martedì 17 luglio 2007

PALERMO COME METAFORA



In una celebre intervista, rilasciata trent’anni fa a Marcelle Padovani, Leonardo Sciascia parlò della Sicilia come Metafora, ed ora, la Linea della Palma – proprio come Sciascia aveva previsto - si è spostata a Nord, con mafie e corruzioni.
Era rischioso descrivere la Sicilia come metafora letteraria di un malessere, dire che solo a partire dalla Sicilia, dalla sua straordinaria concentrazione di senso, poteva esser compresa l’Italia. Era una profezia, per alcuni, e un insulto, per molti.
Oggi è solo una malinconica ammissione parlare di Palermo come metafora della banalità dei tempi nostri, e della banalità del male, con Provenzano e i suoi boss “normali” come burocrati nazisti.
Un’altra parte della metafora che è Palermo si trova nella notte brava di un paio di ragazzi: ripresi da una telecamera di sicurezza mentre incidono teschi e scritte sulle vetrine blindate di ventidue negozi del centro. Danni per centinaia di migliaia di euro.
Niente mafia, però.
Per gli investigatori, è un’intimidazione senza pizzo, una violenza senza contropartita: degna conclusione di una sera tediosa dinanzi al Teatro Politeama, con i ragazzi tutti uguali, per capelli vestiti parole, illusi, mascherati e illuminati dalle insegne, come in uno studio televisivo.
La metafora di Palermo comprende città diverse: la città della noia e dell’indifferenza; la città violenta, mafiosa; la città che usa il linguaggio universale dell’arte e della letteratura; la città che preferisce il racconto nudo e crudo della violenza che l’attraversa (e con ciò, si ripiomba nella noia, in una spirale senza fine).
Palermo era più affascinante, un tempo: città magica, popolata di fantasmi, incantamenti e maledizioni.
Serviva un non siciliano perché Palermo tornasse ad accorgersi d’aver perso tutto, nello scambio. Emanuele Crialese, con il suo Nuovomondo, ha inscenato una storia di sradicamento, e non una semplice cronaca d’emigrazione.
Il sottosuolo di Palermo, però, è ancora ricco di quelle materie prime che servono a far Letteratura. La tentazione di accontentarsi di quel che sta in superficie, però, è fortissima.
“Le metafore”, sostiene Michele Perriera, “scelgono luoghi pericolosi dove incarnarsi: come Palermo, dove ciascuno può giocarsi tutto quanto, d’improvviso”.
Perriera ha settant’anni e qualche medaglia sul bavero. Partecipò all’unica guerra d’avanguardia del secondo Novecento: il Gruppo ’63, che quell’anno fu consacrato dalla contemporanea presenza, a Palermo, di numerosi scrittori, poeti, filosofi. Balestrini, Eco, Malerba, Sanguineti, fra gli altri.
Perriera ha insegnato, a scuola, e ha scritto, da critico letterario, su un quotidiano: ed era il “L’Ora” di Cimino, Farinella, Nisticò, Saladino, Sottile e tanti altri. Poi, l’avventura del teatro.
Era una Palermo delle anime morte, quella descritta da Perriera nella sua autobiografia, Romanzo d’Amore, che si sarebbe detta sorella di Praga, Cracovia, Budapest, Berlino est. A risvegliarla, fu il miracolo dell’als ob, del “come se”: ci si ribellava con il teatro e con la musica, come si vivesse altrove.
Nei primi anni Settanta, Morte per Vanto, che Perriera trasse dal Doctor Faustus di Christopher Marlowe, coinvolse decine di persone: giovani attori, scenografi, costumisti, assistenti (ed essi furono il primo embrione della sua scuola di teatro, il Teate’s). Vennero poi le regie sui testi di Beckett, Cechov, Durrenmatt, Ibsen, Ionesco, e - primato assoluto, in Italia - di Harold Pinter.
Nei libri di Perriera, e pure nell’ultimo, La Casa (pubblicato da Sellerio), c’è una parola che ricorre, o di frequente si nasconde tra le righe, ed è Passione. Occorre accostarle un’altra parola: Trasfigurazione.
Ecco il tabù da infrangere: si può amare Palermo e farne Letteratura? Trasfigurarla?
Alla domanda, Perriera risponde con i suoi libri.
Prendete un uomo comune, coi suoi piccoli sogni, i suoi piccoli gesti quotidiani, i suoi piccoli amori, e reggendolo per le spalle, come un soldatino di piombo, estraetelo dal suo piccolo mondo e inseritelo nel mondo magico in cui è possibile ogni cosa.
Nella Pietroburgo di Gogol, una mattina, l’assessore Kovalev perde il naso.
Nella Praga di Kafka, lo studente Gregor Samsa si ritrova nel corpo schifoso di uno scarafaggio.
