giovedì 14 giugno 2007

PUBBLICARE UN LIBRO E' QUASI MEGLIO CHE SCRIVERLO


Si può dire: non capisco nulla di editoria.
Non si può dire: adesso ho capito.
La sola cosa utile, il solo discrimine possibile tra il prima e il dopo, tra assenza e presenza, è lasciarsi attraversare dalla vista di qualche migliaio di libri freschi di stampa e accatastati in magazzino in attesa del distributore.
Quelle parole ripetute e umide d'inchiostro, stampate sulle pagine e avvolte dalla plastica dura degli imballaggi, si staccano dal pensiero che le ha partorite, e si preparano ad una vita adulta.
Ci sarebbe un altro paio di considerazioni.
I libri, dal punto di vista dell'editore, si sentono. Dietro gli occhi che li leggono, la cucina dell'editore s'illumina di rado. Quando accade, i cuochi e gli inservienti si precipitano al banco e alle pentole. Voglio dire che troppi calcoli - sul best seller possibile, da progettare a freddo - sono inutili.
E infine, bisogna conservare manualità, tatto, fiuto. Le case editrici che perdono il gene dell'Officina medievale, il piacere della lettura del manoscritto, il gusto della pubblicazione del libro minore, la passione per quello strano animale che è lo scrittore, hanno dimenticato che pubblicare un libro è quasi meglio che scriverlo.

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