lunedì 28 maggio 2007

CANDIDO INTERVISTA CAMILLERI


Tempo fa, un mio carissimo amico (un clone, direi), decise di scrivere sotto pseudonimo. Scelse quello di Candido da Regalpetra. Alludendo al Maestro di Regalpetra, ovviamente. E su Capital, diretto dal Supremo Pietro Calabrese e poi dal primo allievo Giovanni Iozzia, pubblicò - sotto l'anzidetto nome di fantasia - un po' di articoli e di interviste. Una, quella che segue, ad Andrea Camilleri. Ha quattro anni. Ma resiste.

Mettiti seduto, tranquillo. La questione è di qualche importanza.
Non ti pare, caro lettore, che da un poco di tempo a questa parte siculi e sicule presero possesso delle tue risate, delle tue letture, per non dire della tua musica, della tua televisione e del tuo cinema?
Possesso, sì. E neanche possiamo dire che lo fecero zitti zitti, ammucciuni, di nascosto.
Allora, sei seduto? Non ancora? Ma che stiamo scherzando? Te lo devo ripetere?
Ricominciamo. Il discorso è questo. Te lo ricordi il Regno delle due Sicilie? Ora ce ne sono perlomeno cinque o sei, di Sicilie in questo Regno, e il Re si chiama Camilleri. Camilleri Andrea. Che è uomo per l’appunto di ironia, essendo della terra di Pirandello Luigi, Agrigento; e di letteratura, per conseguenza; e travagliò per la televisione, alla Rai, scrivendo le scene e le battute di telefilm e sceneggiati, vecchi, ancora in bianco e nero; e per il teatro, insegnando all’Accademia d’Arte Drammatica, e al Cinema.
Ora, Camilleri scrive libri che ci vorrebbero petroliere per trasportarli tutti in libreria. Insomma. Un Imperatore, altro che Re.
Andiamo al fatto. Troppi siculi si contendono i titoli del Regno. E alla domanda - “chi è il più siciliano del Reame?” - viene difficile rispondere. E dunque, chi meglio del Re, dell’Imperatore, Camilleri Andrea insomma, può fare ordine in questa Corte di stravacanti, di attori, di registi, belle fimmine, musicisti e scrittori?
Se finalmente sei comodo, cominciamo, caro lettore!
Maestà, scusasse il disturbo, ma chi è il più siciliano del Reame?
“Difficile dire chi è più siciliano. Anche perché è difficile pensare a un comun denominatore dell’esser siciliani. Secondo me, è una partenza sbagliata. La complessità del siciliano è nota, credo. C’è un bella frase di Vitaliano Brancati: il signor x e il signor y abitano sullo stesso pianerottolo. Sono tutti e 2 siciliani. Ma quando si va dalla casa dell’uno a quella dell’altro, è come passare da un continente all’altro. I siciliani, tra loro, sono diversi fisicamente, culturalmente, psichicamente”.
Ma non sarà proprio questo ad accomunarli, la complessità?
“Naturale. C’è una domanda di Leonardo Sciascia nel Consiglio d’Egitto, formulata ad un certo punto dal Vicerè: come si fa ad esser siciliani? Come si fa a sopportarlo? Come si fa a vivere essendo siciliani?”.
Le dispiace se assegniamo qualche titolo, così, per principiare a mettere ordine? Se è d’accordo, comincerei da due attori. E il primo, Zingaretti Luca, lo facciamo siciliano sul campo, ad honorem. L’altro è Fiorello Rosario. Lo Zingaretti arriniscì a dare vita al suo Commissario Montalbano, che personaggio di fantasia è: sbirro buono, con senso di giustizia, simpatico e vincente. E il Fiorello, invece, uomo in carne e ossa, pare personaggio di fantasia: imitatore, presentatore, cantante, attore, uomo finito insomma, epperò riesce a dire cose intelligenti, e a fare una cosa intelligentissima come la Radio.
“Sempre di due attori stiamo parlando. Fiorello imita, presenta canta, ma è anche un grande attore. La capacità di trasformarsi da attore disinvolto e cantante ad uomo capace di dire cose intelligenti e serie, è tipica di un grande attore di intrattenimento. Essere siciliano qui è molto, molto relativo. Andiamo a toccare quel meraviglioso mestiere che è l’attore, che poi è la capacità di essere altro da sé. A questi livelli di bravura, sarebbe persino possibile una trasformazione di Zingaretti in Fiorello e viceversa. Quando si è bravi, ci si riesce. Non mi meraviglia per niente”.
