giovedì 24 aprile 2008

UNDICI VARIAZIONI

La scrittura piena di svolazzi e la firma, con quella Effe svettante verso Occidente, erano senz'altro di don Felipe, che conoscevo da lunghi anni. Il mio nome, abbellito da alcuni recentissimi titoli, al suo confronto appariva miserabile.
Nella sua lettera, mi lusingava con il ricordo miracolosamente dettagliato di un'udienza reale alla quale avevo preso parte, alcuni anni prima.
Il Protocollo aveva previsto che io e gli altri magistrati della Real Corte di Giustizia ci schierassimo, coi nostri pastrani, dinanzi alla statua che nel Palazzo Normanno raffigurava un uomo alquanto pensieroso; e che attendessimo lì il passaggio della Famiglia Reale, Dio Guardi.
Dopo quel far velo al pensieroso sconosciuto, compito dei giudici era di condursi rapidamente e in tutta dignità fino alla Sala del Trono – nel tredicesimo ordine, dietro la Nobiltà di sangue, l'Alto Clero, i Generali di tutte le Armi e la Nobiltà terriera, e prima dei Capitani del Regno – per rendere omaggio ai Sovrani, Dio li Conservi.

Vi chiedo dunque – diceva don Felipe, Duca de Valencia y Cordoba – di porvi alle mie dirette dipendenze, per il tempo che vi occorrerà, ospite presso il mio Palazzo, a Palermo, e di arricchire la mia Biblioteca con un saggio del vostro preziosissimo pensiero.
In considerazione della Vostra benemerita esperienza, in seno alle Corti della Corona di Spagna, Dio La Protegga, desidero che voi componiate una mirabilissima opera d'invenzione su quella perigliosa arte del navigare tra le ragioni del Bene e del Male: nel giudicare colpevoli e innocenti per l’esclusivo abbisogno del Regno.
Arte, la Vostra, del Giudicare, che il nostro popolo, sempre in procinto d'affogare nel mare delle rivoluzioni, induce all'obbedienza.
Auspico che quest'opera sia l'esca d'accensione delle nostre facoltà intellettive, sopite dal silenzio.

Era una sorta di gioco, per don Felipe.
Dietro quel linguaggio ampolloso, quelle formule così vaghe, si nascondeva un losco disegno: attrarre uno stimato magistrato a riposo, e farne un Eretico Civile, al riparo delle mura del proprio Palazzo.
Avrei formulato, in apparente libertà, la più severa delle accuse contro la Spagna e le sue Leggi: dicendo dei processi, delle pene, dell'arbitrio, delle carceri.
Nel segreto, avrei vergato una Teoria del Bene e del Male.
Sarebbe rimasta nelle sue mani, ed io, se pure fossi uscito da quel Palazzo, non avrei più vissuto un giorno senza chiedermi se i gendarmi, per strada, non stessero cercando me; se il Capitano mio genero, che con mia figlia aveva preso possesso di un piano del nostro modesto Palazzo, parte di un’eredità ricevuta da mia moglie, non avrebbe cancellato nel sangue la vergogna di un mio arresto per alto tradimento.
Ebbi per un attimo la tentazione di sfuggire a quell’invito. Mi dissi, però, che non avrei potuto sottrarmi. Don Felipe era tra i primi Famigli della Santa Inquisizione di Spagna.
Scrissi dunque la mia risposta, e la consegnai al Valletto più giovane affinché di corsa la recapitasse al Palazzo del Duca.
Salutai mia moglie e i miei famigliari come se non dovessi più rivederli, e nel congedarmi da essi, rivolsi partitamente alcune raccomandazioni.
La prima è che nessuna denuncia della mia scomparsa era da presentarsi, nel caso in cui non avessi più fatto ritorno.
Poi, dissi dell'uso del patrimonio, della salute e degli studi dei nipoti, il primo dei quali sarebbe nato entro poche settimane, da mia figlia Eleonora.
La carrozza era pronta. I bagagli erano stati preparati e caricati in pochi minuti.
Guardai le vie di Palermo e mi sorpresi ad osservare i volti dei mendicanti. Loro erano liberi. Il Cassaro era illuminato da un sole ardente come il volto del Diavolo.
Fui ricevuto dal Segretario del Duca, un giovanissimo sacerdote portoghese, di bell'aspetto, devotissimo al Sacramento e ancor di più, si diceva, al suo padrone.
Padre Alfonso mi condusse fino alla scala di marmi rossi e verdi, e sollevando appena la sua tonaca, mi fece segno di precederlo.
Spolverai la mia giubba, impolverata dal vento libico di giugno, e varcai la porta che conduceva allo studio privato del Duca.
La grande sala era deserta. La porta si richiuse alle mie spalle.
Gli affreschi, sulle altissime volte, raffiguravano le dispute olimpiche, ed i volti maschili erano indiscutibilmente quelli di Dionisos e Apollo, benché una mano pietosa avesse pennellato i nomi di Pietro e Paolo, coprendo di un velo nero e avorio piedi e zoccoli degli Dei.
Sull'imponente scrittoio di quercia, vi erano dei preziosi volumi rilegati in pelle. Ne scorsi un paio. Origene e Tertulliano. Feci appena in tempo a riporli, che alle mie spalle udii la voce tonante del Duca.

