giovedì 28 giugno 2012

CONVERSAZIONE CON ANTONIO INGROIA

Milioni di articoli, inchieste, libri. Giornalismo, sociologia, letteratura. Scrivere di mafia significa aggiungere carta a carta. Di tanto in tanto, dopo aver nuotato in quest'oceano, dopo aver perso la rotta tra nomi, morti e processi, il dolore e la nausea inducono a giurare: mai più. Serve un po' di tempo per tornare a rendersi conto che i mafiosi vivono senza fatica in quegli scenari che per noi divengono archivi e aule processuali, e restano invece vita reale: nel tempo della nostra disillusione (ad un capo ne succede un altro, ad un sodale un altro, ad un tesoro un altro), i mafiosi trovano nuovi alleati, e minacciano la nostra libertà. Capire è necessario, ci diciamo allora. E ricominciamo, per atto di responsabilità civile e intellettuale. Con l'aiuto di chi conosce i fatti. Antonio Ingroia, procuratore aggiunto a Palermo, ha cominciato il suo lavoro nel 1987, nel pool antimafia di Falcone e Borsellino, smantellato - dopo la guida eroica di Antonino Caponnetto - per vicende troppo lunghe e dolorose da raccontare. Al tempo delle stragi, nel '92, aveva solo 33 anni. Si è occupato di numerose inchieste. Di processi, da pm, ne ha vinti e persi. Vorrei trattare, in questa conversazione, anzitutto il tema del cambiamento della mafia da organizzazione a sistema. Formulo quest'ipotesi per tre ordini di ragioni: il ricorso di Cosa Nostra ad elementi esterni; la forte competizione criminale; la reazione istituzionale e civile. Per il resto, solo accennare, per brevità, ad alcune questioni cardine. Alla luce della sua esperienza, e delle risultanze delle più recenti inchieste, ritiene anche lei che la mafia per sopravvivere possa rinunciare ad alcune delle sue caratteristiche essenziali e mutare da organizzazione chiusa ed impermeabile a sistema? Un sistema aperto ai non affiliati, e disponibile ad inglobare organizzazioni criminali più piccole o ad allearsi con altre organizzazioni. Sono d'accordo con lei. La mafia siciliana è in una fase di riorganizzazione, in parte frutto di scelta autonoma, in parte necessitata dalla situazione. Da un lato, i duri colpi repressivi subìti ne hanno indebolito il controllo militare del territorio, e il progresso della coscienza civile ne ha minato l'ampio e spontaneo consenso popolare di cui prima godeva; dall'altro, il processo di finanziarizzazione delle proprie attività, dentro il fenomeno della globalizzazione, ha imposto ai suoi capi un adeguamento di organizzazione e strategie operative. Il risultato è che oggi l'organizzazione è meno chiusa, meno gerarchica, meno "verticale": niente capo dei capi, niente cupola, niente guerra allo Stato e così via. Molti colletti bianchi vengono inglobati nella struttura del "sistema criminale integrato" che fa blocco comune con le altre componenti che prima agivano da complici esterni, e con le altre mafie con le quali gestisce traffici illeciti. Nel contempo, è in corso anche un processo di deterritorializzazione: la mafia è meno forte e meno presente militarmente sul territorio siciliano, ed è molto più presente altrove, specialmente nelle regioni più ricche del Nord Italia. Il che, ovviamente, non significa che Cosa Nostra possa rinunciare a quel radicamento sul territorio che costituisce il suo DNA. Si tratta solo di un radicamento più diluito. C'è ancora un consenso di massa a Cosa Nostra? Ed esiste ancora un vertice unitario e collegiale di Cosa Nostra? Causa ed effetto di tutto ciò che abbiamo detto, sono un minore consenso culturale di massa a Cosa Nostra e un maggior consenso di convenienza da parte di chi trae profitto dalle proprie relazioni col sistema criminale; sistema che nel frattempo non ha più un vertice unico, strategico e gerarchico. Cosa Nostra, in particolare, in questo momento non ha un vero "capo dei capi" sul modello dei capi corleonesi, e neppure una cupola, ma organismi per la composizione dei conflitti: una sorta di "direttorio consultivo" dove incontrarsi per comporre le controversie sul territorio fra famiglie che operano su territori vicini. Cosa Nostra era governativa in un sistema politico bloccato. È ancora così? O la mafia ė divenuta meno selettiva, ideologicamente parlando, e più pragmatica? La mafia non è stata mai "governativa" per ragioni ideologiche, ma solo per interesse. Perché trae benefici dalla sua relazione col potere politico che governa ed amministra. Era quindi "anticomunista" e "antifascista" non per ragioni ideologiche, ma perché stava coi gruppi politici al governo e contro i partiti di opposizione. Infatti, era contro i socialisti quando i socialisti erano partito di opposizione, sostenne il P.S.I. quando il PSI divenne partito governativo di spicco. A maggior ragione, oggi, la mafia sceglie secondo convenienza. Chiunque sia dentro le stanze del potere, e che ci stia. È ancora efficace lo strumento della collaborazione con la giustizia dei mafiosi pentiti? Un suicidio e un tentativo di suicidio, parlo di due casi recentissimi, indicano un disagio. A che cosa si deve? Ovvio che i collaboratori di giustizia servono sempre contro un'organizzazione segreta come Cosa Nostra, ma questa è una fase difficile. Il grande isterilimento del fenomeno è dovuto principalmente a due fattori: agli effetti della legge sui