sabato 22 settembre 2007
DIARIO DI UNA ESCORT
Sono una persona per bene, cosa credi? Vivo in affitto, risparmio e non fumo. Mai passata con il rosso. Non ho nemmeno la macchina! Pagherei pure le tasse, se potessi. Tutte quante. Dalla prima all’ultima lira. L’ho chiesto, una volta, a un politico. Fai una bella legge, con i tuoi amici, per farci pagar le tasse. Lui mi ha guardato come fossi diventata scema e si è messo a ridere. Un sorriso stretto stretto. Misurato. Preoccupato. Se tu paghi le tasse, mi ha detto, devi indicare chi ti ha pagato. Devi rilasciare una fattura, tenere un registro contabile. E se vuoi allargarti, metti un’insegna per strada e i fotografi si piazzano con il coso, con il treppiede, dall’altra parte del marciapiede. Con le telecamere. La tua faccia diventa quella di una professionista. Tipo in America. La squillo dei vip. E la mia, diventa la faccia di un cliente, sui giornali, insieme alla tua. Io non ho voglia di esser fotografato, messo in copertina come uno – scusami tanto, neh? – che va a puttane. Tengo famiglia. Niente scandali. Un tipo onestissimo, però. I suoi soldi, lui come tutti gli altri, me li dà in contanti.
Mille, 2 mila euro. La tariffa è di 5 mila, per un week-end lungo. Pagati da venerdì a domenica, quest’anno, in un albergo svizzero. In montagna, sulla neve. Come due ricchi stronzi. Fuoristrada a noleggio e abiti sportivi. Quando è successo, l’amico, uno di quarant’anni, mi portava in giro, mi pagava per la mia faccia, la mia classe, i miei occhiali da sole a specchio, e per gli sguardi invidiosi della gente, sulle piste. Per la carrozzeria. Niente robaccia, bello, è tutto naturale. Mi pagava anche per il sesso, naturalmente. Io ero a disposizione, quando gli faceva comodo, in camera. Una camera doppia: la suite costava troppo. Al mattino, doveva essere una specie di caccia grossa. L’orso all’attacco e io che scappavo via, terrorizzata. Dopo pranzo, a parti rovesciate: una cosa lenta, passiva. Io a far quasi tutto. La sera era totalmente sfinito. Un colpo e via. Stanco morto.
Io, invece, non me la posso permettere, la stanchezza. Ho un istruttore personale, in palestra. Il trainer. Lo pago, lo so io quanto, per mantenermi elastica. Lui non sospetta nemmeno che il mio secondo lavoro sia quello più importante. Non sa neanche che ce l’ho, un secondo lavoro. Gli piacerebbe scoparmi gratis. E anche a me piacerebbe. Ma dovrei smetterla con la fitness. E lui, il ragazzo, è davvero bravo a farmi sudare. Un’ora al giorno che non si regge… Per lui, sono la signora Tal dei Tali, nel commercio. Una che ha un sacco di soldi.
In palestra non ho mai agganciato. E per la verità, io non aggancio mai. Non per lavoro. Ma è in palestra, sugli step e sui tapis-roulant, che ho conosciuto il mio fidanzato. L’ultimo: 32 anni, scolpitissimo. Un destino da avvocato, stabilito da due generazioni: dal nonno e dal papà. Solo che lui ha lasciato casa e ora fa l’agente immobiliare. Guadagna da far paura. Uno squalo bianco.
