giovedì 28 giugno 2012

GLI ANNI RUGGENTI DE L'ORA

Nell’anno di grazia 1900, anno di esposizioni universali e di grandi entusiasmi borghesi, il mondo girava ancora per il suo verso, nel proustiano ordine degli anni e dei mondi. C’erano ancora le avanguardie: poetiche, politiche, persino giornalistiche. A Palermo, il commendator Vincenzo Florio, armatore e imprenditore vinicolo a Marsala, per l’omonimo concorrente dell’inglesissimo Sherry, fondò un giornale che nel nome, inciso a caratteri floreali, liberty, aveva già un programma: L’Ora, come dire l’ora di muoversi, di cambiare tutto. In primisi, a dirigerlo, fu il calabrese Vincenzo Morello, inteso Rastignac, e in seguito venne anche l’aquilano Edoardo Scarfoglio, che maggior celebrità avrebbe acquisito alla guida del Mattino di Napoli. I primi vent’anni trascorsero sereni: Palermo era Capitale, nel Mediterraneo. Poi venne il fascismo che, dice Flaiano, “conviene agli italiani perché è nella loro natura e racchiude le loro aspirazioni, esalta i loro odi, rassicura la loro inferiorità”. Male però incolse al Regime mussoliniano e ai suoi podestà locali, che per censura prima spensero e poi riaccesero le rotative, affidando infine, per imprudenza, l’interruttore allo sportivissimo cronista Nino Sofia, che per sport, appunto, giocò alla fronda, al dissenso. Dopo la seconda grande guerra, la vedova dell’ultimo editore, Sebastiano Lo Verde, vendette la testata, il palazzo e le macchine ad una società guidata da Amerigo Terenzi, l’editore rosso, legato direttamente al Partito Comunista Italiano. E un giovane cronista politico del Paese, Vittorio Nisticò, fu nominato direttore. Un contratto ventennale, il suo. “Ai lettori, dunque, salute! Noi non intendiamo di fare o i maestri o le guide: ambiziosi da vecchi o da sediziosi, ma aspiriamo a diventare, modestamente e semplicemente, i segretari della pubblica opinione siciliana”. Citava il suo predecessore Rastignac, e un poco mentiva, Nisticò, nel suo corsivo programmatico, dettato al primo piano d’una grigia palazzina in purissimo stile casadelpopolo, addossata al cuore finanziario della Città, che per lapsus urbanistico sorgeva in piazzale Ungheria. Altro che segretari della pubblica opinione siciliana! I frequentatori di quella palazzina squadrata sposarono un sicilianismo eretico, quello dei Varvaro. Dal frondismo di destra si passò al frondismo di sinistra. Giacobini sarebbero stati, preti spretati per quegli ortodossi che al mattino si bagnavano nell’acqua della Moscova. Quando il mondo girava per il suo verso, coi comunisti e i fascisti e in mezzo la Democrazia Cristiana, ogni inchiesta pareva un eroico abbordaggio nei mari della malapolitica. Ogni titolo, era un trofeo, da strillare nei pirateschi vicoli di Palermo, una città che pareva la salgariana Maracaibo, fra i pescherecci ancorati al porto della Cala e i banchi di pesce e frutta al popolare mercato di Ballarò. Vittorio Nisticò ha raccontato il suo giornale in mille pagine, e nei due volumi, pubblicati da Sellerio, ci si perde e ritrova, ed è bene che il lettore abbandoni ogni pregiudizio, prima di avventurarsi nella lettura, e in quel labirinto che era Palermo mezzo secolo fa. Accadeva in Sicilia. Gli anni ruggenti dell’<> di Palermo. E’ il romanzo civile di un calabrese, Nisticò, che guardò giustamente alla Sicilia come al continente, e l’aria che ne assaporò fu sempre di mistero. Ed è come se, con tutto il rispetto, un vecchio corsaro avesse deciso di aprire il forziere, lasciando di stucco i poveri contemporanei con i frutti del suo cimento: pietre di mille colori e metalli preziosissimi. Il Vascello di Nisticò per vent’anni traversò quei sette mari, infestati di pesci lupara e pesci tritolo, e tra le ondate perse un nocchiero, come Mauro De Mauro, ucciso a Palermo dalla mafia, e qualche marinaio, Giovanni Spampinato, ammazzato a Ragusa, e Cosimo Cristina, freddato a Termini Imerese. Era già un tempo che annunciava il verso contrario, come nel ‘59 profetizzò Flaiano: “L’evo moderno è finito. Comincia il medio evo degli specialisti. L’arte è inutile, la poesia superata dagli avvenimenti. La musica è quella dei pianeti rotanti negli spazi, la filosofia finalmente si confonde nella fisica. Continuare il proprio lavoro per il progresso dell’umanità? Ah, questo è troppo!”