ottenere la restituzione degli zaini, si rivolgono ad un boss condominiale e pagano un pizzo universale in lezioni private. Divenuti adulti, leader di una potente banca d'affari olandese, comprano il loro quartiere, lo spianano e ne fanno un campo da golf miliardario. Il figlio del boss viene assunto come raccattapalle. Il significato è universale e la mafia viene finalmente sprovincializzata. Titolo possibile: Due palle (da golf).

sabato 18 giugno 2011

IL FABBRO

Palazzo delle Tuileries, verso il 10 agosto 1792

Il braccio su un enorme martello, tremendo
d'ebbrezza e d'imponenza, vasta la fronte, ridente
come una tromba di bronzo, con tutta la sua bocca,
spogliando il grassone con sguardo feroce
il fabbro parlava a Luigi Sedici, un giorno
che il popolo era lì, a stringersi intorno
mentre sui fregi dorati spandeva le sporche vesti.
Ora il buon Re, ritto sul suo ventre, era pallido,
pallido come un vinto trascinato alla forca,
e sottomesso come un cane non si ribellava
perché il fabbro marrano dalle enormi spalle
gli diceva parole antiche, cose assai strambe,
da agguantarlo dritto in fronte, così!

«Tu lo sai bene, Signor mio, cantavamo tra la la
e spingevamo i buoi attraverso gli altrui solchi:
il canonico al sole sgranava padrenostri
su rosari brillanti guarniti di monete d'oro.
Il Signore a cavallo passava, al suono del corno,
ed uno con la corda, l'altro col nerbo
ci sferzavano - Ebeti come occhi di vacca
i nostri occhi non davano più lacrime: così tiravamo
avanti, e quando avevamo arato tutto il paese
quando avevamo lasciato in questa nera terra
un po' delle nostre carni... eccola la ricompensa:
incendiavano le nostre topaie di notte, facevano
dei nostri piccoli un dolce assai ben cotto.

... «Oh, non mi compiango. T'ho detto le mie fandonie,
che restino fra noi. Puoi anche contraddirmi.
Non è forse una gioia vedere, al mese di Giugno
nei granai entrare dei carri di fieno
così grandi? Sentire l'odore di ciò che cresce
nell'orto, quando piove, dall'erba rossastra?
Vedere le biade, le biade e le spighe colme di grano
e capire che ci porteranno tanto pane?
Oh, di più gran lena andremmo al forno che s'infuoca
cantando con gioia e battendo l'incudine,
se fossimo certi di poterne avere un po'
- siamo uomini, in fondo - di quei doni di Dio!
- Ma ecco, è sempre la solita vecchia storia!

«Lo so a memoria! Non posso più crederci,
quando ho due buone mani, una fronte ed un martello
che un uomo venga, con la daga sul mantello,
a dirmi: ragazzo mio, semina la mia terra;
e che ancora verrà, se ci sarà la guerra
a prendere via mio figlio dalla mia casa!
- Io sarei un uomo e tu, tu saresti Re,
tu mi diresti: «Voglio!», vedi, è da sciocchi,
credi che io ammiri la tua splendida baracca,
i tuoi ufficiali dorati, i mille tuoi furfanti,
i tuoi accidenti di bastardi, che starnazzano come pavoni?
Hanno riempito il tuo nido dell'odore di nostre figlie
e biglietti per rinchiuderci in Bastiglie,
gli diremo: sta bene: i poveri in ginocchio!
Indoreremo il Louvre con le nostre elemosine!
E tu ti ubriacherai, darai una grande festa
- e questi signori se la spasseranno, seduti sulla nostra testa!

«No. Queste schifezze sono più vecchie dei nostri padri!
Oh! Un popolo non è più una puttana. Tre passi
e abbiamo ridotto la Bastiglia in polvere.
La bestia trasudava sangue da ogni pietra,
era raccapricciante la Bastiglia in piedi
con le sue mura lebbrose che ci dicevano tutto
mentre ci abbracciava rinchiusi nella sua ombra!
- Cittadini, oh cittadini! Era l'oscuro passato
che in rantoli rovinava, quando prendemmo la torre!
Nel cuore c'era qualcosa di simile all'amore,
avevamo stretti al petto i nostri figli.
E come cavalli, sbuffando dalle nari
andammo, fieri e forti, e il petto palpitava...
marciavamo nel sole, a fronte alta - così -
dentro Parigi! Tutti si facevano attorno ai nostri stracci
alfine ci sentivamo uomini! Pallidi,
Sire, ed ebbri di terribili speranze:
e quando fummo là, di fronte alle nere torri
agitammo le trombe e i nostri allori,
le picche in mano, non c'era odio in noi,
ci sentivamo così forti, che volevamo esser dolci!

