giovedì 28 giugno 2012

UOMINI DI LAMPEDUSA

Lavoro in Sicilia, e mi è capitato spesso di raccontare storie di migrazioni. Ricordo la storia della Cap Anamur, nel 2004: una nave tedesca che raccoglieva nel Mediterraneo i sopravvissuti alle navi negriere e ai gommoni in avaria. Il comandante - che aveva salvato 37 sudanesi, poi espulsi -, fu arrestato al suo arrivo a Porto Empedocle. Ricordo di aver visitato la nave e le sue stive bene ordinate, fuori delle acque territoriali. Avevo sorvolato la Cap Anamur con un elicottero, alla notizia dell’Sos lanciato per ottenere ospitalità in un porto siciliano; poi, ero arrivato a bordo con un gommone non so più se di Emergency o di Medecins sans frontieres. Ricordo la mia amarezza. Quando hai finito le interviste e l’operatore ha terminato di girare le altre immagini che serviranno a montare il servizio – totali, particolari, dettagli -, stringi le mani, saluti e, con un po’ d’imbarazzo, vai via. Non hai scuse, e lo sai. Quegli uomini hanno detto delle cose al mondo, e non a te; vorrebbero che quelle frasi arrivassero a casa loro, con i loro volti, per le madri, i fratelli, gli amici. Tu non puoi assicurargli niente: solo un minuto e mezzo di buona volontà, ad ora di pranzo, o di cena. Quando incontro qualcuno con una storia dolorosa – come può esserlo una fuga dal Sudan, dal Ciad, dalla Costa d’Avorio, dalla Somalia, dall’Eritrea – so già che lo deluderò. Nel 2011, le storie da raccontare sulle migrazioni sono state molte, e io le ho apprese dalle agenzie di stampa, o dai post di pochi ostinati sui social network. Le storie su Lampedusa riguardavano mancati approdi e rivolte. Non vado più tanto in giro, oramai: raramente, mi allontano da Palermo. Uso il telefono e il computer, per il mio lavoro giornalistico. Al mattino, all’alba, fuori è ancora buio, sei al lavoro e scavi con la tastiera nella rete. A volte, trovi la notizia di un avvistamento. Vai testardamente in cerca di conferme o di smentite. Di dettagli. Dieci, cinquanta, cento persone disperse, in un punto radar in mezzo al mare. Hanno lanciato un Sos. Poi, più nulla. I naufraghi partono dai porti libici dopo un’odissea attraverso il deserto e i campi profughi: luoghi di violenze indicibili. E dopo lunghe settimane, mesi d’attesa, s’imbarcano e si perdono in mare. A volte, li ritrovano, li soccorrono: gli italiani, e qualche volta anche i maltesi. Fanno la conta dei vivi e dei morti. Di fronte, si trovano dei sopravvissuti. La differenza tra italiani e maltesi non è da poco. A volte gli italiani li trattengono, quei sopravvissuti, se hanno diritto a chiedere asilo. Dovrebbero esser liberi, nei centri nei quali attendono per mesi il pronunciamento della commissione incaricata di valutare le loro richieste, ma di frequente restano chiusi a doppia mandata, come nei campi d’identificazione e di espulsione. Fatto sta che nel 2011, complici le rivoluzioni del Maghreb e la pressione decisa sull’Italia traditrice dal clan Gheddafi, a Lampedusa sono arrivati in cinquantamila. Non eravamo preparati. Quel che è successo dopo, lo testimonia. A febbraio, in pochi giorni, erano sbarcati in quattromila. Il Centro di prima accoglienza, chiuso per eccesso d’ottimismo, era stato riaperto in tutta fretta. Gli sbarchi sembravano non fermarsi mai. Il 20 settembre, il Centro ospitava 1200 tunisini esasperati. D’improvviso, i più violenti hanno appiccato il fuoco in diversi punti dell’edificio, usando i materassi. Il fumo si è levato altissimo. Nero. E dal Centro, quel fumo aspro e irrespirabile è finito in Paese. La gente scappava. I migranti e i lampedusani. Le prime immagini sapevano di tragedia. All’indomani, nuova rivolta, nello stadio comunale, vicino al porto, utilizzato - dopo la devastazione del Centro - per un centinaio di tunisini. Alcuni migranti hanno minacciato di far esplodere delle bombole di gas. La polizia è intervenuta in assetto antisommossa, a suon di cariche e manganelli. Poi, anche i lampedusani si sono rivoltati: lanciando delle pietre, urlando. E si è temuto che alla violenza degli uni, dei tunisini, seguisse la violenza incontenibile degli altri, degli isolani. Chi avrebbe potuto frenarla, quella moltiplicazione di infelicità? I poliziotti, forse? No, troppo pochi, con turni massacranti e disagi insopportabili. E’ finita che Lampedusa è stata svuotata con le navi: normali navi turistiche, accuratamente devastate da chi era stato spinto nelle grandi sale, con pochi bagni sporchi per migliaia di persone alla volta. Lampedusa è un’isola generosa, e ha perso una stagione turistica. Berlusconi ha promesso fondi e leggi speciali. Secondo Save the Children, nel 2011 sono arrivati a Lampedusa 2.737 minorenni: 2.599 da soli, senza famigliari. Un migliaio di loro ha fatto la trafila dalle strutture di assistenza fino alle case alloggio. In centosei sono fuggiti (metà da Calabria e Campania, metà dalla Sicilia), e non se ne sa più nulla. Nel 2009, ho scritto un romanzo per dire della tragedia di chi parte da villaggi poverissimi e muore lungo la strada del sogno. Ho letto, per immedesimarmi e vivere quella fuga senza luce, i reportage di Fabrizio Gatti, i dossier delle ONG pubblicati su Internet e, infine, ho riletto i libri di Primo Levi. Ho chiamato il mio romanzo “Questo è un uomo”. In questa, che è forse la più grande migrazione della storia umana, i morti sono tanti. Oltre diciottomila, quelli censiti dal 1988. Come i morti di Portopalo di Capo Passero. E gli altri? E i morti lungo la strada, nel deserto africano? Uccisi dalla fame, dai predoni. E i morti nei campi di detenzione? E gli altri morti in mare? Di quanti altri non si è mai saputo nulla? Il 17 gennaio del 2012, Fortress Europe, un blog straordinario sui migranti, ha raccontato di 55 dispersi libici sulla rotta per Lampedusa. Quando cammino per strada, penso che quelli che vedo – volti neri o nerissimi, dai tratti scavati o più sottili, di una parte o di un’altra dell’Africa – sono in realtà solo dei sopravvissuti, e si portano dietro immagini e ricordi di morte.

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