Ci vedevamo nei fine settimana. Liberi cinque giorni su sette. Intesa perfetta. L’ho lasciato un anno fa, quando stavo per dirgli tutto: gli avrei chiesto di decidere. Poco prima, avevamo avuto una piccola conversazione. Parlavamo di donne e di uomini. Di donne che si fanno campare e degli uomini che le campano. Parlavamo di una donna molto bella, che ha un solo cliente: uno famoso, più vecchio di lei di trent’anni. I due si sono sposati. Hanno anche fatto un figlio. Il mio fidanzato ha cominciato a scherzarci su. Poi ne ha dette un paio che mi hanno fatto star male. Niente moralismi, ha detto, non siamo mica all’oratorio… Ha fatto tutto un giro di parole per dire che lei aveva tutto il diritto di salire sul banchetto e lui di comprarsela all’asta. Ho pensato che non avrebbe retto alla rivelazione: era fatto in modo diverso da come me lo ero immaginato. La scorza era troppo dura. La polpa doveva essere troppo morbida. Per forza.
Se gli avessi detto tutto, sarebbero state lacrime. O insulti: più probabile. Ho fatto finta di niente e 15 giorni dopo, gli ho telefonato e gli ho detto che non provavo più niente per lui. Eravamo stati insieme per tre mesi. Abbastanza… L’ha presa bene. Andrà avanti così. Senza impegno. E tra vent’anni, quando si sarà stancato del tran tran, se ne troverà una con la metà dei suoi anni. Sicuro.
Non si piange. Sono io che ho scelto. E ho fatto bene. Un’ora dopo la telefonata, ho preparato una borsa, ho chiamato un taxi e sono andata in treno fino a Bologna. Ho viaggiato in prima classe. Lì fanno ancora a gara ad alzarsi per cederti il posto.
Ho un altro amico, lì a Bologna. Uno che lavora in campagna. Un bel tipo da pubblicità, da manifesti all’Autogrill. La faccia allegra e tutto il resto. È uno che vende salumi in mezzo mondo. Roba di qualità. È uno che sa scegliere bene. Ha due ex mogli, tre figli, un pochinino di pancia ma niente di grave, una Maserati, una villa in collina e una villa al mare. E poi, dulcis in fundo, ha me. Che non è poco, se vuoi. Siamo stati a cena con un paio di suoi amici, una coppia malissimo assortita, a festeggiare i suoi 52 anni. Pensavo che lei fosse lì come me, a lavorarsi il tizio. Poi, non appena i due hanno cominciato a parlar di soldi e di affari, di vecchie case e buone occasioni, il mio amico ha tirato su la mano: «Ohi, ma siete scemi? È il mio compleanno. Mica una riunione». E quelli hanno fatto finta di offendersi. Poi, lei ha tirato fuori dalla borsetta di Prada una busta, con una fotografia in bianco e nero. «Guarda che la casa è questa» gli hanno detto. E lui è rimasto a bocca aperta. «Noi abbiamo cacciato l’anticipo. Il resto devi mettercelo tu. Buon compleanno». Sai cos’era il regalino? La casa dov’era nato il mio amico, quella dei suoi genitori. Erano anni che tentava di comprarsela, come in un film. E loro, c’erano riusciti. Una roba americana. Carramba che sorpresa!
Abbiamo passato la notte a ricordare. Sua madre, suo padre, i suoi fratelli. Non proprio tutta la notte, per la verità. Prima si era messo a giocare. Giochi da ragazzini. Chissà cosa gli era tornato in mente... Un gran porco, però. Porco come i suoi porci. Simpatico da far paura. Poi, mi ha raccontato della sua famiglia. Al mattino, mi ha riaccompagnato alla stazione centrale: 1.500 euro in contanti e un bacio in fronte. Ho temuto d’essermi giocata un amico. Una specie di conversione, una roba religiosa. Mi ha richiamato dopo tre giorni, per fortuna. Diceva che ne aveva già le scatole piene, del restauro della casa di mamma. Voleva andare in vacanza, in Africa, a Natale. Con me, che già conoscevo un poco il continente. Tariffa piena. Per le spese, nessun problema. Copriva tutto lui. Viaggio, vitto, alloggio, extra ed escursioni. Un vero signore. Si è sposato per la terza volta, adesso. E mi ha scaricata. «Sai com’è» mi ha detto. «Metto la testa a posto». Se avessi un commercialista anche per questo lavoro, starebbe ancora piangendo.