«E da quel giorno siamo come folli!
Montagne d'operai per le strade,
e questi maledetti vanno, folla sempre più grande,
come oscuri fantasmi, alle porte dei ricchi.
Con loro io corro ad accoppar le spie:
e vado per Parigi, nero il mantello in spalla
e feroce, spazzando da ogni angolo i sospetti,
e se mi riderai in faccia, t'ammazzerò!
- Poi, ci puoi contare, sarai nei guai
tu e i tuoi uomini neri, che prendono le nostre richieste
per rimpallarle come con le racchette,
E, basso basso, i furbacchioni si dicono: «Che minchioni!»
per cucinare leggi, e in vasetti etichettati,
pieni di graziosi decreti rosa e spezie,
si divertiranno ad appiopparci tasse
per poi turarsi il naso quando gli siamo accanto,
- i nostri dolci tribuni ci trovano luridi! -
per non temere nulla, fuorché le baionette...,
e va bene. Basta con le loro meschine balle!
Ne abbiamo abbastanza di quei piatti cervelli
di quei gaglioffi! Ah, son dunque questi i piatti
che ci servi, borghese, quando siamo inferociti
quando già abbiamo infranto gli scettri e le croci!...»

Lo prende per un braccio strappa i velluti
delle tende, e gli addita giù il grande viale
dove formicola e cresce la folla,
la folla spaventosa che fluttua tuonando
che sbraita come un cane, urla come il mare
con i suoi duri bastoni e le picche di ferro,
i tamburi, i suoi grandi strepiti da bettola e da fiera,
stracci scuri, sanguinanti berretti rossi:
l'uomo dalla finestra aperta mostra il tutto
al pallido re che suda e barcolla
e si sente male per quello che vede!
«È la canaglia,
Sire, che sbava contro i muri, cresce, pullula
- perché non mangiano, Sire, sono pezzenti!
Io sono un fabbro: mia moglie è con loro,
la folle! Crede di trovarlo alle Tuileries il pane!
- gente come noi i panettieri non la vogliono:
ho tre figli. Sono una canaglia. Io conosco
delle vecchie che piangono sotto i cappelli
perché derubate del figlio o della figlia:
sono canaglie. - C'era un uomo alla Bastiglia,
un altro era forzato: entrambi cittadini
onesti.- Liberati, ora son lì come cani:
li insultano! Così in loro nasce qualcosa
che fa tanto male! È terribile, è colpa
del sentirsi spezzati, sentirsi dannati
il loro stare là ad urlarvi sotto il naso!
Canaglia. - Lì in mezzo ci son ragazze infami
perché - Voi sapete, le donne son fragili,
signori della Corte - ci stanno sempre.
Gli avete sputato sull'anima, come fosse nulla!
Le vostre belle ora son là, son la Canaglia.

«Oh, tutti i disgraziati con la schiena che brucia
sotto il sole feroce, che vanno e tornano,
che in questo lavoro senton scoppiare la fronte...
Giù il cappello, miei borghesi! Oh, questi son gli uomini!
Siamo operai, sire, operai! Noi siamo
per i grandi tempi nuovi in cui si vorrà sapere
e l'uomo forgerà da mane a sera,
cacciatore di grandi effetti, di grandi cause,
in cui vincendo lentamente dominerà le cose
e monterà sul Tutto come su di un cavallo!
Oh! Splendidi lumi di fucine! Peggio,
ancor peggio! - Ciò che non conosciamo, questo può essere terribile:
noi lo sapremo! - Coi nostri martelli, in mano, passiamo al setaccio
tutto ciò che sappiamo: e poi, Fratelli, avanti!
Facciamo talvolta sogni emozionanti
di vivere semplice, con ardore, senza dire
malvagità, lavorando col regale sorriso
di una donna che amiamo di nobile amore:
lavoreremo con foga tutto il giorno,
ascoltando il dovere come una tromba squillante:
allora saremo felici, e nessuno, nessuno,
ci potrebbe mai piegare!
Ed avremo un fucile sul focolare...

«Oh, ma l'aria è tutta piena d'odore di battaglia.
Dunque, che ti dicevo? Sono una canaglia!
Restano ancora spie e profittatori.
Siamo liberi, noi, abbiamo paure
che ci fanno più grandi, più grandi! Or ora
parlavo di quieto dovere, d'una dimora....
Guarda il cielo! - È troppo piccolo per noi,
si crepa di caldo, soffocheremo in ginocchio!
Guarda il cielo! - Io torno alla folla
nel grande, tremendo marciume, che trascina
Sire, i tuoi vecchi cannoni sul lurido selciato:
- Oh, solo da morti li avremo mondati!
- E se, dinanzi alle nostre urla, alla nostra vendetta,
le zampe dei vecchi re dorati sulla Francia
spingono reggimenti in abiti di gala,
ebbene, cosa fate, voi tutti? Merda a quei cani!»

