giovedì 28 giugno 2012

KUFRA

Era un luogo di sfruttamento e di sofferenza, Kufra. Stazione di transito dei migranti che partivano dal cuore dell’Africa e attraverso la Libia cercavano di arrivare ai porti che conducevano alla Sicilia: al mare, a quel Mediterraneo che ha inghiottito migliaia di persone, negli ultimi anni. Poi, una sorta di campo profughi, simile ad un lager, secondo i racconti delle organizzazioni non governative. Avevo trasformato Kufra in Kenafra, nel mio romanzo “Questo è un uomo”. Avvicinandolo ad altri campi e ad altri tempi in cui la dignità dell’uomo era calpestata e derisa, per usare un’espressione antica: avvicinandolo ad Auschwitz Birkenau, a Bergen Belsen, a Treblinka. Avevo riletto Primo Levi, che nel 1987 - ben 42 anni dopo la liberazione da Auschwitz ad opera dei militari sovietici - si suicidò, non reggendo al dolore e alla colpa che s’ingenerò nei Salvati, in coloro che sopravvissero, a prezzo di indicibili sofferenze e di piccoli tradimenti: il pane negato all’affamato e il capo chino dinanzi al compagno che andava alle docce (sapemmo poi, affumicate di Zyklon B, un veleno micidiale a base di cianuro) e ai forni crematori. Con che animo leggo dunque, in una cronaca di giornale, che l’Italia ha ribadito con la Libia i termini di un accordo di respingimento in mare dei migranti e l’utilizzo di Kufra: di quel campo, per trattenere i migranti. Sono tempi difficili, me ne rendo conto: economicamente e socialmente. E so anche che l’Europa scarica il peso dell’emergenza migratoria in Africa sui Paesi cerniera, l’Italia innanzitutto; e che in Libia vi è un tentativo democratico, dopo la rivoluzione che ha liquidato Gheddafi ed il suo clan. Mi chiedo, tuttavia, se non vi fossero altre vie da percorrere: vie che non passassero per Kufra. I racconti dei migranti passati per quell’Oasi, dicono di dolore e di colpa: proprio come ad Auschwitz Birkenau. Di violenze e di stupri, perpetrati con il potere delle armi. Il nostro Paese, che ha conosciuto l’orrore della guerra e delle persecuzioni, non può dire: Non sapevo. Il mondo intero, quando si riseppe delle sofferenze nei lager, disse: Non sapevo. Ma sono passati 67 anni. Elie Wiesel giunse ad affermare che Dio doveva esser morto (come predetto da Nietzche), perché fosse concesso alla barbarie nazista di massacrare gli ebrei, il popolo prediletto da Dio. Racconta Moni Ovadia di un sopravvissuto che all’uscita da un campo di concentramento urlò ad un rabbino: “Il tuo Dio è morto”. E il rabbino: “Può darsi, è probabile, ma l’importante è che sia nato l’uomo”. Penso che ad addormentarsi, talvolta, siano la memoria e la pietà degli uomini. Ho letto anche una buona notizia. L’Unione Europea ha appena varato un piano strategico per combattere la schiavitù e il trafficking: il traffico di esseri umani. Milioni di persone: 21, secondo l’Organizzazione In-ternazionale del Lavoro (e un quarto di essi, minorenni); vittime di lavoro forzato, di stu-pri, di accattonaggio organizzato. Alcune misure dovranno essere adottate nei prossimi anni. Cinque le priorità: prevenzione, identificazione, protezione e supporto delle vittime, attività repressive. Ogni Paese avrà i suoi compiti, e dovrà collaborare con gli altri Paesi europei: un milione e mezzo di quei 21, infatti, risiedono nei Paesi sviluppati, e dunque anche in Europa. Kufra, però, resta: e sarà utilizzato da Italia e Libia per il respingimento dei migranti. A nessuno sarebbe venuto in mente, dopo il 27 gennaio del ’45, data della liberazione di Auschwitz ad opera dei militari sovietici, di riutilizzare quel campo: se non a fini di memoria. Mi chiedo se non si possa, se non si debba, rimediare.

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