– Dovreste leggerne, don Alejandro. Dobbiamo protegger le nostre anime, esposte ai pericoli dell'eresia e del giudaismo.
– Stavo ammirando i vostri libri, e questa biblioteca, così...
– Così insultante, per la Fede. E così bella, come immagino foste per dire.
– Il Maligno usa le armi della Seduzione.
– E del Pensiero. Per questo, l'Indice abbisogna del suo contrario. E' bene che si scrivano dei libri proibiti, e che alcuni di noi possano leggerli.
– Posso parlare liberamente?
– Vi ho chiamato per scrivere liberamente. Dunque, potete anche parlare.
– Come mai mi avete chiesto di venir qui?
– Ora che siete a riposo, che avete abbandonato la bilancia e le altre insegne della magistratura, credo che possiate rispondere ad un quesito, al quale io non posso e non debbo rispondere.
– Ditemi.
– Io ho ucciso mia moglie. Sono colpevole per questo?
– Lo siete agli occhi di Dio. – Ora, la mia paura si era fatta solida, come di pietra, dinanzi ad un'eventualità che non potevo figurarmi. Pensavo di dover far filosofia, ed ero chiamato, invece, a far sofismi da avvocato.
– A quella giustizia so già che non potrò sottrarmi. Ma sono un famiglio dell'Inquisizione, e non posso essere arrestato, processato, condannato e incarcerato al pari di un suddito qualsiasi.
– Salvo che il Re non lo disponga. Vostra moglie era una sua cugina.
– Voi reagite troppo freddamente alle mie parole. Poco importa. Voglio che voi scriviate per me un breve trattato, per la mia lettura. Non provate a fornirmi gli strumenti perché altri sia accusato della morte di mia moglie. Desidero undici motivi per non considerarmi colpevole: pur se i giudici sapranno che sono stato io, in effetti, ad averla colpita. I motivi, undici come gli anni del mio matrimonio, riguarderanno me, la mia posizione, gli interessi della Giustizia, della Spagna, della Corona.
– So cosa intendete.
– Mettetevi al lavoro. Occuperete gli appartamenti che furono di Caravaggio. – E mi congedò.

Si diceva che quegli affreschi, che io vedevo per la prima volta, si dovessero alle mani di Caravaggio, che li avrebbe dipinti durante il suo esilio siciliano.

Due servi, di robusta complessione, mi accompagnarono.
Le stanze erano tre, sul margine orientale del Palazzo, affacciate sull'antico mercato della Vucciria. Stanze spoglie, le pareti tinteggiate: di azzurro, la prima, con un salotto ed un tavolo; verde, la seconda, uno spogliatoio; rosso sangue la terza, con un letto a baldacchino.
I miei vestiti erano già stati riposti. La cena era servita. Avrei vissuto in quelle stanze, a quanto pareva.
Da solo.
La famiglia era a lutto.

Non toccai cibo.
Scrissi invece un rapido brogliaccio, attingendo alla casistica dei miei processi.
Le circostanze di quell'omicidio mi erano oscure. Doveva trattarsi di un atto d'impeto. Il Duca era facile all'ira.
Undici motivi.

La Duchessa era gravemente inferma, a causa di un male oscuro che di notte la induceva a lamentazioni e sanguinamenti. Il duca aveva pietosamente posto fine a quelle sofferenze.
La Duchessa si era segretamente convertita al giudaismo, e in un'occasione, era stata vista bere del sangue, probabilmente di un bambino di religione cristiana. Il Duca, sconvolto da quell'orrore, l'aveva uccisa.
La Duchessa aveva alzato la mano contro il marito, e armata di un coltello, aveva tentato di assassinarlo. Il Duca s’era difeso.
La Duchessa era posseduta dal diavolo, e l'azione violenta del Duca era stata ispirata dalla carità divina.
La Duchessa era dominata dalla tentazione carnale, ed era stata sorpresa in compagnia di uno stalliere. Il Duca aveva il diritto di vendicarsi dell'onta subita.
La Duchessa aveva tentato d'appiccare il fuoco alla biblioteca del marito, gelosa dei libri con i quali egli soleva trascorrere la parte maggiore del suo tempo. Il Duca l’aveva colpita per impedire la distruzione dell’intero Palazzo.
La Corte palermitana era incompetente a giudicare sull'assassinio di un membro della Famiglia Reale, Dio Guardi.
Il Duca aveva agito in una condizione di ristretto raziocinio per la malattia che l'affligge, un rigonfio maligno del fegato, e che potrebbe condurlo presto alla morte.
Il Duca può esser talvolta accecato da improvvisi accessi di follia, e pertanto non è responsabile delle sue azioni.
La Duchessa aveva chiesto al marito di ucciderla, e di porre così termine alla sua vita, così difficile, e inutile, per l'assenza di figli.
La Duchessa è stata effettivamente colpita dal marito, ma è sopravvissuta, e dopo la guarigione, ha preferito partire per la Spagna.