Si rimise il martello in spalla.
La folla
intorno a quell'uomo sentiva l'anima ebbra,
e nella grande corte e nelle stanze
dove Parigi ansava nelle sue urla,
un fremito attraversò l'immensa plebaglia,
Allora, con la sua mano grande e superba di grasso,
benché l'obeso re sudasse, il fabbro
terribile gli gettò sulla fronte il rosso berretto!

venerdì 17 giugno 2011

PRIMA E POI


Bisognerà ammettere prima o poi che dal prima al poi qualcosa è accaduta. Alcuni di quelli che si fregiavano di scudi antimafia sono passati, armi, armature e bagagli, con la mafia. Alcuni di quelli che stavano con la mafia, oggi indossano i fregi dismessi dai primi. Non meritanddoli, ovviamente, come i predecessori. Se prima si rubava un poco, oggi ho l'impressione che si rubi di più. Se prima lo Stato redistribuiva più reddito, oggi ho l'impressione che lo faccia di meno. Se prima l'informazione era quel che era, oggi è quel che è. E la Cultura è un attrezzo sgangherato. Paese tristissimo, il nostro. Dal prima al poi qualcosa è cambiato. Forse siamo cambiati noi. Prima o poi, bisognerà dirlo.

venerdì 4 febbraio 2011

LO STATO UMANO E LA MAFIA DISUMANA

Ciò che ha fatto Bernardo Provenzano nella sua vita è francamente ripugnante, e non può esservi alcuna pietà per gli uomini di Cosa Nostra, colpevoli di vessazioni e violenze d'ogni tipo. Ma lo Stato, che è comunità di uomini liberi, deve saper sempre mostrare la propria superiorità. Anche un boss come Provenzano va curato, se ammalato, e se le sue condizioni sono incompatibili con la detenzione in carcere, allora va ricoverato altrove. Non rinunciando, è ovvio, alla sicurezza.

venerdì 24 dicembre 2010

PERCHÉ NON MI PIACE LA VIOLENZA



La violenza non mi piace. Non mi piacciono quelli che vanno alle manifestazioni con caschi e bastoni. Non mi piacciono quelli che prendono a pietrate il prossimo. Non mi piacciono quelli che pensano di avere ragione sempre. Non mi piacciono quelli che insultano il prossimo con la scusa che almeno loro (e solo loro, evidentemente) sono onesti. Non mi piacciono quelli che si fanno scudo del loro altruismo per dire che a volte la violenza è lecita. Non mi piacciono quelli che vedono l'avversario come un nemico da abbattere. Non mi piacciono quelli che dimenticano in fretta. Non mi piacciono quelli che, nel caso in discussione, hanno dimenticato cosa è stata la violenza in Italia. Non mi piacciono quelli che non capiscono che la violenza chiama altra violenza, e che a questo gioco puoi solo perdere.

domenica 10 ottobre 2010

LETTERA A PIETRO CALABRESE

Al Festival delle Lettere di Milano una concorrente - Gianna, si chiama - ha inviato una sua lettera, ricordando Pietro Calabrese e Gino, l'alter ego che Pietro si era scelto sul Magazine del Corriere della Sera per raccontare della sua malattia. E' una lettera bellissima. Non so le altre, ma questa meriterebbe un premio.

PIETRO – GINO

La settimana passada
Sù la soa mezza pagina de giornal
gh’era manca una paròla.
Domà duu disegn piscinitt,
duu liber con scritt sora:
“ Ciao Pietro ” – “ Ciao Gino “.
In quatter paròll gh’è la vita
d’on brao giornalista
e d’on grand òmm.
Hoo semper leggiuu le “Molesckine”
del giornalista Pietro.
Me piaseva la soa manera de commentà,
cont ironia e sensibilità,
quell che succedeva.
Da on poo de temp el scriveva
Del sò amis Gino
E de la lòtta che lù el faseva
ai “tegnoeur” che el gh’aveva in di polmoni.
Eren paròll che diseven de paura,
de speranza in del miracol,
de attaccament a la vita.
Hoo speraa che Gino ghe l’avariss fada
a vinc i “tegnoeur”, ma l’è staa nò inscì.
Gino-Pietro l’ha lasaa on voeui.
Me mancarà el pontell del gioedì,
ma resterann amnò i moment intelligent
e anca spassus che lù el m’ha regalaa.
L’è staa on piasè vegh incontraa i sò penser.

mercoledì 16 giugno 2010

LA CROSTA DELL'INFERNO

Da oggi in libreria, "La crosta dell'Inferno", Rizzoli HD.

