sabato 12 aprile 2008

NEL CRETTO RIVIVE GIBELLINA

I vecchi passeggiano tra i vicoli del Grande Cretto e additano i luoghi della loro vita precedente, senza un filo di tristezza, sapendoli ben conservati, nella loro memoria, e sotto quella pietra dolce senza iscrizioni: la Chiesa, le case, e le putìe, i negozi, delimitati dal filo dei solchi.
Le vecchie foto in bianco e nero di Gibellina, conservate al Museo della Fondazione Orestiadi, raccontano di un paese abbarbicato al fianco scosceso di una collina esposta ai venti.
Le case, tutte affacciate sulla valle, dinanzi alla scena verde e gialla delle stagioni, erano più alte davanti, con un piano terreno per riparare gli animali e conservarne il calore, e più basse di dietro, con un solaio per dormire.
C'erano le fontane, e la piazza. Ovunque, le scale, ripide come sentieri di montagna, e ostinate, come l'erba che cresceva in ogni loro interstizio. Acchianate e scinnute si facevano a dorso di mulo, e più spesso a piedi.
Chiudi gli occhi, e al Cretto rivedi ogni cosa.
Le donne portavano il bummulo di terracotta pieno d'acqua sulla testa, avendo appreso il segreto dell'equilibrio.
Gli uomini trascorrevano le settimane in campagna: a badare alla terra, madre di frumento, e agli animali: pecore, per lo più. Il sabato, la pelle cotta dal sole, o ispessita dal freddo e dalla neve, i cristiani se ne tornavano in Paese, ed era grande festa, allora.
Chiudi gli occhi, e al Cretto rivedi ogni cosa.
Gibellina era lontana dal mondo. Il suo tempo era quello del Feudo, come le sue coltivazioni: feudali, estensive, sulla terra ancora risvegliata dall'aratro e assaggiata dall'uomo, che ne masticava per saperne di ferro, di sali e di argilla, e indovinarne il parto di spighe.
Terra assaggiata e masticata, e ingravidata dal sudore, ancora nel 1968, nonostante le lotte contadine degli anni Quaranta e Cinquanta; nonostante la morte dell'arciprete che aveva incrinato l'abside con le sue grida: niente mafia, e niente feudi!
Chiudi gli occhi, e al Cretto rivedi ogni cosa.
Nel pomeriggio del 14 gennaio, un pomeriggio di sabato e dunque di festa, la terra si mosse. Le case oscillarono, scosse da una forza sovrumana. La frustata precipitò fuori tutti quanti: le facce giarne, scantate.
Aveva nevicato, e faceva freddo, in quel presepe, tra i vicoli di Gibellina.
Puoi osservarli ancora, nel Grande Cretto, mentre si interrogano, muti, sul da farsi; mentre soffia un vento sordo, minaccioso.
Ci fu chi decise di non sfidare l'ira di Dio, e se ne restò fuori, tutta la notte, battendo i denti, stretto nelle coperte, e chi se ne tornò a dormire, a fianco al braciere.
Poi, Dio, che pure il suo l'aveva fatto, dicendo a chi aveva orecchie per sentire che il tempo di Gibellina stava per arrivare, prese i fili delle profondità della terra e li scosse nuovamente, e stavolta le case di pietra e di tufo si fecero di polvere, il sangue scorse per gli scaluna, le cappelle del cimitero, squinternate, liberarono i morti.
Ci fu un attimo in cui si zittirono pure i vermi.
In quella notte brillavano molte stelle. Tutte sapevano, e tutte volevano esserci, e illuminare quei poveri Cristi.
Il primo lamento, forse, fu di un bambino. Piansero tutti, poi. Mentre provavano a togliersi di dosso i conci, i cantuna. Le pietre.
Era l'Italia del 1968.
Io me ne stavo a Palermo, e quello del terremoto è il mio primo ricordo. Di me, in braccio ad uno zio, in ascensore. Il palazzo aveva oscillato come un metronomo alle prese con un Improvviso. Al nostro tredicesimo piano, i letti s'erano ubriacati, e sbattevano da muro a muro.
Palermo non sapeva ancora di Gibellina. E nemmeno di Calatafimi, di Partanna, di Poggioreale, di Salaparuta, di Salemi, di Santa Margherita Belice, di Santa Ninfa.