Io viaggio moltissimo. In aereo, per lo più. Ho una Millemiglia stracarica di punti. Viaggio anche sugli aerei privati. Un mio amico, un grassone francese, uno del cinema, una canaglia, ne ha una piccola flotta. Un jet e due vecchi aerei a elica. Vecchi è solo un modo di dire. Sono due aerei di lusso: pelle e radica di noce dappertutto.
Niente alcol. Mai. E niente droga. La cocaina e le altre schifezze. Le pillole. Devi essere sempre all’altezza. Guardare lontano. Il mio è un lavoro pulito. Il guantino e il medico non bastano. Servono solo a evitarti una malattia tra dieci anni. Tutto il resto, quello che paghi subito, lo sputtanamento, è roba di un attimo. Basta passare per una che cerca di guadagnarci a ogni costo. Basta perdere la classe. Gira la voce e i clienti ti evitano come se avessi la lebbra. Ogni tanto sparisco, per un po’, e una volta su due non rispondo al cellulare. È una cosa volgare farsi trovare sempre a disposizione. Come rifarsi con il silicone. Da disperate. Meglio una ruga che un canotto.
Sparisco, quando non ne posso più. Metto la segreteria telefonica. «Sono fuori. Se vi va, cercatemi tra un mese. Non lasciate un messaggio». C’è un posto dove vado sempre e non mi conosce nessuno. Ho una casa piccolissima, da due anni. Tre stanze, un caminetto e una mansarda. È la mia casa. Quella dove riesco a dormire fino a tardi, a far la spesa, e a cucinare. Ci tengo i miei quadri. Un patrimonio. E i miei libri.
Quali libri leggo? Roba triste. Vecchia. Non ti dico Carolina Invernizio ma quasi quasi. Sono una romantica. Non mi credi? Basta vedere quanto amo la mia casetta. Era un rudere, quando l’ho trovata, su internet. Volevo comprar qualcosa e l’ho trovata a 3.500 chilometri da Milano. L’ho rifatta pezzo per pezzo, piano piano. Una rompiscatole, con l’impresa: pagavo in contanti, volevo il massimo. Le cose, i mobili, i piatti, la biancheria, li ho comprati là vicino, a due lire. È lì che andrò a vivere, tra qualche anno. Ci andrò a passare la pensione. Conosco già tutti. E loro non conoscono me. Non completamente.
Qui non ho nessuno da salutare. I miei amici, certo. Ma sapranno consolarsi presto, senza di me. Il mercato è sempre in fermento. La mia famiglia? Sono una figlia unica, e i miei genitori sono morti, tempo fa.
Che cos’altro vuoi sapere? Come ho cominciato: ci scommetto. È la curiosità di tutti quanti. I primi cinque minuti sono sempre dedicati ai complimenti e alla confessione. Cinque minuti imbarazzanti. «Sei fatta bene. Ma com’è che hai fatto? Sì, insomma, a far questo mestiere, la escort?». E io, tranquilla, per non mortificarli, gli rispondo che la Escort, per quello che ne so, è una vecchia macchina, orrenda, da due lire, di periferia. Io, invece, sono una gran signora. Una spider di lusso, che così belle ne vedi solo a Portofino, a Monte-Carlo. Un’Aston Martin. L’hai mai vista un’Aston Martin, da vicino? Se la sfiori, la capisci subito la voglia di saltarci addosso, a una macchina così.
Facciamo che è andata così. Ero in vacanza, un’estate, in una città sull'Adriatico, per caso, con tre amici. Tre ragazzi. In tenda. Una sola tenda. Ambiente molto promiscuo. La sveglia tardi. Un panino. I pomeriggi al mare. Niente ombrellone e sdraio, che costavano una cifra, già a quei tempi. Si stava sull’asciugamani a scottarsi, senza crema. E poi la cena, con la pizza, su una panchina, e alla fine, la discoteca: fino al mattino dopo. Una vita da animali. Da infarto.
