“Io parto da mio padre perché mi capisca mio figlio. Da un piccolo aneddoto”. E subito bisogna fermarlo, Mimmo Cuticchio, perché il suo racconto bisogna farlo precedere da un poco di storia.
Nel 1963, il quindicenne Mimmo sbarcò a Spoleto come truscia, fagotto, al seguito del padre Giacomo, invitato da quel genio di Giancarlo Menotti. Giacomo Cuticchio era un puparo, un oprante, o detto altrimenti, un teatrinaro, ché qui di Teatrino e non di Teatro si parla: con l’Opra, l’Opera dei Pupi, il piccolo è grande, e il miracolo si fa in un buco di sipario.
“Io ero abituato a fare teatro nei paesini dell’entroterra siciliano, a vedere scecchi, asini, pecore, gente che faceva l’estratto di pomodoro al sole, per le strade. Andammo con la nave per due o tre spettacolini. E invece, il giorno dopo la prima, i giornali parlavano di noi e di noi soli. Un successo. Ma noi venivamo dai paesi, che ne potevamo sapere del successo? Menotti ci chiese di rimanere per un mese, un mese e mezzo. Mio padre s’ingegnò di mettere su un piccolo ciclo, per non fare sempre la stessa cosa, ma avevamo solo cinquanta pupi: tre soldatini bianchi e tre neri, i pagani, i cristiani, i giganti, le donne, i serpenti, i diavoli. Facemmo le battaglie. Questo piaceva di vedere, ai turisti, al pubblico”.
Spade contro spade, scudi dimezzati dai gran colpi, teste che cadono, azione e ritmo che si fanno danza, con le voci profondissime del puparo che paiono levarsi dall’Oltretomba, fino a trenta, quaranta personaggi per volta, e i trucchi ottocenteschi, lo zoccolo che percuote il palcoscenico, il laminato che se lo muovi si fa tuono e tempesta. Sturm und drang.
“Qui succede il dramma. Mio padre, per la prima volta, in sala, vede dei neri. Neri di pelle, autentici. Si gira verso suo cugino, Pinuzzu Arini, e gli dice: qua ci sfasciano i pupi se continuiamo a far vincere i bianchi. E io: facciamoli vincere tutti e due, o perdere. Di solito, i tre soldatini neri che avevamo con noi combattevano contro un cavaliere molto valoroso, e perdevano. Mio padre fece in modo che i neri combattessero singolarmente contro i soldatini bianchi. Prima toccò a quelli con le lance. Poi, a quelli con le spade. E all’ultimo duello, dopo due perdite per parte, il nero e il bianco che restavano si uccisero a vicenda, decapitandosi. E da allora, fu sempre così”.
Giacomo Cuticchio incontra l’altra parte del mondo reale, che aveva solo raccontato, e decide, con il figlio, che bianchi e neri possono solo morire insieme.
“Mio padre aveva la quinta elementare, e rispetto a mio nonno, analfabeta, era un maestro. In quel momento, avvenne un cambiamento storico. Nel teatrino, però”.
Mimmo ha storia e storie da vendere. Nasce nel ’48. Suona il pianino, e aiuta in palcoscenico, fra i legni antichi e i fili che li muovono, i ferri che li reggono e gli scenari che li ospitano, e il piede – impara Mimmo - dev’esser morbido, e forte all’occorrenza, calzando lo zoccolo che simulerà i colpi della durlindana sugli scudi e le armature o le cariche di cavalleria, battendo sull’impiantito come su un tamburo.
In primisi, per Mimmo, dopo i lavori di dozzina, è la voce dell’Angelo, voce bianca di cappella e di cielo azzurro, e per i bambini è quello il ruolo, in attesa di avanzare in terza quinta, come combattente, e poi – di impresa in impresa, di ardimento in ardimento - fino alla prima quinta, dove si tiene battaglia a fianco del Puparo, che è papà Giacomo, puparo girovago, o “camminante”, fra la città e i paesi di una Sicilia dove i teatrini dei pupi erano cento e duecento.
Oh, non è infanzia, quella di Mimmo, da due lire. Nato è nato fra le mura di castelli, il gigante, che seppure di cartapesta sempre castelli sono, coi merli e i ponti e i fossati; le sue storie d’infanzia sono d’amore e di cavalleria, i suoi amici sono i Paladini di Francia, e si chiamano Orlando e Rinaldo, e subito i cavalieri difensori del Santo Sepolcro lo misero in guardia da quel Gano traditore.
Nel ’67, il suo teatrino – suo, tutto suo, per la prima volta – è a Parigi, al Boulevard St. Michel, dopo una tournée voluta dall’ambasciatore d’Italia. “Una volta, una ragazza, una ragazza nera, me lo chiese: ma perché, bianchi contro neri, guerre e morti? Avevo solo 19 anni, e le parlai del teatro elisabettiano, di Marlowe: guarda che là s’ammazzano tutti, sono tragedie, e nessuno si chiede il perché. Ma queste cose un poco mi segnavano. Il fatto di Spoleto. E ora, questa ragazza di Parigi. Avrei potuto risponderle: io faccio il mio lavoro, quello di mio padre, vai da un professore e fattelo dire, il perché. Ma io avevo aperto la mia coscienza, e cercavo di capire la mia tradizione”.
