lunedì 20 ottobre 2008

CONVERSAZIONE CON ROBERTO LAGALLA

A guardare le statistiche, vien da dire: “Zitti, Palermo studia”.
Sessantaquattromila iscritti all’Università: un palermitano su dieci; di questi, un quinto ha scelto Lettere e Filosofia. Tredicimila. Tanti da riempire uno stadio. E uno stadio, difatti, servirebbe: per le lezioni, i laboratori, gli esami. Di metafora in metafora, si potrebbe aggiungere che il transatlantico ha qualche suite e molte celle per i forzati alla ricerca, pochi ponti al sole per le classi più elevate e stive malmesse per chi viaggia in economia.
C’è un nuovo Capitano. Un Rettore eletto a primo scrutinio con milleseicento voti di ogni colore politico. Roberto Lagalla ha fondato il polo universitario di Agrigento ed è stato Assessore Regionale alla Sanità.
“Avverto la consapevolezza diffusa della necessità del cambiamento. L’università ha un ruolo fondamentale. Deve saper cogliere i fermenti della società civile. Confindustria è la punta avanzata di questa sensibilità. L’Università ha un obbligo etico di farsi motore del cambiamento. Occorrono convergenze sinergiche per raggiungere quest’obiettivo”.
Il primo indizio, il linguaggio, conduce ad un laboratorio politico. Le convergenze. Aldo Moro. Ciò per il leader della sinistra democristiana era parallelo, per Lagalla è sinergico. Tradizione e innovazione. La mediazione politica, la concertazione politica, e l’innesto del concetto contemporaneo di rete.
Mastica il sigaro, Roberto Lagalla, ed usa frasi lunghe, smussate; un periodare ben scandito.
Poi, c’è il contenuto. Il cambiamento.
Non è un momento qualsiasi, per la Sicilia.
C’è un imprenditore, il primo tra gli imprenditori dell’Isola, Ivanhoe Lo Bello, che dice a brutto muso ai suoi associati: se non denunciate gli estorsori, vi caccerò da Confindustria.
C’è un Presidente della Regione, Raffaele Lombardo, che a capo dell’assessorato alla Sanità mette un pupillo di Borsellino e di Caselli, Massimo Russo, e intima ai suoi trentamila dipendenti di farsi trovare al loro posto, al lavoro, ché la pacchia è finita.
C’è un Rettore appena eletto, all’Università di Palermo, Roberto Lagalla, che annuncia un argine agli sprechi e investimenti per didattica, ricerca e relazioni internazionali.
Cosa unisce questi tre uomini? Niente, in apparenza: Lo Bello è di area democratica; Lombardo un autonomista; Lagalla vicino al centro destra. Un connotato culturale, forse. Sono dei moderati, detestano capipopolo e rivoluzioni. Ma nella semplicità dei loro obiettivi, forse, ci sono semi di cambiamento.
Lagalla ha 53 anni e 4 figli: 23 anni il primogenito, 6 l’ultimo nato. E’ entrato all’Università dopo il liceo classico, il Gonzaga, e non ne è più uscito. Si è laureato a Palermo e si è specializzato fra Palermo, Montpellier, Rotterdam e Trieste. Radiologo.
“Serve una proposta culturale”, dice. “L’Università dev’essere un assistente globale del cambiamento”.
E se, invece, fosse un consulente globale? La rivoluzione del sistema del Credito, nel bene e nel male, è iniziata quando le banche hanno smesso di farsi semplici custodi e ignave prestatrici di denaro, ed hanno cominciato ad occuparsi delle esigenze del cliente.
“Naturalmente. Esercitandosi sul terreno della legalità, innanzitutto. Contro la mafia e il racket. E poi, l’Università deve rinunciare all’autoreferenzialità del proprio ruolo. Occorrono dei cambiamenti: nei processi di spesa, nell’incremento della mobilità degli studenti, nella competitività, nell’internazionalismo”.
Dopo il tempo dei diritti, è arrivato il tempo dei doveri?
“Non sono d’accordo con il modello dei tre anni più due, e con il modo in cui il modello è stato interpretato ed applicato. Il quadro è sconfortante. Mi pare che l’Università sia vista anche come un parcheggio in attesa di un posto di lavoro, un contenitore di aspettative”.
Il dibattito italiano è stantio: l’Università dev’esser di massa o servire un’elite? Gli archeologi s’accalorano e gli iscritti lievitano, insieme a cattedre, corsi triennali, studenti fuoricorso e disoccupati intellettuali.
“Servono numeri programmati, selezioni per l’accesso e una diversa pianificazione, peraltro imposta dalla legge. Medicina, ad esempio, ha 275 iscritti al nuovo anno accademico. L’anno scorso erano ancora di meno. Tutti quanti perfettamente assorbibili dal mercato del lavoro.
Altre Facoltà hanno migliaia di iscritti. Con il record di Lettere e Filosofia. Anche qui occorrerà intervenire?
“Sì. Ma occorrerà anche migliorare l’offerta. Offrire standard accettabili di formazione: dovremo riuscirci nell’arco di un triennio. Ma servono risorse. Da anni, le finanziarie non fanno altro che ridurre i fondi. L’ultimo taglio è di 500 milioni di euro in tre anni. E non si fanno le nozze con i fichi secchi”.