Palermo può essere una città feroce. Sara Salemi, vicecapo della Sezione Minori, viene aggredita e accoltellata in uno stanzino della questura. Solo un caso fortuito la salva da una morte certa. La convalescenza è lunga, la paura e il rancore la tormentano ma, più forte di ogni cosa, un pensiero la guida: trovare la Bestia, la minaccia sospesa sulla città che colpisce, si nasconde e ogni volta scompare senza lasciare traccia. È lui l'assassino, lo psicopatico prezzolato che permette un traffico ignobile di innocenti, un giro di affari gestito da insospettabili professionisti e padri di famiglia. Solo con l'aiuto del suo capo Marcello Porzio, Sara potrà scoprire l'ultima verità. Simon Daniels è lo pseudonimo di uno scrittore che conosce il mondo criminale siciliano e i suoi retroscena più inquietanti.

domenica 4 aprile 2010

4 APRILE, LA RIVOLTA DIMENTICATA

Sarebbe Festa Nazionale, il 4 aprile, centocinquantesimo anniversario di un evento che fu la premessa indispensabile dell’Unità d’Italia.
La Festa fu disposta un decreto del governo reggente: decreto mai abolito.
Mentre i palermitani si sollevavano, dinanzi alla Chiesa della Gancia, Garibaldi era a Caprera e i Mille erano ancora lontani da Quarto e dalle navi che li avrebbero condotti a Marsala.
La Sicilia intera si sollevò, alla notizia di quel gesto di rivolta: a Palermo, un gruppo di patrioti era insorto contro gli oppressori.
I Borboni fecero delle concessioni, che ritirarono presto.
La popolazione tentò di salvare gli insorti, attraverso un foro praticato in una parete della Chiesa della Gancia (la buca della salvezza) ma 13 di essi furono fucilati, ed uno, Sebastiano Camarrone, sopravvisse al plotone d’esecuzione: ma contro la legge, che in quel caso imponeva la commutazione della pena, fu finito, con un colpo in testa.
A ricordare il sacrificio delle Tredici vittime, non ci sarà né una corona di fiori né l’ombra di una cerimonia pubblica.
Niente!
Palermo dimentica i suoi morti, così come li dimenticano la Sicilia e il Paese.
Fino a qualche mese fa, ricorderete, non era stato previsto neanche un comitato preparatorio per il centocinquantesimo dell’Unità, che cadrà nel 2011; o per Camillo Benso Conte di Cavour, che morì poco prima dell’Unità.
Come se negli Stati Uniti dimenticassero i patrioti della loro guerra d’indipendenza, la strage di Boston, la battaglia di Yorktown o George Washington.
Brutti tempi, i nostri.

domenica 7 marzo 2010

IL MITO DELLA RAGIONE

Dietro un cespuglio, sotto una pietraia, in fondo ad una grotta buia.
Se fosse una divinità, la Ragione si nasconderebbe nei luoghi meno ospitali, in attesa di un cercatore d'eccezione, di un personaggio comprensibile nel Mito.
Le comparse vocianti del nostro tempo, si capisce, abbaiano contro la Ragione, contro quel sussurro appena udibile che dagli anfratti indica una verità diversa dall'ufficio, dall'obbligo.
Il sentimento che ne deriva è la nausea: per le comparse, per la sopraffazione, per l'ipocrisia che ieri indicava nell'assenza di alcuni intellettuali il problema del nostro tempo ed oggi, nella loro sopravvivenza, la causa del pessimismo dominante.
Difficile oggi incarnare la Ragione.
Difficilissimo sottrarre la Ragione al rumore di fondo.
Pericoloso alzar la voce, per riuscirci.
La Ragione, da luminosa che era, si è fatta oscura.
Mito.

