sabato 2 gennaio 2010

CALTAGIRONE, GIACOMO ALESSI E UN RACCONTO

Ritratto di Giacomo Alessi

La scala, illuminata a candele, nelle sere d'estate.
Le maioliche brillano di mille riflessi.
Il blu. Lo smalto. Il giallo. L'imperfezione della superficie.
Caltagirone è un luogo straordinario.
In piazza, il Municipio, e da un lato, la Galleria Sturzo, curioso esempio d'architettura novecentesca.
A pochi passi, in una stradina stretta, su una minuscola piazzetta, il suo negozio.
Lo incontro per caso, anni dopo un'intervista.
Giacomo Alessi mi dice: “Vuoi vedere la mia collezione di ceramiche?”.
Niente di tradizionale, spiega.
Arte contemporanea.
Ho un tuffo al cuore.
Detesto le ceramiche contemporanee.
Accetto.
L'appuntamento è per l'indomani.
Prima una visita a Maria Attanasio. La sua casa è su una collina. La terrazza toglie il fiato.
Torniamo in città. Periferia. Un palazzo grigio di cemento.
Infiliamo una scala stretta.
“Le hanno viste in pochi”, dice Giacomo.
Venti, trenta persone al massimo.
Vorrei essere altrove.
Apre la porta.
“Accomodati”.
Accende le luci, e mi guida lungo un corridoio. E la porta si apre su un bosco di maioliche, su una voliera di gufi, su una distesa di cupole, cattedrali, e moschee, e sinagoghe. Il verde, il rosso. I colonnati. Le statue, e non sono scolpite, ma plasmate, una ad una, dalle mani di un artigiano di genio.
Ora è lui a ritrarsi, ed io a fare un passo avanti, e ad inginocchiarmi, per vedere in quel caos che pare molti continenti, da un punto di vista differente.
La luce non basta. Lui apre gli scuri, e il sole di primavera irrompe e si rifrange sulle superfici tondeggianti della città di ceramica.
Potrebbe essere Venezia, o Costantinopoli, o Sofia.
Guardo quelle invenzioni, che son quello che rappresentano ed altro ancora, e provo a riportarli al rango di oggetti.
Una civetta mi osserva con le mani in tasca, e lo stomaco dignitosamente prominente.
C'è qualcosa di famigliare, in quello sguardo, in quella postura.
E l'intuzione arriva improvvisa, e così forte, che ne chiedo muta conferma a Giacomo.
“È lui?”.
Leonardo Sciascia.
In quell'animale mitologico, in quel silenzio che si vede, si sente, c'è molto di più di una semplice raffigurazione. Così come in certe forme, apparentemente astruse. E in realtà ricche di altre simmetrie, impensabili.
In quella che era una cucina ed ora è una sorta di esposizione minore, ci sono due uomini in divisa, in una posa francamente oscena. Ed è un'alta uniforme.
Giacomo Alessi è un uomo scisso in due parti gemelle.
È il conoscitore della tradizione, ed è quasi impossibile distinguere i suoi vasi e i suoi albarelli e le sue figure dal Barocco settecentesco del quale Caltagirone fu fornace. Stessa ragnatela, stessa vetrificazione, stessa morbidezza delle forme e dei colori. Proporzioni delicate. Pastelli e cotture ineccepibili.
Ed ora, questa sorpresa. Il suono di una musica mai prima ascoltata. L'infrangersi del pregiudizio su uno scoglio. Giacomo Alessi è anche uno straordinario autore contemporaneo. Vorrebbe portare la sua Caltagirone a Venezia, e rimprovera a Venezia il suo provincialismo.
Io so poco di arte contemporanea, pochissimo. E a questo forse si deve la mia diffidenza iniziale.
Amo la storia e i misteri.
Eppure, in quelle forme, c'è la stessa forza del Vulcano che ricostruì la città dopo il terremoto del 1693. Il fuoco che ha cotto le ceramiche è lo stesso.
Giacomo Alessi si rintana nel suo laboratorio, di tanto in tanto, e quelle migliaia di esperimenti, visti da pochissimi, sono il frutto delle sue fughe.
È un intellettuale, Giacomo Alessi. Sa del mondo e delle sue contraddizioni.
Dovevo finire a Caltagirone, per ritrovare un'officina, e un artigiano, in un tempo in cui nessuno sa più nulla di ciò che fa.