Passai i due giorni successivi a dar corpo a quelle ipotesi. Citai a memoria passi interi di alcune mie vecchie sentenze, e trascrissi in latino i miei appunti, in bella copia, sulla carta pergamena che Don Felipe mi aveva fatto trovare sul tavolo.
Chiesi ad un servo di comunicare al Duca che il mio lavoro era da considerarsi concluso.
Fui nuovamente convocato al suo cospetto. Lo attesi nella Biblioteca di Caravaggio. Lo scrittoio era sgombro.
Dopo qualche minuto, la porta alle mie spalle, si aperse, e quel che vidi, mi paralizzò.

– Spero che sia riuscito nel suo intento.
– Ho solo osservato le indicazioni.
– Sapevo che l'avrebbe fatto. Posso avere il vostro manoscritto? Sono certa che troverò le prove di tutti i vostri crimini.

Lesse con attenzione, e approvò. Mise il manoscritto sul piano intagliato, e fece un cenno. I servi, alti e robusti come soldati, mi si fecero accanto, e mi afferrarono le braccia.

– Siete in arresto, giudice – disse Padre Alfonso.
– Non comprendo, Duchessa. Dovevate esser morta. E poi, perché questi uomini mi arrestano?
– Con il loro aiuto, ho persuaso mio marito a convocarvi, e a chiedervi, per la seconda volta, di elaborare una strategia per la sua assoluzione dalla colpa di omicidio. Il mio omicidio, stavolta. Una strategia che si componesse di undici diverse ipotesi d’innocenza: tante quanti gli anni trascorsi dal nostro matrimonio, e dall'assassinio di mio fratello Juan, che investigò sulle origini della ricchezza del mio pretendente, il Duca de Valencia y Cordoba. Don Felipe era caduto in disgrazia, in Patria. A Palermo, invece, era divenuto ricchissimo: con la Santa Inquisizione, denunciando falsi eretici e appropriandosi dei loro beni.
– Non sapevo nulla.
– Voi non dovevate sapere. Non rientrava nei vostri compiti, sapere. E poi, siete stato pagato perché nessuno sapesse. Io ho fatto solo da poco tempo la stessa scoperta che undici anni fa aveva fatto mio fratello: pagandola con la vita.
– Qual è la mia colpa?
– Siete ostinato, don Alejandro. Dovreste arrendervi all’evidenza. So tutto del vostro commercio di sentenze. Voi avete assolto l’assassino di mio fratello: un domenicano, che aveva dichiarato d'avere agito dopo aver visto Juan bere del sangue, quello di un bimbo, un cristiano. Il frate era stato pagato dal Duca, mio futuro marito.
– Io non sono stato corrotto da alcuno.
– Verissimo. Il vostro compenso lo ricevette vostra moglie, in forma di eredità. Ma la famiglia che le donò un palazzo e delle terre, era morta nelle carceri del Sant'Uffizio, dove il Duca, spietatamente, l'aveva fatta rinchiudere.
– Voi mostrate di sapere molte cose.
– Le so, don Alejandro, ed è tutto merito di Padre Alfonso. O meglio, di don Alfonso Alenteja, della Gendarmeria Reale. E' il più grande cercatore di criminali della Spagna. Mio cugino, il Re, ha voluto prestarmelo. Ha dovuto fingere un accento portoghese per non sollevare sospetti. Mio marito si fidava ciecamente di lui. E voi. Siete riuscito ad assolvere tutti gli assassini che erano in grado di pagarvi.
– Vostro marito?
– Due giorni fa, dopo aver parlato con voi, è stato imbarcato su un Postale. Tra qualche giorno, sarà accolto a Madrid e alloggiato in una fortezza. In attesa del boia.

Sono finito anch'io in una fortezza, e messo ai ceppi.
Al processo, celebrato a Madrid, l'accusa ha mostrato le mie sentenze, falsificate ad arte, e le motivazioni, riportate nelle undici variazioni riportate sulla carta pergamena del Duca, hanno convinto la Corte della mia colpevolezza.
Sono stato condannato a morte, per aver venduto la Giustizia di Spagna.
Ho scritto la mia Teoria del Male, e del Bene, e contrariamente a quel che pensavo, l'hanno letta in tanti.

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