venerdì 29 gennaio 2010

L'IMPORTANZA DEL MALE

A proposito di un certo giornalismo, e di una certa televisione.
Un luogo comune recita: dev'esserci del marcio, se la perversione eccita gli animi, ed è morboso quest'interesse della gente alla cronaca nera, alla violenza.
Io penso che le cose non stiano così. Non esattamente.
Il punto, a mio parere, è come se ne scrive.
Un secolo fa, a farlo, era André Gide. Prendete ad esempio i "Ricordi della Corte d'Assise", ripubblicati da Sellerio. Raccontano delle crudeltà di provincia, in Francia: gesti efferati, e in apparenza incomprensibili.
Sempre nel Novecento, Truman Capote volle farsi cronista delle ragioni che potevano avere indotto due ragazzi del profondo Sud americano a compiere una strage, e i pochi giorni che intendeva dedicare ad un reportage, lievitarono fino a sei anni, per un romanzo, "A Sangue freddo", che divenne il suo capolavoro.
E poi, anche se non proprio di cronaca nera si trattava, c'è il caso di Hannah Arendt. Filosofa, storica. Seguì il processo ad Adolf Eichmann, a Gerusalemme. A giudizio, non vide un ministro di Hitler, e nemmeno un criminale, bensì un omuncolo, obbediente agli ordini di un pazzo. Hannah Arendt ne trasse la "Banalità del Male".
E poi, per farsi un'idea della differenza tra il passato ed il presente, occorrerebbe pure rileggere le cronache e le interviste di Enzo Biagi, di Oriana Fallaci, dei grandi giornalisti che seppero raccontare l'Italia del dopoguerra.
La conoscenza del Male è indispensabile, quasi quanto la conoscenza del Bene. L'interesse è legittimo. Il punto, ripeto, è come se ne scrive. E non ci sono più, fatte salve delle rare eccezioni, i cronisti di un tempo: straordinari, o perché occasionalmente dediti alla cronaca e pronti a liberarsi d'ogni pregiudizio, o perché capaci di penetrare a fondo nell'animo umano.

sabato 23 gennaio 2010

TUTO VA BEN

Li licenziano e salgono sulle gru. Se ne occupa la TV. Un mecenate compra la fabbrica e promette il rilancio. Altri licenziati, altra gru. Ma sono immagini già viste. E di mecenati non ne fabbricano a dozzine. Il vento della crisi spira fortissimo. Per non sentirlo, basta coprirsi bene, e dire che tuto va ben, madama la marchesa.

LA COPPIA PIU' BELLA D'ITALIA

La coppia più bella d'Italia si è sciolta in un triste addio.
I due erano da molti anni sulle prime pagine dei rotocalchi. Lui, un uomo di successo, fattosi dal nulla e approdato alla politica in tarda età, aveva guidato un partito nuovo di zecca, riportando alla rappresentanza politica e al governo i militanti di un altro vecchio partito.
Lei, bionda, bellissima in gioventù, aveva contribuito al successo del marito con classe e discrezione.
Frequentavano la buona società. Chi non ha visto le loro foto al mare, o nella loro casa di campagna, o nei salotti romani?
Con Maria Angiolillo, Mario D'Urso, al tavolo con Gianni Letta, Bruno Vespa.
I loro migliori amici preferiscono mantenere il riserbo, sull'accaduto.
Chi l'avrebbe detto?
Fausto e Lella Bertinotti!

sabato 16 gennaio 2010

IL DEPUTATO, ANNA FRANK E GLI ALTRI.

Un deputato leghista ha protestato per la lettura di brani "osceni" del Diario di Anna Frank da parte di una maestra in una scuola elementare del Nord. Per render più solida la sua presa di posizione, ha aggiunto che quel Diario non è nei programmi ministeriali!
La denuncia del poveretto mi ha fatto pensare al gran bisogno che c'è ancora di leggere quel diario, nelle nostre scuole, e alla necessità di leggere anche dell'altro. Altre storie.
Sappiamo tutto degli Usa e niente dell'Africa, del vicino Oriente o di Haiti.
E' così che nasce la paura dello straniero. Quando le scuole ti insegnano tutto, tranne la storia degli altri.