Disgrazia nella disgrazia.
L'esercito ripeteva le esercitazioni di sempre, coi vecchi fucili regalati dagli americani. Non s'intendeva di Protezione Civile. I francesi vennero dieci giorni dopo, coi cani. Sguinzagliati a fiutare le carogne.
Gibellina contò centoundici morti. Finì che i vivi s'asciugarono le lacrime e rimisero i morti vecchi al loro posto, insieme ai nuovi; e dalla sera alla mattina, si ritrovarono con niente in mano; nelle tende; con le quarare di rame annerito a cuocere sulle pietre.
Li aspettavano vent'anni di baracche. Fogli di lamiera. Con l'Eternit sulla testa e l'amianto nei polmoni.
Quando i vecchi tornano al Cretto, si dicono: “Finìu u tempu di barracchi”. E qui, si capisce che la malinconia è per il ciauro di pomodoro e basilico che si diffondeva per la baraccopoli, per i picciriddi scalzi che giocavano sulle pozzanghere, per il primo panificio e la prima gioielleria, e la prima sala trattenimenti, che in quella città di ferro arrugginito avevano riportato la speranza. Nonostante i ritardi dei politici, ai quali aveva fatto appello Danilo Dolci, nel 1970, con la sua Radio, a Partinico, la prima libera d'Italia, con una trasmissione durata 27 ore e interrotta dai Carabinieri.
Gibellina ebbe pure un secondo terremoto. Quando il profumo dei piccioli arrivò a Palermo, a Gibellina mandarono ruspe e dinamite, per l'inevitabile trionfo del purissimo stile Geometra che contraddistingue non meno di trecento città siciliane.
Le rovine resistettero.
Ora, bisogna dire che, in Sicilia, la morte è sempre accompagnata da una rinascita che vuol contraddirla: per puntiglio, per principio. Così a Ragusa, a Noto, a Modica, a Catania, dopo il terremoto del 1693; così a Messina, dopo il terremoto e lo tsunami del 1908.
Prima che quel nefasto 1968 si chiudesse, a Gibellina elessero sindaco un giovane deputato, Ludovico Corrao, che era eretico e cristiano. Cristiano sociale. Testimone di quell'eresia politica che era stato il governo Milazzo, qualche anno prima, coi fascisti e i comunisti insieme contro Roma e la Democrazia Cristiana.
Corrao, che sarebbe rimasto Sindaco per quasi trent'anni, conosceva Berlino. Sapeva di Hansaviertel, il quartiere che dopo la seconda guerra mondiale era stato tirato su dalle visioni architettoniche di Aaalto, Gropius, Niemeyer.
Sapeva pure di Nietzsche, Corrao, a volerci scommettere: della Nascita della Tragedia, e di Apollo e Dioniso.
Corrao, dunque, che sapeva del mondo, si trovò subito d'accordo con Alberto Burri. E i gibellinesi videro che non era triste quel Sacrario.
Ad un'idea sacra, infatti, riuscì a dar forma il cemento dolce e bianchissimo versato sulle rovine e sulle molecole dei morti.
Non era il primo Cretto al quale Burri avesse lavorato, ma quello di Gibellina fu il Grande Cretto.
Un segno bianco come un lenzuolo. Un sudario dinanzi al quale, la Democrazia Cristiana di Gibellina affisse manifesti che protestavano per la follia delirante di Burri e Corrao.
Burri voleva che quelle rovine restassero, sotto il Cretto. Non si può ricostruire, pensava. E bisogna dare pace al morto. Dorma con le sue pietre.
La sua anima, però, pensava Burri, era ancora viva: Gibellina, che era greca e forse elima, in arabo era Piccola collina, e secondo altre traduzioni, Gazzella che corre sulle colline.
Altri non ebbero il coraggio.
Oltre la collina che si alza ad Oriente, c'è Poggioreale, coi suoi fantasmi, tra le rovine ancora appese le une alle altre, e i conci di questo tufo gessoso che della vicina Salemi, Shalom, tra le capitali dell'ebraismo isolano fino alla cacciata del 1492, facevano dire: “Unni viditi muntagni di issu, chissa è Salemi, passaticci arrassu. Sunnu nimici di lu Crucifissu e amici di lu Satanassu”.
