Non si può dire di molto, di questi tempi. Non degli argomenti più in voga, non dei più curiosi.
Lo fanno in tanti ed è come aggiungere dell'acqua al mare.
C'è un eccesso di opinioni, e nuotare controcorrente è davvero difficile.
Così, non resta che occuparsi dei dettagli, in cerca del diavolo che vi si nasconde.
Le elezioni, ad esempio.
La sloganistica lascia filtrare alcuni degli orrori che presumibilmente ci attendono, al chiuso delle camere votanti. I creativi, che svolgono adesso il compito che un tempo fu dei retori, mostrano segni d'afasia.
In uno dei primi manifesti di questa tripla campagna elettorale, ho letto di qualcuno che si dice "per il fare". E aggiunge: "Non amo la retorica". O meglio: gli fanno aggiungere, in un carattere più piccolo dello slogan principale, e in un colore biancastro, un po' sbiadito. Quasi un "a parte". Di un'ottava più basso rispetto alla battuta rivolta all'interlocutore. Ammiccante. E timido.
Ma come si fa a dire: non amo la retorica? E' come, dinanzi all'obiettivo, proclamare: detesto le telecamere.
Retorica è ciò che consente di mostrare in una buona luce le proprie buone idee.
E' politica.
Tra le tante forme di retorica, al contario, la più abusata, negli ultimi anni, è proprio quella del Fare.
Se non altro, per l'evidente sproporzione tra i Fatti maiuscoli che ci attenderemmo e i minuscoli che sollevano la nostra indignazione.
Detesto i moralismi, e ancora di più, quest'omeopatica applicazione di moralismo al moralismo di Caste e Bacchettoni. In attesa di una guarigione impossibile.
Cos'altro leggeremo, sui manifesti di questa tripla campagna elettorale?
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