Dopo una settimana, i ragazzi hanno litigato. Se le sono date di santa ragione. Calci e pugni. Senza una ragione apparente. Erano gelosi, immagino. Di me. Sono scesa dalla macchina e sono entrata in un bar. Ho chiesto di telefonare. In quel cesso di bar, davano tre stanze a pensione. La padrona, una bionda rifatta alla meno peggio, ha ascoltato la mia telefonata. Ha cominciato a farmi domande. Le ho raccontato tutto. Mi ha lasciato stare per due giorni. Centomila lirette in tutto. Le ultime. Quando alla Posta sono arrivati i soldi dei miei, sono tornata a casa, in treno.
L'anno dopo, la signora mi ha proposto un lavoro estivo. Vacanze gratis in Riviera. Lì ho incontrato uno. Mi ha aspettato fuori, fino alla fine del mio turno, e mi ha portato in giro. Ho passato con lui la notte che immaginavo e al mattino mi ha lasciato un regalino: il mio stipendio di un mese. Ho riso e pianto. Mi sentivo Pretty Woman. Mi era piaciuto. E ci avevo pure guadagnato. Senza sentirmi in colpa. Dopo una settimana, la signora ha capito e mi ha messa alla porta. Lui mi ha subito preso una casa in affitto. Insomma, è stato l'inizio e la fine di tutto. Lo sbaglio e la lezione. La lezione era che non c'era niente che io non potessi fare. Lo sbaglio era pensare che quel che avevo fatto, l’avrei potuto fare sempre.
Con quello lì è durata abbastanza. Aveva moglie e figli. Una famigliola esemplare. E un sacco di soldi da spendere in allegria. Non me ne sarebbero capitati tanti di quegli uomini. Anche se ho un privilegio, io: posso scegliere, non è che vado per strada a battere. Sono una professionista.
Vuoi che ti dica una cosa vera? Vado ai materassi con degli sconosciuti, a volte. Molto raramente. E se non mi piacciono, sparisco. Se mi richiamano al cellulare, rispondo con una scusa, o non rispondo proprio. Ho un giro piccolissimo, e controllato. Niente alberghetti miserabili. Niente serate al ristorante per far casino. E non c’è una sola foto mia su internet. E sì che ci ho pure il book.
È di quando pensavo a far la modella. Le passerelle, le fotografie. Un sogno da ragazzina. Mica avevo illusioni, però. Sapevo già come andava il mondo. Avevo fatto le mie esperienze. Pensavo che con il mio personale e con due salti sul divano, avrei pure potuto farcela. Un mese dopo, ho mollato. Mi avevano fatto fare il giro delle case, ed era tutto un gira gira di ragazze a dieta, con il naso rifatto e le narici infiammate. Mi è rimasto solo il book. In un cassetto. Ma sono rimasta una modella, per un po’. Fa tanto per l’immagine. È l’etichetta che fa il prezzo: il trucco e il bel vestito. Non quello che c’è dentro.
Lavoro all’antica: contatti diretti. Telefono. Mai avuto un uomo, un protettore. E nemmeno un agente. Si fanno chiamare così, adesso, ma la sostanza è sempre quella.
Di filmetti, non ne ho fatti mai. Non so se mi piacerebbe. Un amico avrebbe voluto presentarmi a un suo amico: una specie di produttore, diceva. Mi ha raccontato di certi film che non finiscono nei pornoshop o nelle edicole. Film che si vendono a migliaia di euro. Per un solo cliente. Il protagonista. Ho detto di no. Non mi era piaciuto, il lavoro. Non avevo capito se glielo dicevano, prima delle riprese, al cliente, che era il protagonista di un film, e quanto doveva pagare per avere l’originale. Hai capito di cosa sto parlando? Era un giro di quelli pericolosi. E io non ho voglia di far la pedina di qualcuno. E così, ho salutato l’amico. «Non m’interessa il settore scandali» gli ho detto.