collaboratori, entrata in vigore dieci anni fa e ispirata da una pregiudiziale diffidenza nei confronti dei pentiti, ma anche alla grave restrizione dei fondi stanziati per la sicurezza che si ripercuote sull'efficienza del servizio di protezione dei collaboratori. Una miscela che ha provocato una situazione di crescente disagio nel mondo dei pentiti, che si somma a quello - fisiologico - che si determina nel repentino cambio di vita del mafioso che inizia a collaborare con lo Stato, col risultato che alcuni dei pentiti hanno rinunciato a collaborare ed altri sono arrivati addirittura al suicidio. La lotta alla mafia si conduce giudiziariamente e socialmente, e non di rado i due piani si sovrappongono: si può affermare che l'isolamento dei mafiosi possa dover comportare un affievolimento di alcune libertà civili? La segretezza della corrispondenza e dei conti bancari, ad esempio. Così come accadde ieri con la lotta al terrorismo interno e accade oggi con la lotta al terrorismo esterno. Certo che la lotta alla mafia determina sacrifici, e occorre una società disposti a pagarli, anche in termini di rinuncia al massimo di estensione di alcuni diritti, come quello alla privacy (in materia di intercettazione e di controlli di corrispondenza e segreto bancario) o alla libertà personale (con l'inasprimento di regime carcerario e di custodia cautelare per i fatti di mafia). E non sempre la nostra società è disposta a pagarne il prezzo. Se dovesse tracciare un bilancio di questi ultimi anni, cosa metterebbe al passivo? Quali errori sono stati commessi e si potevano evitare? Il primo fondamentale errore sta nell'aver delegato il compito di contrastare la mafia alla sola magistratura con le forze dell'ordine. Comodo alibi per molti, che la magistratura non ha saputo ben respingere: in qualche caso, anzi, facendosene carico. Altro errore, l'aver puntato tutto sulla repressione della mafia militare senza valorizzare adeguatamente il contrasto alla mafia finanziaria ed alla mafia politica. E ancora: il liquidare, per anni, il problema mafia come legato alla questione meridionale, senza considerare adeguatamente i rischi per il Nord Italia. E infine, non aver, complessivamente, il nostro Paese, compreso quanto la lotta alla mafia convenga molto più di quella convivenza, con la mafia, che è ancora l'atteggiamento prevalente. E il principale risultato positivo? L'avere intaccato il mito dell'impunità della mafia e dei suoi complici, ed il suo controllo totalizzante sul territorio, sottraendo alla mafia quell'ampio e spontaneo consenso di massa di cui prima godeva nelle regioni del meridione d'Italia. Se dovesse abbandonare la magistratura per la politica, come proporrebbe di riformare la normativa antimafia e il funzionamento del sistema della giustizia? Con riferimento al contraddittorio tra le parti durante le indagini e nel processo, intendo. Abbandonare la magistratura per la politica? Al momento non ci penso nemmeno! Però, se dovessi dare dei suggerimenti, anche da magistrato, direi: 1) accorciare i tempi del processo: consentendo maggiori ingressi nel processo a prove scritte, ed evitando le lungaggini del ripetere verbalmente ciò che è già scritto, ad esempio, nelle informative di polizia; 2) abolire il secondo grado di giudizio, l'appello, e per tutte le sentenze di primo grado, siano esse di assoluzione o di condanna. Ieri la mafia poteva far cadere un governo o influenzare con un attentato l'elezione di un Presidente della Repubblica, e non faccio degli esempi a caso. Oggi potrebbe influenzare le borse internazionali. Ieri varammo dei reati a sanzionare la contiguità politica. E la contiguità finanziaria? Servono strumenti nuovi? Cosa fare contro la mafia finanziaria? Innanzitutto, punire, al pari di tutti Paesi a democrazia avanzata, l'autoriciclaggio: oggi è impossibile condannare un mafioso che ricicla da sé il proprio denaro illecito. E poi, recepire in Italia la direttiva comunitaria che impone ad ogni Paese dell'UE di eseguire sul proprio territorio provvedimenti di confisca definitiva emessi in altro Paese: a causa del mancato recepimento in Italia di questa direttiva, altri Paesi membri, in base al principio di reciprocità, hanno negato la possibilità di eseguire confische definitive nei confronti della criminalità organizzata italiana. Più in generale, occorre introdurre un testo unico antiriciclaggio che contenga un aggiornamento ed un adeguamento di tutta la normativa in materia. Un'ultima questione. Secondo le ultime risultanze investigative, alcun processi - per le stragi del '92 - sarebbero da riscrivere, e nel fallito attentato dell'Addaura dell'89 contro Falcone e due giudici svizzeri, vi sarebbero gravi responsabilità istituzionali. Ci sono state delle deviazioni, si dice. Come è stato possibile arrivare a questo punto? A sentenze definitive rivelatesi fallaci, intendo, e a nessuna verità sull'Addaura. A proposito di stragi e Addaura (e non solo...): quel che sembra di percepire è che troppo spesso la verità è difficile da conquistare e che per farlo occorre un Paese intero che la voglia, e che si batta per averla a tutti i costi, quella verità. A volte, la mia sensazione è che prevalga la voglia di non averla, quella verità.

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