. Meno intellettuali, i giornalisti, e anche meno pirati: più impiegati, semplicemente, negli uffici redazione. Dal forziere, Nisticò estrae i suoi ricordi, della volta che L’Ora in qualche modo propiziò il governo regionale di Silvio Milazzo, tutti insieme dal Msi al Pci, tutti tranne la Dc. Strana occasione, il menàge tra rossi e neri: un’alleanza talmente anomala che - arrischia Nisticò – fu forse benedetta da un pezzo di Vaticano (Papa Roncalli era stato appena eletto); una bomba che doveva esplodere a Piazza del Gesù e invece non riuscì, per uno scandalo forse orchestrato del Sifar, come suggerì anni dopo il generale De Lorenzo. Auspicava Nisticò che quel gesto inconsulto spianasse “la via per un cammino autonomo civile e rinnovatore della Sicilia” (24 ottobre 1958). Cinquecento giorni dopo, il miraggio di un governo regionale slegato dagli equilibri politici nazionali svanì. Da allora è stato rincorso mille volte. Racconta ancora Nisticò di quella volta che il primo capo dei capi di Cosa nostra, Lucianeddu Liggio, offeso da un titolo irriverente, stampò una bomba vera, 4 chili di tritolo sotto il portone di piazzetta Napoli. E la politica dei quartier generali, a sua volta offesa dal sostegno del giornale al milazzismo, si voltò a guardare dall’altro lato. Poi vennero i moti operai dell’8 luglio, al confronto dei quali i fatti di Genova e del G8 paiono palicu, stuzzicadenti. A Palermo costarono tre morti. L’Ora finì denunciato, d’iniziativa della Procura, per vilipendio del governo (di Tambroni). Vennero pure i dibattiti sul Gattopardo, con Sciascia e Rea, e quel Vittorini che niente aveva capito dell’opera del Principe. E la Targa Florio, e il processo a Danilo Dolci, e la caduta di Genco Russo, e lo scempio della Città dei Templi, e i ragazzi del ’68, e la strana morte di Enrico Mattei. Fu levatrice di cronisti, L’Ora, e custode di talenti. Angelo Arisco, Orazio Barrese, Letizia Battaglia (mastra di fotografia, che poi vinse il pulitzer della fotografia, il premio Eugene Smith), Roberto Baudo, Mino Bonsangue, Giacinto Borelli, Bruno Carbone, Nicola Cattedra, Felice Chilanti, Marcello Cimino, Roberto Ciuni, Aniello Coppola, Aldo Costa, Angela Fais, Mario Farinella, Etrio Fidora, Franco Foresta Martin, Giacomo Galante, Mario Genco (che a questa fatica di Nisticò ha collaborato), Mario Giordano, Tano Gullo, Salvo Licata, Gianni Lo Monaco, Alfonso Madeo, Kris Mancuso, Gabriello Montemagno, Gilberto Nanetti, Franco Nicastro, Gino Pallotta, Enzo Perrone, Giovanni e Tanino Rizzuto, Giulio Roberti, Giuliana Saladino, Alberto Scandone, Ebe Sesto, Marcello Sofia, Guido Valdini e Nicola Volpes. Fu pure palestra, e tanti si fecero le ossa, prima di andarsene in Italia. Antonio Calabrò, Giuseppe Cerasa, Francesco La Licata, Francesco Merlo, Sebastiano Messina, Giampiero Mughini, Sergio Sergi, Marcello Sorgi, Giuseppe Sottile, Alberto Stabile, Bianca Stancanelli. Marcello Sorgi, che firma l’introduzione ai 2 volumi, e oggi dirige La Stampa di Torino (forse a titolo di risarcimento per centomila emigranti Fiat), era il figlio dell’avvocato del giornale, Nino Sorgi, e il buio e il puzzo della tipografia li respirò da ragazzino. “E fui presto introdotto nel salone della rotativa: una specie di locomotiva stanca, ansimante, rumorosa, regolata con furia, a colpi di mazza, da una squadra affollata di operai, e protesa verso una enorme bocca sdentata dalla quale, incredibilmente, cominciavano a venir fuori copie nitidissime di giornale”. Mille furono poi gli intellettuali e i collaboratori del giornale. Critici d’arte e teatrali, fotografi, musicologi, registi, scrittori, sociologi. E tra di loro, Sebastiano Addamo, Vincenzo Consolo, Danilo Dolci, Beppe Fazio, Franco Grasso, Gioacchino Lanza Tomasi, Michele Perriera, padre Ennio Pintacuda (gesuita di gran razza, che difatti Cossiga voleva rispedire in Paraguay), Enzo Sellerio e Piero Violante. A partire dal 24 marzo del ’55, pure Leonardo Sciascia raccontò di libri e di zolfare, a caratteri di piombo. Nanà faceva a piedi quattro rampe di scale e arrivato nello stanzone si cavava dalla tasca della giacca un foglio ripiegato, e al capo cronista diceva né più né meno: “Non so se va bene, vedete voi”, che così, con poche e modestissime parole, ragionava il Maestro. Altri libri ci sono, altri due piccoli tesori di Sellerio, che raccontano di quegli anni ruggenti. Una biografia di Marcello Cimino (Vita e morte di un comunista soave), composta in lapislazzuli e turchesi da quell’artigiano finissimo che è Michele Perriera, tra i fondatori del Gruppo ‘63, e la riedizione di Terra di rapina, vecchio libro inchiesta di Giuliana Saladino, moglie di Cimino. Ne è passato di tempo. Nessuno si è indignato quando, alla fine del secolo scorso, correva il 1999, il Time scrisse che il boss Lucky Luciano, gran diplomatico dello sbarco alleato in Sicilia, era da considerarsi uno tra i cento “costruttori e titani” dell’economia mondiale del secolo, accanto a Ford, Disney, Gates e Rockfeller. Nessuno s’indignò, tranne appunto in questi 2 volumi Nisticò, titolare di una duecentina di querele, guadagnate sul campo da Direttore un poco frondista. E il Direttore dedica poche righe alla fine del giornale, nel ’92, quando la Nuova Editrice Meridionale, emanazione dei post comunisti del Pds, riuscì dove manco fascismo e mafia avevano potuto, ad astutare la candela accesa da don Vincenzo Florio. Forse, la ruggine si mangiò le rotative a saldo dell’antico vezzo di molti redattori di quel giornale: l’andar come salmoni, controcorrente.

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