Va tanto, per ora. Lo so bene. Va sempre bene. Vuoi sapere cosa penso della signorinella pallida che stava per restarci secca col deputato? Semplice: è lei che ha torto. Torto marcio. A parte la coca, che, se è quello lì che l’ha portata in stanza, lei poteva pure rifiutare. E poi, se ci fosse un albo professionale, la signorina sarebbe da radiare di botto: non per la droga, chi se ne frega… Il fatto è che non si parla mai dei clienti. Mai, mai, mai. Negare sempre. È parte del contratto. Figurarsi se si possono dare i nomi, i numeri, i soldi. Alla polizia. Ai giornali.
E poi, ho un’altra regola: lavoro con un cliente alla volta. Uno che mi guardi negli occhi. Ho detto no anche alle mogli e alle amichette. Si fa in due e stop. E senza macchine fotografiche né telecamere. Cosa mi piace? Mi piace quello che faccio. Mi piace il piacere. Piacere e provare piacere. Non è solo godere.
Ci sono due modi per fare del sesso come si deve. C’è quello dove siamo perfetti in due. Vedi la mia pelle? La senti? Seta. Cotone. Velluto. Niente smagliature. Niente grasso, rotolini. Niente cellulite. Quanti uomini conosci che possono dire la stessa cosa? Sono pochi. E sai cosa? Sbagli di grosso se pensi che gli uomini perfetti non vanno mai con una puttana. Con quel genere di uomini, io devo entrare in competizione. E sono io che perdo, per dovere professionale, anche quando posso vincere facilmente. Faccio finta, capito? Il copione è sempre quello. Facciamo a chi si stanca prima. Una scopata occidentale. Oppure, niente scopare. Guardare. Sognare. Straparlare. Qui ci sarebbe da scrivere dei bei libri… Che tenerezza!
Poi, ci sono gli uomini che se ne fregano dell’aspetto fisico. Non è che diventano dei mostri. Ma non seguono diete tibetane e non fanno dieci chilometri di corsa al giorno. In questo caso, io devo dare il meglio di me. E tiro fuori lo spirito orientale. Yoga. Un uomo che si scopre capace di una resistenza di un’ora, e che un’ora dopo lo rifà, è un uomo che improvvisamente torna a essere sicuro di sé, felice. E io, per loro, per i miei amici, sono una vera artista. Impagabile.
Per capire queste cose, non devi studiar molto. Devi solo rallentare. Il ritmo cardiaco, il respiro. Devi capire che le cose per andar bene, devono solo andare più lentamente. Ma gli uomini lo hanno dimenticato. E sai perché? Hanno impiegato migliaia di anni per farsi di coccio. Di pietra. Un poco alla volta. Vale per tutti, il discorso. Se vai più lento, dopo un po’, capisci di cosa sto parlando. Se vai più lento, e osservi con attenzione chi ti sta di fronte, o sotto, o sopra, capisci cosa sta pensando il tuo amico, o la tua amica. Capisci di che cosa ha bisogno. Cose che magari non ha mai trovato il coraggio di confessarsi. E godi di più. Ovviamente. Si dice riportare a lamiera. Io faccio questo. A richiesta. Riporto gli uomini a lamiera.
Sono nata al Sud. Nata lì e dopo due anni, via. Ma sono proprio un’altra persona, adesso. A parte la scuola, l’ambiente, è la Riviera che ti smonta e ti rimonta. Ed è lì che ho fatto gli anni duri, d’estate. Si parla chiaro, da quelle parti. E impari che d’oro, il tesorino, non ce l’ha nessuna. Te lo spiegano che hai 14 anni. Dopo l’estate al bar, non sono più tornata. Non definitivamente, voglio dire. Ho fatto la barista, la fattorina, la commessa. E mi sono iscritta a un corso di gestione alberghiera. Due anni, tutte le mattine. Lavoravo, studiavo, e arrotondavo: con quel tizio. Poi, è finita. Quando doveva finire. Io, nel frattempo, avevo messo da parte un tesoro. Il corso prevedeva di far pratica. Mi è toccato un piccolo albergo. Facevo quel che il titolare mi diceva di fare: lui dava le indicazioni generali, e io pensavo al resto. A bottega. Fino all’esame finale. Dopo tre mesi, il titolare dava retta più a me che al suo socio. Dopo sei mesi ero ancora lì, stipendiata. Per quel che facevo nella sua stanza, sul divano, sulla scrivania.