In libreria è appena arrivato “Giacomo Alessi e le ceramiche. Una lunga tradizione per il futuro”, un prezioso volume ricco di fotografie d'autore dei capolavori del maestro calatino. Il suo lavoro è raccontato dagli scritti di sedici fra archeologi, artisti, critici, giornalisti, manager, scrittori, studiosi (Silvana Editoriale, 288 pagine, 52 euro).

Il mio racconto.

Per tre volte, e ancora...

Accadde tre volte e forse sarebbe accaduto ancora, nella città di quel monte che aveva un nome che sapeva d'aria ed era invece di zolfo, di calcare e di un'argilla di pasta soffice e ricca.
La prima volta che Caltagirone rinacque dal fango si dovette all'editto che d'improvviso era giunto dall'altra parte di quel mare che aveva accolto l'Isola al suo centro e al centro ancora c'era il monte.
Gli uomini con la croce e la spada dissero che tutti gli adoratori di Satanasso che dimoravano al San Giuliano, e tutti coloro che dagli adoratori discendevano, per linea di padre o di madre, dovevano andar via, e lasciare alla terra ciò che della terra solamente era, e dunque le vesti, l'oro e le pergamene precipitarono in fondo ad un pozzo che fu presto sigillato.
Le case furono vendute e i pochi arredi accesero i fuochi delle altrui divozioni.
Gli uomini dissero alle donne di prendere un figlio soltanto e di andare verso l'origine del sole, verso la Germania. Quanto a loro, avrebbero preso l'altro figlio, o tutti gli altri, e avrebbero inseguito il sole fino alla sua morte, sul mare, verso il Garbo.
Se la donna e il figlio fossero morti, o fossero stati depredati, e resi schiavi e venduti, allora vi era ancora la speranza che loro, gli uomini, insieme agli altri figli, si salvassero, all'Impronunciabile piacendo.
Poiché le ricchezze dovevano esser lasciate alle loro spalle, essi conservarono quel poco d'oro che poteva esser dissimulato, tra le pieghe dei loro corpi, e si cucirono addosso dei cilindri di rame con le lettere e le frasi che un giorno li avrebbero condotti alla prima terra perduta. Una notte, ad uno, tra di loro, venne in sogno un vulcano, e la lava infuocata che ne fuoriusciva si stendeva sugli uomini, li ricopriva, e quando gli uomini strisciavano sotto quella coltre oramai fredda e si liberavano, lasciavano la loro impronta, perché tutti potessero guardarla e aver memoria di loro e del passato.
Egli, si chiamava Shmuel, impiegò il tempo che gli era concesso di rimanere nella città del monte per plasmare con l'argilla i volti degli uomini e delle donne, e i libri di Dio e della Legge. Poi, era tempo di Pesach, camminò giù per i sentieri, lungo la vallata, fino al Maroglio, e sul greto del fiume dispose le pietre d'argilla che recavano le scritte, e i vasi che riproducevano i volti di Yoshua, Robina, Iosep, Salomon, Alba.
Chi si fosse bagnato in quelle acque, avrebbe ascoltato le loro voci pronunciare tutti i nomi di colui che doveva esser taciuto.
Accadde ancora, due secoli dopo.
Nelle chiese sorte sopra i templi, lo scuotimento del Dio irato frantumò i segni della ricchezza, che avevano sopravanzato la divozione e oscurato la luce.
Le case dei signori e dei miserabili vennero egualmente sbriciolate. Alla sera del giorno nono del 1693 e al mezzogiorno del giorno undicesimo, a Caltagirone, ad Occhiolà, a Noto, a Modica, dalle viscere del globo si levò un lamento di morte, e quella rabbia non si placò che due anni dopo.
Al sordo lamento della terra, s'aggiunsero i pianti delle madri e dei padri e dei figli, le grida si fecero mormorazioni e poi sospiri, e chi aveva da perdere qualcuno, lo perse per sempre. Quando la vendetta dell'Ignoto finalmente cessò, la città del monte era spoglia di cose e di anime, e si dovette ricominciare, ancora una volta, com'era già accaduto dopo la cacciata dei giudei, e la perdita dei dottori, degli speziali, delle botteghe, dei manuali.