La sensazione, in Sicilia, è quella della desertificazione culturale. Mentre i saperi universali evaporano, i saperi parziali spariscono, s’interrano, come certi fiumi, sotto il flusso travolgente della modernità, del sapere funzionale.
“L’Università ha diversi obiettivi, e in qualche caso, può limitarsi ad offrire una specializzazione ulteriore alle professioni normalmente svolte dai diplomati”.
Nel ragionamento di Lagalla ricorrono alcune costanti. Il far sistema, intanto. Il fare rete. L’Università deve dialogare con la scuola e scambiare esperienze con il sistema economico ed il territorio. La concertazione, poi: il cambiamento dev’esser condiviso all’interno, tra i diversi soggetti che animano l’Ateneo, e all’esterno, con gli interlocutori istituzionali.
“Lo scenario generale indica che il sistema si è rimesso in movimento. Dobbiamo potenziare la ricerca. Non possiamo essere un parcheggio. Una palestra, semmai, per testare la volontà dei giovani. Penso a dottorati interdisciplinari, con l’obbligo di trascorrere un anno all’estero. Mobilità pure dei professori: da altre Università, anche estere. Su questo, chi mi ha preceduto, il Rettore Giuseppe Silvestri, ha avviato un lavoro eccellente, recuperando un vecchio manufatto, in periferia, e destinandolo alla ricerca scientifica. Intendo proseguire su questa strada. Penso ad un Beaubourg scientifico della Sicilia Occidentale”.
Collaborando con l’impresa?
“Sì, per la ricerca applicata. Penso ad un’agenzia regionale per il trasferimento delle tecnologie, nella quale convergano le 4 università siciliane. Ma occorre ritagliare uno spazio importante anche per la ricerca di base. Non tutto può esser finalizzato all’applicazione immediata”.
L’Università non si limita a formare degli studenti: agisce nel territorio, con un proprio Policlinico. Vecchio, a dir poco. E ciò che fa vecchia la Sanità, in Italia, è anzitutto l’architettura: edifici fatiscenti, che allontanano, anziché avvicinare, settori che tra loro dovrebbero comunicare.
“Entro l’anno, conto di avviare la riqualificazione del Policlinico. Ma prima o poi, dovremo ragionare su un Policlinico nuovo di zecca”.
E il Parco d’Orleans? Palermo lo ha salvato dalla speculazione edilizia. C’è un villaggio sportivo. Che vuol farne, l’Università?
“Nel giro di un anno legheremo il villaggio sportivo al campus. Servono spazi per la cultura, poi: sale studio, ed altro ancora”.
Così, si svuoteranno le biblioteche. Peccato. E la sede del Rettorato? Palazzo Steri conserva dei graffiti straordinari, tracciati dai prigionieri che per anni abitarono le sue celle. Ho letto che vorrebbero farne il Museo dell’Inquisizione: come se ad Auschwitz avessero fatto il Museo delle SS e dei Sonderkommando. Non sarebbe meglio farne il Museo delle vittime dell’Inquisizione? Degli ebrei, anzitutto, che furono le prime vittime del primo grande sterminio di massa, perpetrato in nome della fede. In Sicilia, c’era un’enorme presenza ebraica, che fu letteralmente azzerata.
“Credo che l’intenzione fosse quella di ricordare l’orrore: le vittime, e non i carnefici”.
Il nome conta, però.
“Preferisco Museo delle vittime dell’Inquisizione”.
Cosa legge, Lagalla?
“I romanzi me li suggerisce mia moglie Paola. Leggo molto di storia: del Fascismo e della Chiesa, più che altro”.
Gli chiedo se abbia delle idee per il suo futuro politico. Risponde che in mente ha solo il suo impegno prossimo, da Rettore. “Vorrei far due mandati. E non superare, comunque, i cinque anni”.
Mi hanno insegnato che Moro ha lasciato ai morotei l’eredità dello sguardo lungo, replico: dieci anni, non di meno.
Scoppia in una risata, mentre gli s’illuminano gli occhi, e le spalle prendono a scuotersi: una movenza che mi riporta ad un uomo che non c’è più, padre Ennio Pintacuda.
“E’ stato uno dei miei maestri”.
I maestri, ecco. Chi è stato il più importante?
“Padre Antonino Gliozzo. Era il Rettore del Gonzaga, la scuola dei Padri Gesuiti. Proveniva dalla Segreteria di Stato Vaticana. Facevamo lunghe passeggiate”.
Mai stato Prefetto, al Gonzaga?
“Mai. Eppure, questa voce gira, a Palermo. Sono stato un arbitro, semmai. E finito il Liceo, insieme ad un amico di allora, Roberto Liotta, ho contribuito a fondare la Polisportiva Gonzaga”.
Bisogna dire che la figura del Prefetto, tra gli alunni dei Gesuiti, è di poca responsabilità ma di grande visibilità. Niente di più indigesto per Roberto Lagalla. A far l’arbitro, invece, s’acquisiscono virtù preziose: fiato, intuito, autorità. E bisogna figurarselo, questo siculo abruzzese di due metri, vestito di nero, fischietto in bocca e corsetta a pochi metri dal pallone. Nome per nome, cita i campioni di allora, le scoperte, i trofei conquistati.“E’ tutta questione di organizzazione”, si schernisce.

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