Mentre stavo con lui, lavoravo con altri amici. Poi, ho aperto un bar tutto mio. Avevo finalmente una copertura. E potevo cominciare a spendere quel che guadagnavo.
Se ho paura che possa succedermi qualcosa? No. Devo solo stare attenta. Anche alle cose che sembrano senza importanza. Ti faccio un esempio, per capire. Una volta ero stata a cena con un amico. In casa di amici suoi, con tanta gente. Uno ha capito la situazione. Dovevano esser state le abitudini del mio amico, a incuriosirlo, certe sue vecchie storie. I raccontini da maschi. Per farla breve. Qualche settimana dopo, a una festa, in un locale frequentato da amici (altri amici, non di letto), ho incontrato il furbo, quello che aveva capito tutto. E lui ha subito iniziato a farmi la corte. In modo discreto ma insistente. Mi ha divertito. Mi ha fatto ridere. A un certo punto, però, ho visto che parlava con un altro tizio. Il tizio ha cominciato a fissarmi. Io ho smesso di ridere. Ho preso la mia borsa e sono scappata via.
Non mi metto in mostra, in vetrina. Pensavo che quei due avrebbero diffuso la voce, e che il mio quasi anonimato fosse oramai prossimo alla fine. Mi ha preso una gran paura. Il furbo mi ha chiamata al cellulare, l’indomani. Aveva capito perché ero andata via così in fretta. E voleva scusarsi. Aveva detto al suo amico, che era arrivato in macchina con lui, che sarebbe stato meglio se si fosse trovato un passaggio, per tornare a casa. E quello aveva capito: la ragazza di fronte, seduta al bancone, da sola. Il furbo ha chiesto di vedermi. Io gli ho detto di sì. Per rassicurarmi. Mi sembrava una persona perbene. Uno giusto. E poi, ho cominciato a vederlo con regolarità.
Ma se fosse stato uno scemo… Rischiavo di cambiar mestiere. Perlomeno. Di paura vera non ne ho mai avuta. Non per questo lavoro. Devo dire tanti no. Stare sul chi vive. Il mio è un giro niente da ridere. Di gente coi soldi. Di gente che vive in un modo che neanche si immagina. Tante volte, quello che vedono i miei occhi e sentono le mie orecchie è roba top secret. E io me ne dimentico in fretta. Sono come un medico: il paziente prima di tutto. E poi, mica posso mettermi a rovinar dei bravi padri di famiglia.
La polizia o la Benemerita, poi, non possono contestarmi nulla. Decido di me come mi pare. Le Fiamme gialle mi preoccupano un po’ di più, sinceramente. Ma io vorrei pagar le tasse. Cosa credi? E più di tutto, ho paura dello sputtanamento. Ho un sistema. Chi vuole stare con me deve chiedermelo direttamente, senza intermediari, e deve dirmi il nome e il cognome dell’amico che lo manda. Io dico che ha sbagliato, e chiudo. Se mi garba, faccio un controllo, e se va tutto bene, allora se ne riparla. Tutti garantiscono per tutti. Una catena di Sant’Antonio. Posso sbagliare, certo, ma finora ha funzionato.
Vuoi sapere come funziona? Praticamente? Della richiesta di appuntamento, sai tutto. Mi vesto morbida. Niente di appariscente. Tutto a finire sopra il ginocchio. Tengo gli occhiali. E sono pure veri. La perversione della segretaria, no? Ho un paio di gradi in meno.
