sabato 30 giugno 2012

CONVERSAZIONE CON DI LELLO SULLA TRATTATIVA

Ci sono parole che, con il tempo, perdono di senso, di significato. Dietrologia è una di queste.
Il nostro contesto interpretativo è l’Italia (e già “contesto” è un termine letterario, per via del romanzo di Leonardo Sciascia: ambiguo per eccellenza, multiforme, e dunque adatto all’investigazione).
Anni fa, in Italia, dietrologi erano coloro che intravedevano, dietro i fatti di sangue e i rivolgimenti politici, delle trame tessute da certi poteri che agivano nell’ombra: servizi segreti italiani e stranieri, poteri economici e politici, lobbies e confraternite.
Ora, dinanzi all’esito di indagini giudiziarie e inchieste giornalistiche sulle stragi del ’92, bisogna chiedersi: che significa dietrologia? Furono dietrologi coloro che si esercitarono nel sospetto, coloro che rimasero insoddisfatti delle indagini e delle verità di Stato?
Vi fu una trattativa, dicono pm e testimoni, che coinvolse uomini della mafia e dello Stato: mentre Cosa Nostra preparava il tritolo per Capaci e Via d’Amelio.
Paolo Borsellino sapeva che sarebbe stato ucciso. Era stato avvertito. Si era preparato alla morte.
Si dice che uomini dello Stato fossero “punciuti”: che fossero passati per l’iniziazione mafiosa, che prevede una puntura di spillo, su un dito, e la fuoriscita del sangue, da cospargere su un’immagine sacra, che brucerà come le carni dell’iniziato, se tradirà.
Si dice che uomini delle istituzioni abbiano depistato, sin dall’inizio, le indagini sulle stragi.
Si dice che Falcone e Borsellino siano stati accompagnati dinanzi al plotone d’esecuzione.
Bisogna chiedere ai testimoni, ai sopravvissuti: che è successo?
Giuseppe Di Lello è stato giudice istruttore al tempo di Rocco Chinnici: testimone, dunque.
È rimasto nel pool antimafia pure al tempo di Antonino Caponnetto, con Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Poi, dal 1999, è stato deputato europeo e senatore, per Rifondazione Comunista. Ora è in pensione.
Giuseppe Di Lello ha assistito, ha preso parte; ha visto e pianto. È un esile e roccioso abruzzese di Villa Santa Maria, nel Teatino; arrivato in Sicilia dopo il concorso, nel 1971, e rimasto in Sicilia, per amore e per passione civile. Me lo ricordo, in una fotografia in bianco e nero: ad una camera ardente. Dinanzi ad una bara. In toga. Il volto più magro del solito. Un’espressione sofferente, dietro gli occhiali spessi. Forse per la morte di Chinnici, o di Falcone, di Borsellino.

Ma è possibile? Una trattativa tra mafia e Stato?
Devo fare una premessa. Sono sempre stato restio ad inseguire un complotto mondiale. Contrario ad immaginare una storia d’Italia ispirata al meccanismo servizi-mafia-complotti. La storia d’Italia è stata costruita anche da tante forze democratiche e sindacati che la mafia hanno sempre combattuto. Però bisogna dire che il depistaggio del processo Borsellino è emblematico. Non è detto che sia stato tutto dovuto al solo Questore di Palermo Arnaldo La Barbera. È solo un esempio, naturalmente. Dietro la strage di via D’Amelio, ci doveva esser dietro qualcuno che non fosse solo mafia. La Barbera era un personaggio abbastanza equivoco. Era a libro paga dei servizi. Vista retrospettivamente, questa vicenda dell’agenda e dell’invenzione di Scarantino comincia a spiegare che dietro questi fatti non poteva esserci solo mafia. Dando ragione a Falcone, che a proposito del fallito attentato contro di lui e due giudici svizzeri all’Addaura parlò di “menti raffinatissime”. Falcone aveva capito tutto. Anche che Salvo Lima non era un mafioso, nel senso che non era “punciuto”. Falcone lo disse anche a Ciriaco De Mita, che allora era segretario della DC. Lima era un punto di raccordo tra la mafia e la politica. Ma non aveva il calibro del mafioso. E lo sapevano anche i mafiosi. Forse, era anche un po’ millantatore, avendo offerto una specie di assicurazione sull’aggiustamento dei processi. E prendeva i voti dei mafiosi.