lunedì 11 gennaio 2010

I FATTI DI ROSARNO

A Rosarno vivevano migliaia di irregolari. Uomini e donne che avevano abbandonato la loro terra e che non avevano più alcun diritto: non ai servizi sociali, non al sussidio di disoccupazione, non alla pensione.
Quando i possidenti hanno giudicato che la crisi dell'agricoltura non consentisse più di raccogliere i frutti della terra, hanno smesso di reclutarli.
Gli irregolari si sono trovati alla fame, nelle loro case di cartone, dentro un capannone abbandonato; a vagabondare senza un centesimo per le strade di un paese che, d'improvviso, li ha riconosciuti come soggetti ostili, minacciosi.
Qualcuno sostiene che, dietro la rivolta di Rosarno, dietro quella sorta di replica del Boia chi Molla di Ciccio Franco, vi sia la mano della 'Ndrangheta, di quella mafia che qualche giorno prima aveva lanciato un altro segnale: la bomba dinanzi al Palazzo di Giustizia di Reggio Calabria.
L'ipotesi non è da escludere a priori.
Non è impossibile un tentativo di distrazione, una strategia di ricatto. Chi di dovere potrebbe verificare.
Ma il punto è un altro.
Ci sono due povertà in conflitto, in Italia: quella del Sud, mai cresciuto, immaturo, e quella dei migranti, fuggiti da povertà più acute.
Un mito mai confutato recitava che il terrorismo non avesse attecchito, al Sud, per la presenza delle organizzazioni mafiose.
Come dire: niente politica, niente eversioni, niente ideologie.
Ora, il razzismo non è un semplice atteggiamento: è l'ideologia della supremazia di una razza su un'altra. Ed io non credo vi sia razzismo, né a Rosarno né altrove, in Italia. Ma so anche che la xenofobia, letteralmente la paura dello straniero, può esser brodo di coltura delle peggiori ideologie, a partire dal razzismo. E so che quella in atto tra l'Africa, l'Asia e l'Europa, è la più grande migrazione della storia umana, e che pensare di opporvisi con semplici divieti è un'illusione.
Questa rivolta dovrebbe indurci ad una serie di riflessioni.
Come si combinerà l'illegalità del nostro Sud alla xenofobia che è sotto i nostri occhi?
Poiché la criminalità ha anche, pur se non solo, un'origine sociale, quali risultati produrrà l'incrocio fatale tra le diverse criminalità?
Quali politiche occorreranno per restituire umanità alle nostre città, impoverite economicamente dalla crisi e - moralmente - dalla paura?

sabato 2 gennaio 2010

CALTAGIRONE, GIACOMO ALESSI E UN RACCONTO

Ritratto di Giacomo Alessi

La scala, illuminata a candele, nelle sere d'estate.
Le maioliche brillano di mille riflessi.
Il blu. Lo smalto. Il giallo. L'imperfezione della superficie.
Caltagirone è un luogo straordinario.
In piazza, il Municipio, e da un lato, la Galleria Sturzo, curioso esempio d'architettura novecentesca.
A pochi passi, in una stradina stretta, su una minuscola piazzetta, il suo negozio.
Lo incontro per caso, anni dopo un'intervista.
Giacomo Alessi mi dice: “Vuoi vedere la mia collezione di ceramiche?”.
Niente di tradizionale, spiega.
Arte contemporanea.
Ho un tuffo al cuore.
Detesto le ceramiche contemporanee.
Accetto.
L'appuntamento è per l'indomani.
Prima una visita a Maria Attanasio. La sua casa è su una collina. La terrazza toglie il fiato.
Torniamo in città. Periferia. Un palazzo grigio di cemento.
Infiliamo una scala stretta.
“Le hanno viste in pochi”, dice Giacomo.
Venti, trenta persone al massimo.
Vorrei essere altrove.
Apre la porta.
“Accomodati”.
Accende le luci, e mi guida lungo un corridoio. E la porta si apre su un bosco di maioliche, su una voliera di gufi, su una distesa di cupole, cattedrali, e moschee, e sinagoghe. Il verde, il rosso. I colonnati. Le statue, e non sono scolpite, ma plasmate, una ad una, dalle mani di un artigiano di genio.
Ora è lui a ritrarsi, ed io a fare un passo avanti, e ad inginocchiarmi, per vedere in quel caos che pare molti continenti, da un punto di vista differente.
La luce non basta. Lui apre gli scuri, e il sole di primavera irrompe e si rifrange sulle superfici tondeggianti della città di ceramica.
Potrebbe essere Venezia, o Costantinopoli, o Sofia.
Guardo quelle invenzioni, che son quello che rappresentano ed altro ancora, e provo a riportarli al rango di oggetti.
Una civetta mi osserva con le mani in tasca, e lo stomaco dignitosamente prominente.
C'è qualcosa di famigliare, in quello sguardo, in quella postura.
E l'intuzione arriva improvvisa, e così forte, che ne chiedo muta conferma a Giacomo.
“È lui?”.
Leonardo Sciascia.
In quell'animale mitologico, in quel silenzio che si vede, si sente, c'è molto di più di una semplice raffigurazione. Così come in certe forme, apparentemente astruse. E in realtà ricche di altre simmetrie, impensabili.
In quella che era una cucina ed ora è una sorta di esposizione minore, ci sono due uomini in divisa, in una posa francamente oscena. Ed è un'alta uniforme.
Giacomo Alessi è un uomo scisso in due parti gemelle.
È il conoscitore della tradizione, ed è quasi impossibile distinguere i suoi vasi e i suoi albarelli e le sue figure dal Barocco settecentesco del quale Caltagirone fu fornace. Stessa ragnatela, stessa vetrificazione, stessa morbidezza delle forme e dei colori. Proporzioni delicate. Pastelli e cotture ineccepibili.
Ed ora, questa sorpresa. Il suono di una musica mai prima ascoltata. L'infrangersi del pregiudizio su uno scoglio. Giacomo Alessi è anche uno straordinario autore contemporaneo. Vorrebbe portare la sua Caltagirone a Venezia, e rimprovera a Venezia il suo provincialismo.
Io so poco di arte contemporanea, pochissimo. E a questo forse si deve la mia diffidenza iniziale.
Amo la storia e i misteri.
Eppure, in quelle forme, c'è la stessa forza del Vulcano che ricostruì la città dopo il terremoto del 1693. Il fuoco che ha cotto le ceramiche è lo stesso.
Giacomo Alessi si rintana nel suo laboratorio, di tanto in tanto, e quelle migliaia di esperimenti, visti da pochissimi, sono il frutto delle sue fughe.
È un intellettuale, Giacomo Alessi. Sa del mondo e delle sue contraddizioni.
Dovevo finire a Caltagirone, per ritrovare un'officina, e un artigiano, in un tempo in cui nessuno sa più nulla di ciò che fa.