Nella Palermo di Perriera, il capocommesso Francesco perde la casa: per il suo acquisto ha contratto un mutuo. Nessuno sembra credergli. Nessuno osa testimoniare d’averla vista, quella casa gialla, del colore della follia. Francesco prosegue la sua battaglia solitaria per la verità. Fino al sacrificio.
Se ne ricava che l’uomo comune non sa guardare a sé, non sa agire, quando sul suo capo pesa l’amministrazione di un potere che tutto controlla, e tutto vuol sapere. Una disgrazia che sia infinitamente più grande del quotidiano stillicidio di sopraffazioni e violenze, lo induce invece ad atti imprevedibili. Il nuovo status magico snatura l’uomo comune, sia egli Kovalev, Gregor o Francesco: ne fa un eroe.
Francesco, il capocommesso, riesce a farsi un’idea precisa del perché la sua casa sia improvvisamente scomparsa: sa dell’esistenza di un Potere maiuscolo, più elevato della mafia. Il sospetto - termine carissimo all’eretico Perriera - è che, più elevato della mafia, non sia altri che la condizione universale della mafia.
“La mafia è ubiqua - dice Perriera - e ha a che fare con il ricatto dell’uomo sull’uomo. Si trova ovunque, ma nel Sud questo fenomeno è formidabile. Qui s’avverte il pericolo dell’esistenza, e anche il sogno dell’esistenza. Questo carattere - la speranza contro ogni speranza, che induce a vedere il mondo nel suo segreto - è a mio modo di vedere profondamente commovente. La mafia è uno dei tanti poteri segreti del nostro mondo. La politica è sempre stata un artificio. La realtà vera e profonda è il Potere, il mistero che sta dietro alla politica. Immaginare e raccontare il mistero è il compito di uno scrittore: non quello di raccontare una vicenda più o meno mafiosa. Siamo circondati, corrosi, dalla prepotenza. Riuscire a cogliere l’origine della prepotenza e i suoi modi di procedere è l’arte dello scrittore vero”.
Essendo Palermo gravemente malata di mafia, allora, la tensione al Fantastico dovebbe esser naturale.
“E invece, si ha paura dell’ambiguo, del complesso. Solo dove c’è profumo di ambiguità e complessità, però, c’è verità”.
Il crimine descritto nel libro consiste nel privare un uomo dell’intera gamma delle sicurezze possibili.
“Volevo narrare la testimonianza della sparizione: stupita e angosciata, come un viaggio verso una verità differente da quella consueta, un viaggio verso una verità da ricercarsi nel nostro inconscio, nel nostro mondo interiore. Francesco è importante per me, mi rivela della Metafora Palermo il carattere quasi innocente, e insieme catastrofico: quest’uomo apparentemente normale ha scoperto l’immaginario e il mistero”.
Questo romanzo ha un tono epico, è una sorta di rivelazione. Poteva svolgersi solo a Palermo, o anche altrove? Nella Los Angeles di Raymond Chandler?
“Amo molto Chandler. Sì, poteva svolgersi altrove. Ma non a Los Angeles. Gli alberi che stanno intorno alla casa, le betulle, sono l’indicazione di altri luoghi: la Russia, la Scandinavia”.
E’ una Palermo insolitamente gelida, questa.
“Lo è, infatti. La passione è trattenuta dal fatto d’essere esposti all’esperienza”.
Nel romanzo, ci si auspica che nessuno pronunci la frase sciasciana sull’irredimibilità di Palermo.
“Di Palermo, amo la dimensione universale. Palermo è insieme barbara, nel senso più bieco del termine, e di grande intelligenza, nel senso più delicato della parola. Palermo è una città che sa quali trucchi si nascondono nel mondo, quali passioni si svolgono segretamente nella vita reale”.
Si può trascurare quella dimensione universale? Nuovomondo sembra invitare a seppellire una parte dell’opera di Leonardo Sciascia, quella più legata alla cronaca dei suoi tempi, e a restituirla alla storia.
“Io scrissi una stroncatura di Sciascia, quando scriverne male significava esser condannati alla fame. Scrissi male del Contesto, di quel romanzo saggio che parlava del Pci. Era la banalizzazione di tutto”.
Sciascia fu stroncato dal Pci. E tu, da chi fosti stroncato per la tua stroncatura?
“Da nessuno. Fui circondato dal silenzio: tipico del Meridione. Ancora oggi si dice che Il Contesto fosse un bellissimo libro. Anche Sciascia per lungo tempo è stato frainteso: il suo meglio è nelle sue pagine fantasmatiche, nei suoi primi racconti e negli ultimi suoi libri, La Strega e il Capitano, Il Cavaliere e la Morte e Una storia semplice. Sciascia nascose per lungo tempo questa sua vocazione all’immaginario, che alla fine si manifestò in modo fortissimo”.
Si può dire: Sciascia è morto, viva Sciascia?
“E’ quel che dissi”.