Forse l’assassinio di Lima fu un colpo tirato a freddo contro Giulio Andreotti: non doveva essere eletto Presidente della Repubblica. E Capaci, potrebbe esser stato il colpo di grazia.
Fu a mio parere un fatto accessorio, un danno collaterale. L’attentato di Capaci era stato preparato con anticipo. Così come quello di via D’Amelio, nonostante l’accelerazione decisa dopo la morte di Falcone.

E gli Stati Uniti? Non avevano mai visto in Andreotti un interlocutore credibile. Troppo filo arabo, e in un momento molto difficile.
Penso che gli Usa avessero l’obiettivo di combattere la mafia. Tennero in custodia per noi Buscetta e Marino Mannoia, facendoci un gran favore. E Buscetta parlò dei Salvo e di Andreotti.

Gli Usa però non cedettero mai un altro loro detenuto: Gaetano Badalamenti. E Badalamenti, contrariamente a Buscetta, era stato un capo: il capo di Cosa Nostra in Italia. E se avesse parlato Badalamenti?
Avrebbe fatto luce sui reali rapporti tra mafia e politica. Buscetta parlò solo, e bene, di mafia militare. Ma tenne per sé molti segreti. E tacque di sé. Non era stato un capo, ma forse, immagino, aveva ucciso, con le sue mani. Si pensa che lo abbia fatto. Era uno degli affiliati ad un clan sanguinoso, quello dei La Barbera. Ma di questo, con noi, non parlò mai.

Più volte ho pensato a Cosa Nostra come ad un’agenzia criminale, sul mercato, e non come ad un’entità criminale a se stante.
Le due cose non sono in contraddizione. Credo che la mafia abbia agito anche su impulsi esterni ma badando sempre ai suoi interessi.

Parliamo di omicidi politici. Nel ’78, le BR e chissà chi altri uccidono Aldo Moro. Nel ’79, la mafia – e chissà chi altri – uccide Michele Reina. Nell’80, tocca a Piersanti Mattarella. Tutti e tre, democristiani. Tutti e tre, protagonisti di aperture al PCI: a Roma, a Palermo, alla Regione. Tutti e tre, morti. Con loro, finisce la politica di solidarietà nazionale.
Non c’è dubbio che se devi uccidere qualcuno di importante in Sicilia non puoi non passare per quest’organizzazione criminale. E dunque è possibile che se altri volessero la morte di Reina e Mattarella, siano passati per la mafia.

Si è sempre detto, però, che per Reina e Mattarella vi era un movente mafioso: non un semplice uso strumentale della mafia da parte di terzi. E i depistaggi cominciano subito. Per Reina, s’assistette ad una messinscena con finte rivendicazioni terroristiche, da parte di BR e Prima Linea: e le indagini s’incagliarono. Per Mattarella, fu cassata la testimonianza della vedova, testimone oculare dell’assassinio, che aveva riconosciuto nel terrorista nero Giusva Fioravanti il killer del marito, e si seguì la pista debolissima di un piccolo appalto di mafia.
Mi è sempre sembrato strano che un Presidente della Regione potesse essere ucciso per un appalto relativo alla costruzione di sei scuole. Ma non c’è dubbio che si è sempre voluto trovare un movente mafioso per omicidi che potevano rispondere anche ad altre logiche. Anche per quanto riguarda il Generale dalla Chiesa, nominato Prefetto di Palermo. Se la mafia avesse voluto uccidere tutti i Prefetti di Palermo…

E il suo posto, lo prese Emanuele De Francesco, ex capo del Sisde. E Bruno Contrada è stato numero 3 del Sisde. E il Sisde compare più volte: persino nelle indagini su via D’Amelio.
I servizi segreti in questo Paese sono sempre stati determinanti. Il potere politico non si è mai mostrato capace di domarli. Fino al Caso Pollari. Prodi lo ha nominato al Consiglio di Stato.