In libreria è appena arrivato “Giacomo Alessi e le ceramiche. Una lunga tradizione per il futuro”, un prezioso volume ricco di fotografie d'autore dei capolavori del maestro calatino. Il suo lavoro è raccontato dagli scritti di sedici fra archeologi, artisti, critici, giornalisti, manager, scrittori, studiosi (Silvana Editoriale, 288 pagine, 52 euro).

Il mio racconto.

Per tre volte, e ancora...

Accadde tre volte e forse sarebbe accaduto ancora, nella città di quel monte che aveva un nome che sapeva d'aria ed era invece di zolfo, di calcare e di un'argilla di pasta soffice e ricca.
La prima volta che Caltagirone rinacque dal fango si dovette all'editto che d'improvviso era giunto dall'altra parte di quel mare che aveva accolto l'Isola al suo centro e al centro ancora c'era il monte.
Gli uomini con la croce e la spada dissero che tutti gli adoratori di Satanasso che dimoravano al San Giuliano, e tutti coloro che dagli adoratori discendevano, per linea di padre o di madre, dovevano andar via, e lasciare alla terra ciò che della terra solamente era, e dunque le vesti, l'oro e le pergamene precipitarono in fondo ad un pozzo che fu presto sigillato.
Le case furono vendute e i pochi arredi accesero i fuochi delle altrui divozioni.
Gli uomini dissero alle donne di prendere un figlio soltanto e di andare verso l'origine del sole, verso la Germania. Quanto a loro, avrebbero preso l'altro figlio, o tutti gli altri, e avrebbero inseguito il sole fino alla sua morte, sul mare, verso il Garbo.
Se la donna e il figlio fossero morti, o fossero stati depredati, e resi schiavi e venduti, allora vi era ancora la speranza che loro, gli uomini, insieme agli altri figli, si salvassero, all'Impronunciabile piacendo.
Poiché le ricchezze dovevano esser lasciate alle loro spalle, essi conservarono quel poco d'oro che poteva esser dissimulato, tra le pieghe dei loro corpi, e si cucirono addosso dei cilindri di rame con le lettere e le frasi che un giorno li avrebbero condotti alla prima terra perduta. Una notte, ad uno, tra di loro, venne in sogno un vulcano, e la lava infuocata che ne fuoriusciva si stendeva sugli uomini, li ricopriva, e quando gli uomini strisciavano sotto quella coltre oramai fredda e si liberavano, lasciavano la loro impronta, perché tutti potessero guardarla e aver memoria di loro e del passato.
Egli, si chiamava Shmuel, impiegò il tempo che gli era concesso di rimanere nella città del monte per plasmare con l'argilla i volti degli uomini e delle donne, e i libri di Dio e della Legge. Poi, era tempo di Pesach, camminò giù per i sentieri, lungo la vallata, fino al Maroglio, e sul greto del fiume dispose le pietre d'argilla che recavano le scritte, e i vasi che riproducevano i volti di Yoshua, Robina, Iosep, Salomon, Alba.
Chi si fosse bagnato in quelle acque, avrebbe ascoltato le loro voci pronunciare tutti i nomi di colui che doveva esser taciuto.
Accadde ancora, due secoli dopo.
Nelle chiese sorte sopra i templi, lo scuotimento del Dio irato frantumò i segni della ricchezza, che avevano sopravanzato la divozione e oscurato la luce.
Le case dei signori e dei miserabili vennero egualmente sbriciolate. Alla sera del giorno nono del 1693 e al mezzogiorno del giorno undicesimo, a Caltagirone, ad Occhiolà, a Noto, a Modica, dalle viscere del globo si levò un lamento di morte, e quella rabbia non si placò che due anni dopo.
Al sordo lamento della terra, s'aggiunsero i pianti delle madri e dei padri e dei figli, le grida si fecero mormorazioni e poi sospiri, e chi aveva da perdere qualcuno, lo perse per sempre. Quando la vendetta dell'Ignoto finalmente cessò, la città del monte era spoglia di cose e di anime, e si dovette ricominciare, ancora una volta, com'era già accaduto dopo la cacciata dei giudei, e la perdita dei dottori, degli speziali, delle botteghe, dei manuali.