Mi piace che quando ci vediamo per la prima volta, sia tu a inseguirmi. Parlo poco. Ti guardo, di sfuggita. In modo che tu te ne accorga, ovvio. Ti seduco. Come se mi piacessi davvero. Santo cielo, potrebbe anche capitare... Mi aspetto che sia tu a provarci. Ti struggi un po’… E alla fine, c’è la giusta soddisfazione.
C’è quello che parla tanto, che finge d’essere uno di mondo, e che parla di figa come se fosse entrato col carrello al supermarket della scopata: a un tanto al chilo, sullo scaffale. Insopportabile. Devo esser brava brava brava. Se capisci cosa penso di te, è finita la magia. E se penso che sei un cretino, addio al contante. E comunque, devo farci il callo. Uno su tre è sempre un cretino. Sempre, t’assicuro. Ho le mie statistiche. Anni e anni d’esperienza…
Se l’atmosfera t’imbarazza un po’, dico io, è pure meglio: è la donna che comanda in queste cose. Se sei tu che resti in disparte, sono io che piano piano devo tirarti fuori del guscio, come un tartarughino. Magari sei stanco di comandare: in ufficio, in fabbrica, a casa tua. Andiamo a cena, generalmente. Senza troppa fantasia.
Ci sono volte, quando siamo fuori, lontani dalle città, che azzardiamo quel po’ di vita normale... E ci scappa pure una passeggiata. Ma sono cose che costano, sai? Paghi tutto il pacchetto. Oppure, si va dritti alla questione.
Niente casa mia. Dove vivo, pensano a me come a una comune mortale. In un buon albergo. O a casa tua. Se ti devo spiegare, è come se ti dessi la chiave della macchina. Perdo il controllo di me. Tu puoi spogliarmi, strusciarti, far quello che ti pare. Senza andare a sbattere, ovvio. Attenti alla velocità. È un’illusione che dura poco. Ricomincio subito a guidare. E se serve, non te ne accorgi nemmeno. Se capisco che può venir fuori una buona serata, che possa piacere anche a me, stai tranquillo che ci metto il sentimento. Il massimo che posso aspettarmi, poi, da una serata, è che piaccia anche a te, e che ti piaccia davvero: se la usi, la fantasia, o se ci abiti, nella tua fantasia. È qui che ci possiamo perdere davvero.
Che cosa c’è di spontaneo nel prendere un appuntamento con due settimane d’anticipo, con una che conosci poco o non conosci affatto? E se arrivi in tachicardia, dopo aver preso la pillolina, il coso, il Cialis, il Viagra, è fatta. È solo fatica di gambe e addominali. Per te e per me.
Sennò, è tutto naturale. Di pilloline, io non ne tengo. Ed è questo il bello. La tua testa, il tuo sangue che circola e che va su e giù, e che finisce da quelle parti. È una gran bella fatica, se hai passato i vent’anni. Io apprezzo la buona volontà, e poi non rischi l’infarto. Ti do una mano. Hai tempo per la battuta. Qualcosa di più. Chiaro. Devi farti un ripasso di tutte le materie, se è roba naturale. Elettricità. A ogni contatto, è una piccola scossa, che finisce da tutte le parti. Il tempo che serve, a far tutto, è poco, se ci pensi. Bisogna dilatarlo, il tempo. È tutto un lavoro di testa. In cinque minuti è una roba da marito e moglie. Un’ora è da professionisti. Con due ore siamo all’opera d’arte.
Prendi il bolognese che ti dicevo prima. Nelle mani ha il ricordo delle salamelle riempite a una a una. Ha due mani, il bolognese, che paiono badili. Una forza che non ti dico. Se io mi perdo, in quelle mani, finisco in una specie di ottovolante. E alla fine, c’è il giro della morte.
Con lo sportivo, in montagna, è una corsa al record. Tensione nervosa e risate da copertina. Anche se poi, nello specifico, ti dà anche soddisfazione. Mica un pivello… E io non sto mica con le mani in mano.