Fu poi Salemi che regalò a Gibellina i vigneti sui quali far sorgere la città nuova, a venti chilometri da qui. Ludovico Corrao, che sapeva di Berlino e di Nietzsche, di Modica e di Messina, volle radunare due generazioni di scultori, fieri oppositori della retorica della statuaria.
Pietro Consagra, e Pomodoro, Cascella, Franchina, Mirko, Quaroni, Uncini, Staccioli. Per non dirne altri. E per tacere di architetti, urbanisti, pittori, scenografi.
Fecero le sculture, fecero i palazzi, fecero pure i drappi che a Pasqua le processioni recavano per i solchi del Grande Cretto che una volta erano stati le acchianate e le scinnute di Gibellina.
Diceva una vecchia profezia degli ebrei di Salemi, che mai sarebbe caduta, Salemi, come Gerusalemme.
Senonché, potrebbe intendersi, la profezia, a rovescio, e per esteso: E' volere di Dio che essa rinasca, benché distrutta, e che dia i natali a città nuove.
Salemi, dunque, ospitò Gibellina nuova. Alla quale si accede passando per la Grande Stella di Consagra, che ripeteva la visione che da queste parti, a Castelvetrano, ebbe una notte Goethe guardando attraverso un foro nel tetto di una locanda.
A dar carne alla nuova Gibellina, sono anche la Chiesa Madre, con la sfera cristiana e il parallelepipedo mussulmano; il Teatro; la fermata degli autobus; la fontana; l'orto botanico; la casa del farmacista; il corso; i giardini segreti; i palazzi; il sistema delle piazze.
Visioni. Come il gigantesco aratro di Pomodoro.
A Gibellina vecchia, nel 1985, Burri mise mano al Grande Cretto. Sei anni dopo, chi teneva la mano sul rubinetto dei soldi, decise di chiuderlo, lasciandolo incompleto.
Chiudi gli occhi, e al Cretto rivivi ogni cosa.
Vedi i primi giorni di lavoro.
Gli ingegneri, i capimastri, i bracci e i mezzibracci che pazientemente tentano di persuadere Burri a scegliere tutt'altra mescola, per quel sudario. L'umbro, imperturbabile, risponde che vuole un cemento che non sia liscio come il basalto. Preferisce un tessuto poroso, come la spugna dei polmoni.
Vedi i primi sopralluoghi. I gibellinesi. Corrao. E altri eretici. Buttitta, Guttuso, Sciascia. Il sole andava da Oriente a Occidente, altissimo, così luminoso che faceva notte sotto le rovine.
Ora, Burri se ne é andato, Consagra riposa nel cimitero nuovo che lui stesso ha disegnato, protetto dai più bei cancelli che un cimitero possa vantare.
I nervi e i muscoli del Cretto, le armature di ferro, si sono rigonfiati, per la ruggine. La stoffa del sudario si è strappata.
Prima del restauro, già deciso, apriranno dei Cantieri di Conoscenza. Per studiare. Per vedere.
Chiudi gli occhi, e al Cretto rivedi ogni cosa.
Le rappresentazioni teatrali degli anni Ottanta. Thierry Salmon, e le sue Troiane. L'Oresteia di Xenakis. Le comparse erano i giovani e i vecchi di Gibellina. Le macchine. Le scenografie. Di Scialoja. Di Paladino.
I concerti degli anni Novanta. Franco Battiato accosciato su un tappeto, dinanzi a migliaia di persone.
Le musiche di Philip Glass, per una regia di Bob Wilson.
Se oggi guardi il Cretto, vedi che il bianco si è fatto grigio, e che il grigio è tornato a macchiarsi di giallo e di bianco, del tufo e del gesso delle cave di queste parti.
L'erba s'insinua come una volta sulle scale. Burri non voleva che la tagliassero, d'estate. E' la vita che torna, diceva.
Chiudi gli occhi, e vorresti non vedere più le pale degli impianti eolici che un'impresa ha voluto incistare sulla collina, proprio sopra il Cretto, con il benestare del Comune. Corrao non è più sindaco da quattordici anni.
Lungo i solchi, vedo tre cantuna, l'uno sull'altro. Tre pietre gialle, in prossimità di una ferita, del ferro arrugginito. Preferisco pensare che li abbiano sistemate delle mani pietose per accompagnare il riposo dei morti.

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