In sogno, ad un frate dalla lunga barba candida, venne un vulcano, e la lava infuocata che ne fuoriusciva, raffreddandosi si mostrava in forme di calice, crocefisso, e tabernacolo. Il sacerdote si riscosse, si mise in cammino nel freddo della notte nebbiosa d'inverno e lì dove 'argilla era abbondante, egli principiò a plasmarla come albero, e sole, e bambino.
Chi lo vide al mattino seguente, lo descrisse nero di umido e bianco di polvere, tra centinaia di alberi, e soli, e bambini, che parevano vivi e sul punto di dar frutti, illuminare e piangere di felicità.
La città del monte crebbe di nuove case e gli oggetti quotidiani furono d'argilla, e non più d'oro, e argento, e stagno, e rame, e legno. I piatti erano di terra cotta, e così i bicchieri, e il vasellame, e nelle chiese, la divozione s'era riaccesa intorno a polveri indurite dall'acqua e dal fuoco, e a tutti sembrava giusto che così fosse: quia pulvis es, in pulverem reverteris.
La città provvide al presente, all'oggi, e quella Quaresima durò per secoli.
Accadde ancora, poco prima che il secondo millennio si chiudesse.
Un fischio preannunciò il volo basso di un grifone, e quel fischio crebbe fino a farsi urlo di Apocalisse, e i grifoni si moltiplicarono, fino ad oscurare il cielo, e la terra riprese a tremare come nei racconti che i vecchi indovinavano nelle crepe dei muri di cinta ancora intatti.
Le uova che i grifoni lasciavano cadere al loro passaggio, si schiudevano sulle strade e sulle case dando alla vita la morte, e alla morte la vita.
Le case si facevano di fuoco e le strade si aprivano fino all'inferno, e quelle bocche ingoiavano ogni cosa: le macerie, e gli uomini, e gli animali.
Si ballava senza musica.
La guerra che era stata ladra di figli, ora giungeva nelle case dei padri, a depredarle di miseria. Ciò che era stato convertito da un Dio all'altro, e ciò che era sopravvissuto all'ira del più misericordioso, venne additato dall'uomo: questo finirà, quell'altro si reggerà su poche pietre.
Nessuno, stavolta, aveva più voglia di ricostruire le case e le chiese.
Ma si dice che ad un sordo fosse tornato l'udito, o forse fu ad un cieco che era tornata la vista, e che il prescelto volesse innalzare un altare, per dirsi grato di quel miracolo.
Camminò per le strade della città del monte e vide quel che non aveva visto, ed erano i bambini, per le strade, senza più vita, o forse sentì quel che non aveva sentito, ed erano le lacrime delle loro madri.
Sembrava fosse impazzito. Avrebbe preferito restar cieco, o sordo.
In luogo di quell'altare, l'uomo decise di alzare un muro, dov'erano le finestre della sua casa, e di nascondersi nella stanza più remota. Dormì sulla paglia scampata al fuoco, e la paglia era ancora odorosa del mulo che aveva ospitato, e in sogno gli venne un vulcano, e la lava infuocata che ne fuoriusciva, aveva i lineamenti dolci dei bambini e quelli gravi delle madri. Sconfortato, l'uomo decise che avrebbe rinunciato di nuovo al suo silenzio, per raccontare ciò che aveva
visto, o sentito.
Nelle sue mani, da generazioni, era l'abilità del plasmatore, e quei pensieri, e i sogni gioiosi e oscuri, li modellò sull'argilla raccolta alla fonte di ogni rinascita della città del monte, affinché nel futuro l'uomo sapesse che il confine da non superarsi era già stato superato, e il bene era al di qua, e non al di là di quel confine, dov'erano solo il dolore e la morte.