Proprio come Vincenzo Parisi, ex capo della polizia al tempo delle stragi ed altro ex capo del Sisde. E la questione della collaborazione tra mafia e Stato? Ora s’indaga su una trattativa. Anzi: la trattativa.
Noi l’avevamo sfiorata, quella collaborazione. Ma gli strumenti a nostra disposizione erano quelli di una magistratura con poche armi, con una legislazione normale. Basti pensare alla tecnica delle intercettazioni, come si è evoluta. Noi ce li sognavamo, i tabulati e le localizzazioni GPS. E l’apparato giudiziario, aggiungo, era quel che era. Basti rileggere i diari di Rocco Chinnici. Falcone poi non aveva gran fiducia nel reato associativo, nel 416 bis: preferiva fosse riscontrato da reati specifici. Voleva fatti concreti. Erano certo tempi diversi, che impedivano di andare a fondo di determinate complicità tra mafia e pezzi dello Stato, a pena dell’interruzione di ogni collaborazione reale. Falcone ne era consapevole. Era molto difficile andare a fondo di determinati filoni d’indagine. Era un sistema – quello delle relazioni occulte – che funzionava perfettamente. Arrestare un uomo che fosse una tessera del mosaico, avrebbe significato trovarsi addosso l’intero sistema. Ricordo di un mio amico, un magistrato galantuomo che lavorava a Roma e indagava sul terrorismo neofascista: chiamava a deporre dei graduati delle varie forze dell’ordine e quelli, semplicemente, non si presentavano. Cosa devo fare, mi chiedeva?

Il sistema blindava i suoi uomini più esposti. Poi qualcosa è cambiato. È arrivato il ’92. Tangentopoli. Oliviero Tognoli – snodo importante del riciclaggio di denaro sporco, a Milano - era stato indagato anni prima, a Palermo. Dopo il fallito attentato dell’Addaura, Falcone dichiara: “(Non) sembra da trascurare il fatto che proprio i colleghi svizzeri (Carla del Ponte e Claudio Lehman, suoi ospiti all’Addaura e con lui bersagli dell’esplosivo, ndr) in quel periodo stavano occupandosi di indagini soprattutto finanziarie riguardanti notissimi esponenti della mafia siciliana. In quel procedimento, allora in corso in Svizzera, non tutto è chiaro circa i ruoli di Vito Roberto Palazzolo, Leonardo Greco, Salvatore Ammendolito e Oliviero Tognoli; né credo che soprattutto quest’ultimo abbia detto per intero la verità sui suoi collegamenti con la mafia siciliana su inquietanti vicende riguardanti la sua fuga da Palermo subito dopo l’emissione di un ordine di cattura nei suoi confronti (…)”.
Si scopre questo canale di riciclaggio: un canale unico, per tangenti e mafia. L'inchiesta Mani Pulite aveva dei legami con l’Isola. C’è Raul Gardini che d’improvviso compra Pizzo Sella, terreno di una delle più grandi speculazioni di quel tempo, a Palermo. E si suicida prima di dire quel che sa. S’era suicidato anche Michele Sindona. Il quale non era un uomo di mondo: era uno che aveva detto cose simili a quelle pronunciate da Gaspare Pisciotta prima del suo “suicidio” (ex braccio destro del bandito Salvatore Giuliano, ndr). Molte cose non verranno mai fuori. Nessuno ha interesse a farle venire fuori.

Dai nuovi processi sulle stragi potrebbe venir fuori la verità, finalmente?
Io ho fiducia di sì. Se all’interno di questo Procure si vuol cercare qualcosa di nuovo. Gli archivi non bastano. La frase “aprite gli archivi” non ha senso senza una diversa intelligenza degli eventi.

La conversazione finisce, e Giuseppe Di Lello mi suggerisce un libro. Un diario, che racconta del funzionamento di certi poteri. E capisco che la mafia è sempre la mafia, ma non ha più il monopolio della violenza. Il potere è altrove.

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