Lo Zingaretti non aveva le carte in regola per essere Montalbano. Stando ai suoi romanzi.
“No. Era tutto sbagliato, ragionando con il vecchio schema del phisyque du role. A cominciare dall’età: Montalbano oggi ha 53 anni: io ho scritto che è nato nel 1950. Montalbano, poi, ha capelli e baffi. Zingaretti, invece, anche se più giovane e calvo, dà l’idea di essere l’unico possibile Montalbano. Io non ho mai detto è lontano dal mio personaggio. Io sapevo che era uno straordinario attore. Valeva la mia esperienza”.
Sì, perché lei fu suo professore, all’Accademia.
“Io lo considero mio nipote. E lui, mi tiene per zio. Ricordo che quando cominciò a fare questo personaggio, ebbe una crisi di impatto, come accade spesso agli attori, e mi fece la prima e ultima telefonata dal set, dicendomi: Andrea, da dove lo devo prendere questo personaggio? E io più o meno gli risposi: da te stesso, e non rompere i coglioni. Non ci furono altre parole”.
Solo in Sicilia ci possono essere nipoti adottivi, e difatti il rispetto si esprime nella ziitudine, nel dare a qualcuno dello Zio. E poi, il modo di parlare dice tutto: “da dove lo devo prendere questo personaggio, da quale verso…”
“Sì, Zingaretti è un siciliano ad honorem”.
E dunque, passiamo alla cerimonia della spada? Che titoli gli diamo a questi due, il Fiorello e lo Zingaretti?
“Principi, senz’altro”.
E Baglio Aldo?
“Quello di Aldo, Giovanni e Giacomo? Io mi ci diverto da matti con loro. Merita senz’altro un marchesato”.
Il Baglio pare uno che lavora all’antica. Grande artigiano da avanspettacolo. Un classico contemporaneo.
“Anche questo è un bel problemino. Non è che conti molto l’innovazione. Conta, semmai, quanta intelligenza metti in quello che fai. Ora, per quel che riguarda noi siciliani – e qui ho uno scatto d’orgoglio – devo dire che siamo leggermente più reattivi di molti altri. Perché siamo dei bastardi”.
Nel senso letterale? Nel senso che siamo figli di molti padri?
“Proprio. E’ come la storia del cane di razza. Ha un bel pedigree, ma è po’ scemo. I cani di strada sono più reattivi. Tornando ad Aldo Baglio, che mi fa ridere davvero assai, mi sembra che incarni una delle nostre maschere, Giufà. Giufà ha due facce, è stupido e intelligente. E’ il nostro Bertoldo. Baglio ha veramente grande tradizione”.
E Ficarra e Picone?
“Li seguo da molto tempo. Sono due palermitanazzi, in senso buono. Nel loro lavoro c’è una cosa, una sorta di intelligenza del gioco, che arriva immediatamente e ti lascia presuppore un risvolto che non è quello che vedi: un sottotesto, un’allusione continua”.
Meritano almeno un Granducato.
“Perlomeno”.
La spada pesa. Se la vuole riporre un attimo, le volevo fare una domanda. Ma come se lo spiega questo fenomeno di colonialismo siculo nel territorio difficilissimo della comicità?
“Mica si può avere il ciclo continuo. Era inevitabile che avvenisse una sorta di ritorno. Questo succede spesso. Abbiamo avuto l’epoca catanese di Angelo Musco, al quale il grande D’Amico dedicava pagine e pagine, ed era in grado di farsi capire in tutta Italia. Poi venne De Filippo, che era napoletano. Sono fatti ciclici. Non so quanto durerà. Ma bisogna anche dire che questo è il tempo dei comici siciliani alla ribalta, non il tempo della caricatura della Sicilia. Ricordo quegli spaventosi doppiaggi, con un siciliano improbabile, che diventavano una parodia involontaria. Questi nuovi comici, al contrario, fanno parodia con i loro linguaggi della loro realtà, e l’autenticità paga”.
I siciliani fanno ridere. Ed è una buona notizia. Ma sanno anche ridere di sé. Prenda La Russa Ignazio e Schifani Renato. Fatti a pezzi da Fiorello e Marcoré. Eppure, uno va in diretta a farsi fare il verso – “digiamoolo!” – e l’altro si mette con la famiglia davanti alla televisione a ridere del suo riporto!