In sogno, ad un frate dalla lunga barba candida, venne un vulcano, e la lava infuocata che ne fuoriusciva, raffreddandosi si mostrava in forme di calice, crocefisso, e tabernacolo. Il sacerdote si riscosse, si mise in cammino nel freddo della notte nebbiosa d'inverno e lì dove 'argilla era abbondante, egli principiò a plasmarla come albero, e sole, e bambino.
Chi lo vide al mattino seguente, lo descrisse nero di umido e bianco di polvere, tra centinaia di alberi, e soli, e bambini, che parevano vivi e sul punto di dar frutti, illuminare e piangere di felicità.
La città del monte crebbe di nuove case e gli oggetti quotidiani furono d'argilla, e non più d'oro, e argento, e stagno, e rame, e legno. I piatti erano di terra cotta, e così i bicchieri, e il vasellame, e nelle chiese, la divozione s'era riaccesa intorno a polveri indurite dall'acqua e dal fuoco, e a tutti sembrava giusto che così fosse: quia pulvis es, in pulverem reverteris.
La città provvide al presente, all'oggi, e quella Quaresima durò per secoli.
Accadde ancora, poco prima che il secondo millennio si chiudesse.
Un fischio preannunciò il volo basso di un grifone, e quel fischio crebbe fino a farsi urlo di Apocalisse, e i grifoni si moltiplicarono, fino ad oscurare il cielo, e la terra riprese a tremare come nei racconti che i vecchi indovinavano nelle crepe dei muri di cinta ancora intatti.
Le uova che i grifoni lasciavano cadere al loro passaggio, si schiudevano sulle strade e sulle case dando alla vita la morte, e alla morte la vita.
Le case si facevano di fuoco e le strade si aprivano fino all'inferno, e quelle bocche ingoiavano ogni cosa: le macerie, e gli uomini, e gli animali.
Si ballava senza musica.
La guerra che era stata ladra di figli, ora giungeva nelle case dei padri, a depredarle di miseria. Ciò che era stato convertito da un Dio all'altro, e ciò che era sopravvissuto all'ira del più misericordioso, venne additato dall'uomo: questo finirà, quell'altro si reggerà su poche pietre.
Nessuno, stavolta, aveva più voglia di ricostruire le case e le chiese.
Ma si dice che ad un sordo fosse tornato l'udito, o forse fu ad un cieco che era tornata la vista, e che il prescelto volesse innalzare un altare, per dirsi grato di quel miracolo.
Camminò per le strade della città del monte e vide quel che non aveva visto, ed erano i bambini, per le strade, senza più vita, o forse sentì quel che non aveva sentito, ed erano le lacrime delle loro madri.
Sembrava fosse impazzito. Avrebbe preferito restar cieco, o sordo.
In luogo di quell'altare, l'uomo decise di alzare un muro, dov'erano le finestre della sua casa, e di nascondersi nella stanza più remota. Dormì sulla paglia scampata al fuoco, e la paglia era ancora odorosa del mulo che aveva ospitato, e in sogno gli venne un vulcano, e la lava infuocata che ne fuoriusciva, aveva i lineamenti dolci dei bambini e quelli gravi delle madri. Sconfortato, l'uomo decise che avrebbe rinunciato di nuovo al suo silenzio, per raccontare ciò che aveva
visto, o sentito.
Nelle sue mani, da generazioni, era l'abilità del plasmatore, e quei pensieri, e i sogni gioiosi e oscuri, li modellò sull'argilla raccolta alla fonte di ogni rinascita della città del monte, affinché nel futuro l'uomo sapesse che il confine da non superarsi era già stato superato, e il bene era al di qua, e non al di là di quel confine, dov'erano solo il dolore e la morte.

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