Quanti sono i politici che si servono dalla sottoscritta? Vuoi i nomi? Le abitudini? Gli indirizzi? Passa ad altro. Te l’avevo detto. Niente rivelazioni.
Cosa vorrei fare dopo? Dopo questa parentesi? Intanto, ci vuole un po’ di tempo. Sono messa ancora bene, mi dicono. Me la cavo. E poi, se tra un anno mi capita Richard Gere col mazzo di fiori a far la serenata dalla strada, non so se resisto. Dico davvero.
Faccio il miliardo di Paperon de Paperoni e poi mi ritiro. Pazienza per le tasse arretrate. Vuol dire che farò una donazione. Beneficenza. C’è gente che ha bisogno. Voglio fare un sacco di viaggi. Ne faccio tanti anche adesso. Viaggi di piacere. Ho visto un po’ di mondo. L’America da tutte le parti. New York. Washington. I parchi naturali. La Scandinavia. D’estate. Anche il Polo Nord. Ma mi piace Berlino, più di tutto. È la capitale del mondo. Lì potrei lavorare alla luce del sole. Con il sindacato delle puttane, le ferie e un conto in banca. E se uno scemo si mette a dar fastidio, puoi chiamare la polizia. Non guadagnerei di meno. È sempre il mercato che decide. Se c’è l’offerta, stai sicuro che c’è pure la domanda. A Berlino sono stata tantissime volte. Sai che cosa mi piace? Sono una qualunque, a Berlino. Sulla metropolitana. Per strada. Mi ci vedi nei musei? Quasi non faccio altro, a Berlino. Vado per musei. Poi mi piace Parigi. Mi piace Londra. Vado a comprar vestiti, lì. Gli aerei costano un niente. A Palermo, invece, ci sono stata per lavoro. Mi ricordo l’aeroporto, il mare. E una villa antica, in periferia. Era uno che ci aveva tre o quattro cognomi. Alla fine, mi ha regalato una specie di carta preziossima della sua famiglia. Roba del Quattrocento, almeno. Ce l’ho ancora, da qualche parte.
E poi, l’Africa. Quella nera: ci andavamo con gli aerei e le jeep, e sui camion. E l’Oriente. L’India. La Thailandia. Tutto quello che non finisce sulle cartoline e sui giornali. Le rovine, le baracche, le ragazzine per strada e quelli che partono da Berlino o da Roma a dargli la caccia. Con i dollari in tasca. Sai quanto mi fa schifo questa gente? Sono quelli che vorrebbero dire a me come ci si guadagna da vivere onestamente.
Ecco, voglio viaggiare. Nella mia seconda vita voglio vedere cose nuove. Anche le cose brutte. Mi sento come se avessi imparato tutto quel che c’era da imparare, a far questo mestiere. E invece, ci sono tante cose che non so.
Volevi un raccontino che poi finisce con me in bianco che faccio due bambini e vivo felice con un bel giardino? La redenzione, no? Non sarebbe difficile. Ho pure un lavoro vero. Il bar. Ho tre persone che lavorano per me. Perché il primo lavoro non l’ho mai mollato. E mi va anche benino, adesso. Mi piacerebbe. Un bel film. Una vita nel peccato e poi, finalmente, un uomo che mi salva. Ma ce ne sono rimasti di uomini così? Fammi sapere. Mi raccomando. E paga il conto. Io ho preso solo una minerale.
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2 commenti:
Stupendo racconto, complimenti. Da donna appoggio la tua richiesta di legalizzazione!!
Da una coppia di colleghi comprendiamo ogni singolo vocabolo di cui hai fatto dono ai tuoi lettori. Il lato sgradevole di questa vita è che il sesso diventa lavoro e spesso il lavoro non è più vero sesso. Comunque siamo liberi di lasciare .. ma in fondo siamo così bravi. Una coppia consapevole.
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