Forse non è quell’intervista, Sicilia come Metafora, che sconcerta e sorprende, oggi. Nero su Nero, semmai. Nero su Nero puoi consultarlo come certi cabbalisti fanno col Pentateuco, come certi mistici fanno la Bibbia: aprendolo a caso, e indovinando, nei pressi del primo lampo dell’occhio, i significati oscuri della giornata. Frammenti di memoria.
“Palermo ricorda tutto: ogni vicolo, ogni strada, emanano ricordi. Palermo sa tacere, però”.
I fatti de La Casa partono dalla necessità dell’inverosimiglianza.
“L’immaginazione ha il fine di rendere più credibile la verità, e di scoprire i segreti più profondi e impegnativi dell’inconscio”.
Nell’America del Sud, da Jorge Luis Borges a Gabriel Garcia Marquez, il Fantastico è stato la chiave d’interpretazione del moderno. Al centro del Mediterraneo, in Sicilia, questa chiave si è smarrita, tempo fa, inspiegabilmente.
“C’è un modo di essere della Letteratura e dell’Arte in generale che, in tutte le epoche, guarda oltre le apparenze: in particolare, fra gli scrittori di lingua spagnola. Nella Vita è Sogno, di Calderon de La Barca, nel Don Chisciotte, di Miguel Cervantes. Il meglio delle letterature meridionali è la letteratura dell’Immaginario, che trova la sua radice più fertile nella trasfigurazione, nella forza creativa dell’autore, della città, del mondo. In Italia questo fenomeno è rarissimo: la vocazione al realismo è quasi maniacale. Il nostro passato più forte è romantico e realistico. Penso a Manzoni, o a Verga, il quale, tuttavia, pur essendo uno scrittore realistico, fu un campione dell’immaginario. Come ad esempio furono Beniamino Joppolo e, nelle pagine migliori del Gattopardo, Giuseppe Tomasi di Lampedusa, e uno dei suoi racconti, Lighea, è straordinario”.
In mezzo, c’è Lucio Piccolo.
“Ovviamente”.
E l’erotismo? Il più grande romanzo erotico del Novecento italiano, Il Gattopardo, è sterile come don Fabrizio. Non ha lasciato eredi.
“Nella nostra letteratura, l’eros è tra le righe. L’eros è il ritmo. Il movimento immaginario che percorre il testo ha il carattere di un amplesso. Gran parte della letteratura siciliana è un amplesso mascherato, e buona parte di questi amplessi mascherati la si ritrova nella letteratura meridionale di tutto il mondo”.
Palermo può esser metafora, dunque, se capisco bene, solo se rinuncia ad un realismo esasperato, se impara ad usare nuovamente, come in passato, la chiave del Fantastico, se torna ad indossare le vesti magiche di un tempo.
“Il luogo della Metafora non può che essere un luogo pericoloso. Palermo è una Metafora perché la città ha già alle spalle l’analisi della realtà, e può partire da qui verso una solitaria capacità di sognare, di fantasticare. In questo momento, c’è la tendenza a pensare che senza realismo non c’è letteratura, ma solo infelicità. Io sono dell’opinione contraria: senza realismo, c’è la capacità di vedere oltre la tenda, oltre il sipario. Possiamo restituire la vita alla sua teatralità più profonda, solo a patto d’esser lontani dal realismo più spicciolo, che oggi ha una diffusione veramente scioccante: i libri che si pubblicano sono impressionanti per banalità e per ovvietà. Nello studio del Teatro mi sono consapevolmente opposto all’Accademia d’Arte Drammatica, al luogo della manifestazione realistica della recitazione. Sono convinto che la grande lezione della storia della letteratura stia in fenomeni notissimi, amatissimi e male interpretati. La tragedia greca, il teatro elisabettiano, insieme a Calderon, Cervantes, Borges. Borges è il segno di una visione del mondo che viene dalle dimensioni più intricate della nostra psiche”.
C’è la magia, c’è l’inconscio, e c’è la fede, a Palermo. La fede dei mafiosi, ad esempio, raccontata nel Codice Provenzano, di Salvo Palazzolo e Michele Prestipino (pubblicato da Laterza), con il Boss e i suoi accoliti, numerati secondo una precisa gerarchia d’importanza e vicinanza al Capo, che parlano costantemente di Dio, di Gesù Cristo, della Madonna.
Qualcuno, tra i boss, rivela il proprio disappunto per quelle parole di Papa Giovanni Paolo II, che ai mafiosi disse “Convertitevi”.
“Karol Woityla era un Papa fortissimo, un conquistatore di anime”.
E Joseph Ratzinger, invece?
“Credo che Ratzinger sia capace di quell’ossessione del mondo che può dar luogo alla rivelazione: con dolcezza, con una specie di rarefazione dello spirito. Questa è un’età molto banale, corrotta, penosa, complessivamente insopportabile. L’insopportabilità di questa vita è il fondamento di ogni idea importante”.
Forse, questa conversazione anti-illuminista non riguarda solo la Letteratura.

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