Uno si ferma e fa un giro su se stesso. Si guarda alle spalle, a quelli che sono venuti prima, mille anni prima.
“In Sicilia si dice: chi afferra un turco è suo. Ma non si sa più il perché”.
I turchi erano i pirati.
“Fino al Settecento. Sbarcavano, violentavano, razziavano, e ripartivano. E così si diceva in Sicilia: chi afferra un turco è suo”.
I pupari hanno raccontato e messo in scena documenti storici.
“La Chanson de Roland serviva a raccogliere forze nuove per le Crociate”.
Nel 1970, a Roma, Mimmo fa scuola di dizione e di fonetica fin quando non si sfascia i cabbasisi, e allora torna a Palermo, dove l’attende Peppino Celano, il suo secondo Maestro di Opra, l’Opera, dei Pupi, e di cunto (e di cos’è il cunto si parla poco più avanti).
Tre anni di studio e di travagghiu, di lavoro, quelli di Mimmo con Peppino Celano, e cummattimenti all’ultimo sangue e vivi e morti e pupi che cadono senza testa e in cinque minuti risorgono per lo sbalordimento di granni e di nutrichi, di grandi e di lattanti assisi in platea, e finalmente, finalmente, il suo Teatrino nasce in via Bara all’Olivella, a pochi passi dal Teatro Massimo, tempio dell’Opera grande, la Lirica.
Il primo spettacolo, nel 1973, manco a dirlo, ché i debiti si pagano, e quelli di cuore a più salato prezzo, è “Angelica a Parigi”. Il teatrino si fa sole di mille pianetini, e intorno nascono il laboratorio del legno, quelli del ferro, della pittura, dei costumi; un Festival, “La Macchina dei Sogni”; e una scuola di pupari.
Mimmo inscena e incarna, legge dei vecchi cicli di Roland, e i poemi in versi di Boiardo, Ariosto e Tasso, ma anche i romanzi di Luigi Natoli, l’Alexandre Dumas siciliano, vissuto tra Otto e Novecento, e scrive - Tullio Frecciato, Cagliostro, Coriolano, La passione di Cristo (ma quale melgibson), L’infanzia di Orlando, Francesco e il Sultano – e più avanti incontra Shakespeare per il Macbeth, e Mozart per il Don Giovanni, e Melville per Moby Dick.
Mimmo però è un gigante, e sa scavalcare le montagne, che in un teatrino sono di cartapesta e di tessuto. Un giorno, quando i nutrichi, i lattanti, sono sulle panche e rapiti, alluccuti, perdono il mento e le bocche si spalancano alle mosche, decide di scavalcare montagne e quinte, e di presentarsi con un pupo sulla destra e di mescolare Living Theatre e Teatrino, con quella che chiama “manovra a vista”.
“Era la visione di mio padre, che riparava il Pupo e gli dava, al centro del palco, un accenno di vita. Era lui, per me, il gigante”.
Poi, Mimmo Cuticchio perde anche il Pupo, per restare con una camicia bianca a sbuffo e una spada di cartone. E qui, il gigante affronta il Cunto, la recitazione più antica, quella di un uomo solo alle prese con un intero poema. Il Cunto è ritmo, è metrica purissima – taratà, taratà, taratatà - e induce al sogno, alla trance.
“Il Cunto me lo tengo e me lo conservo caro. Anni fa, lo feci in televisione, su Rai Due. Mi chiamarono pure nelle discoteche. Mi spaventai e smisi, ma non l’ho mai abbandonato. Certo, non lo faccio più per le strade. Sarebbe una cosa fuori tempo. Ma mi capita di recitare, con la tecnica del cuntista, che risale alla Chanson de geste, l’Iliade nelle scuole. E tutti restano incantati. Un professore mi ha detto di essersi spiegato la cecità di Omero. Lei – mi ha detto – quando recita, tiene gli occhi chiusi, serrati”.
Eccolo, l’incantamento.
sabato 26 gennaio 2008
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3 commenti:
io me lo ricorda la prima volta che ho visto i pupi di Cuticchio, in un teatrino a Roma, ero bambina e mi ricordo l'incanto. Poi li ho rivisti un paio di volte, sempre anni e anni fa, ma il ricordo è quello del buio in sala alla prima scena e poi i rumori, i colori, i duelli e la magia del puparo che ci permise di andare nel retro palco a fine spettacolo. Mi hai fatto venire voglia di rivederli ancora, sono passata tante volte davanti al teatro di via Barra all'Olivella ma non sono mia entrata: la prossima volta che vengo a Palermo devo farlo.
A me - più semplicemente - hai fatto venir voglia di tornare a Palermo.
Questo provo a fare, quando scrivo: far venir le voglie. Come l'acquolina in bocca.
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