“Si vede che sono dei buoni siciliani. A quella domanda di Sciascia, come si fa ad esser siciliani, una volta risposi: con l’ironia e l’autoironia. E questo non corrisponde al canone del siciliano irascibile, che è di per sé falsificante”.
Sono diventati due maschere, il La Russa e lo Schifani. O no? Che facciamo, glielo diamo un titolo?
“Niente titoli. E le dico la verità. A me viene molto difficile chiamarle maschere, che poi sono simboli, figure esemplari. Loro sono due uomini politici – dai quali peraltro sono lontano mille miglia - che reagiscono bene alla satira, non reagendo, ridendo a denti stretti. Reagire è la cosa più brutta che si possa fare contro la satira. Ci fu un grosso personaggio politico che ricorse al giudice contro un atto di satira. Io lo trovai delirante. Un uomo politico sa che è esposto alla satira. Deve reagire solo alla diffamazione”.
Torniamo agli attori. Che ne dice di Lo Cascio Luigi, che coi Cento Passi fece un figurone?
“Anche lui è stato allievo mio. E’ cresciuto benissimo, e continuerà a crescere. E’ un tipo alla Zingaretti. Mi dispiace non poterli vedere vecchi. Sono vini di classe, e miglioreranno con il tempo”.
Diventerà Principe, insomma. E i registi? Ce ne sono tanti, ormai. C’è Torre Roberta, milanese di nascita e palermitana di adozione. C’è Scimeca Pasquale. E c’è Tornatore Peppuccio. Uno, il Tornatore, che ha assimilato il grande cinema, o il cinema dei grandi, e che muove la cinepresa come un grande pennello. Epperò, si disse pure che i suoi colori, a volte, sapevano di melassa.
“Io non vedo tutta questa melassa nell’Uomo delle Stelle. E proprio quel finale va letto in un altro modo. Qualsiasi cosa sia una rinunzia, non è mai una melassa”.
Il Tornatore racconta spesso un sentimento alla volta: con Nuovo Cinema Paradiso, la nostalgia; con Una pura formalità, la paura della morte; e con Maléna, l’erotismo.
“Noi uomini siamo anche uno alla volta. La sua forma narrativa è quella di una cosa alla volta: ma bene, però”.
Principe, abbiamo capito. Parliamo di musica? Anche qui sono tanti i siculi. C’è Battiato Franco, c’è Consoli Carmen, c’è Sollima Giovanni, violoncellista e compositore. E ce ne sono altri ancora.
“Battiato lo ascolto ma non posso dire di nutrire molta simpatia nei confronti della sua musica. Ma lo facciamo Conte. La Consoli mi piace tantissimo. Trasgressiva, moderna, mi piace anche per questo. Sollima, poi, lo considero tra i più importanti compositori italiani, per quel che ho sentito fino a questo momento. Gli diamo un Granducato”.
E la Consoli, Maestà?
“Principessa. Anche se non voglio spodestare la bellissima nostra attrice, Maria Grazia Cucinotta”.
Di belle donne ce ne sono assai, in Sicilia. C’è Riccobono Eva, che comparve in televisione e fece strage di telespettatori. E poi Valle Anna, già Miss Italia, che per qualche anno, da ragazzina, visse a Lentini, e potrebbe chiedere il passaporto. E La Rosa Marina, che frequentò il Grande Fratello e si spogliò davanti a un fotografo.
“Bé, la Riccobono giustamente aspira al titolo, e ha tutte le carte in regola per acquisirlo. La Valle? Boh, faccia lei. Cavaliera, magari. Marina La Rosa non la conosco: il Grande Fratello è escluso dal mio orizzonte. Senta, ma una domanda, io, gliela posso fare?”
Sicuro.
“Di letteratura non ne parliamo?”.
Mancanza! Può essere mai che non ne parliamo?
“E qua i talenti sono tanti. Tanti e importanti. Vincenzo Consolo lo facciamo principe da subito. Un ducato va a Giuseppe Bonaviri: ce ne scordiamo troppo spesso. Dietro, vengono una schiera di aspiranti nobili, che fa piacere farli conti: Roberto Alajmo, con il suo Repertorio dei pazzi della città di Palermo. E poi Santo Piazzese, Giosuè Calaciura, Piergiorgio Di Cara, Silvana Grasso e Silvana La Spina”.
Grazie, Maestà. Anzi, torno a chiamarla Professore, ché la Repubblica non ci dispiace. Se abbiamo scherzato sui titoli, lo si deve al ritorno dei Savoia, pure se preferiamo il purissimo giglio dei Borboni.

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