lunedì 21 maggio 2007

FRATELLO BIAGIO


Il sole si accanisce sugli uomini, sul cestello dell’impastatrice, oramai incandescente, e sul cemento appena steso.
I volontari lavorano con metodo, senza fretta.
I bambini del quartiere osservano silenziosi.
Il caldo di quest’estate palermitana di mezz’autunno riduce la terra in polvere, e ad ogni passo, su quel viale battuto un tempo dai camion verdescuro e dal passo della vigilanza armata, si alza un velo grigio che s’attacca ai vestiti, penetra nelle fibre, nella carne, e strizza gli occhi, fino alle lacrime.
Due, tre, quattro curve tornanti. Sul punto più elevato della vecchia Caserma dell’Aeronautica, una spianata guarda al gran cantiere, e più in là, ai tetti della Guadagna, alle sue catapecchie e al suo Gange, il fiume Oreto. Due vecchie auto sono parcheggiate tra gli edifici del dormitorio, fasciati di tubi metallici e di travi per i camminamenti, e i prefabbricati candidi con le scritte “Infermeria” e “Ambulatorio Medico”: dalle finestre aperte, si scorgono le scrivanie e le brandine, per le visite.
Fratello Biagio è sotto il Crocefisso della Cappella all’aperto, rivolto verso ottanta sedie vuote, probabilmente ereditate da una scuola elementare; indossa la sua tuta verde marcio, il suo sacco, il suo sari.
“Pace e bene”.
Siede su una sedia a rotelle. Quasi se ne scusa.
“La situazione si è aggravata. La mia schiena è crollata”.
Ha quarantatre anni. Per un anno ha dormito all’aperto, nei boschi; per quindici, sotto una tenda.
“Il medico mi ha proibito di continuare a farlo. Mi ha proibito di portare dei pesi, perfino di stare in piedi. Anche il nostro Arcivescovo mi ha detto tante volte di riguardarmi. Ma come faccio?”.
Solo per un saluto - due mani che stringono due mani - all’uomo sulla sedia s’avvicinano con discrezione dei volontari. Rumeni, grandi baffi orgogliosi, e profondi occhi nocciola. Africani. Neri, nerissimi. Ghanesi, Sudanesi.
Omar ha ventidue anni. Viene dal Darfur, dove studiava Scienze Politiche (“Political problems”).
Due mesi li ha impiegati per raggiungere la Libia (“Sometimes walking”, a volte a piedi).
Otto ad aspettare una “boat”.
Uno a Trapani, a cercare un lavoro.
Due li ha vissuti nella nuova Missione di Fratello Biagio, in Via Decollati. Questa.
A pochi passi, siede Dario Malizia. E’ un avvocato. Fratello Dario si occupa dei guai, della regolarizzazione dei clandestini, di quel che la Legge riserva a chi, per Destino, non sa che farsene di un documento.
Il sole sta alle spalle di Fratello Biagio, e non si riflette sui suoi occhi. Quella febbre che li scuote, pressoché impercettibilmente, si deve ad altro.
“Vedi? Ogni giorno, qui, tutto cambia. In Via Archirafi non c’era più spazio. Tanta gente ha bisogno d’aiuto: non solo i poveri, e i più poveri tra i poveri; con noi, ci sono centocinquanta siciliani. Ci sono anche dei professionisti. C’è un giornalista. Persone che hanno lasciato tutto alle loro spalle, e cercano qualcos’altro”.
Parla dei settecentoventi ospiti nelle tre case della “Missione Speranza e Carità”, che egli stesso ha fondato.
La prima si trova in un vecchio Disinfettatoio comunale, vicino alla Facoltà di Scienze Naturali. Fratello Biagio ne ha ottenuto l’assegnazione dopo aver cercato, per anni, una struttura abbandonata. L’ha restaurato con pazienza, grazie ai volontari, a qualche contributo pubblico e a tante inattese donazioni. Lì stanno gli uomini. Lì è morto Andrea, il primo Fratello raccolto da Biagio Conte per strada: aveva cinquantadue anni, e ottanta a vederlo.
La seconda casa è nel centro antico della città, in Via Garibaldi, dove Sorella Mattia, Sorella Alessandra e Novella Lucia, Novella sta per Novizia, danno ospitalità alle donne.
La terza è questa caserma.
La notte, ogni notte da quindici anni a questa parte, un furgone gira per la città, per aiutare chi vuol star solo, sotto un portico, sotto un cartone; i clochards più irriducibili, gli ultimi tossici da eroina, e chi è appena finito per strada.
Settant’anni fa, a Calcutta, notte e giorno, una piccola suora albanese e altre due missionarie spingevano un misero carretto a mano, raccogliendo i moribondi, per fame, per tubercolosi, per lebbra.
Secoli prima, nei dintorni di Gubbio, ai lebbrosi s’accostò il figlio di Pietro da Bernardone, Francesco, “vestito solo d’un rozzo camiciotto”: “lavando – scrisse Tommaso da Celano - i loro corpi in disfacimento, e tergendo la materia delle piaghe”.
“Sono nato a Palermo, in una famiglia benestante. Ad otto anni, mio padre decise che saremmo andati in Svizzera, dove avrebbe diretto una cementeria; poi andammo a Firenze, a Milano, e infine, tornammo a Palermo. Fino a ventidue anni, sono stato un ragazzo come tanti. Mi piaceva vestir bene, uscire con la mia comitiva, andare a ballare. Ero fidanzato. Felice. Ma mi guardavo intorno, e vedevo già quel che non andava. Mi sono chiuso in casa per qualche anno, non uscivo più dalla mia stanza. I miei amici, e la mia famiglia, pensavano ad una forte depressione. Io leggevo. Libri su libri. Filosofia. Psicologia. Scienza, che ho amato moltissimo. Religione. Cercavo una spiegazione”.
Non tace nulla, di questo racconto. Va fino in fondo, spietato con se stesso.
“Ho lasciato la mia famiglia. Sono andato a vivere all’interno della Sicilia. Sulle montagne, tra i boschi. Ad Aidone, Piazza Armerina, Raddusa. Avevo un cane. Lo chiamavo Libertà. Un pastore mi ha aiutato molto. Poi, ho trovato questo bastone, e ho incontrato una famiglia, in una fattoria, ed anche loro mi hanno aiutato. Un anno intero a pensare, a riflettere, a osservare. Sono andato ad Assisi. A piedi. E per le strade, nei paesi e nelle città che visitavo, vedevo la stessa disperazione che lasciavo a Palermo. Ad Assisi, ho visitato la Porziuncola, mi sono inginocchiato dinanzi alla tomba di San Francesco. Ho capito che dovevo ispirarmi a lui, e a Madre Teresa di Calcutta, e a Gesù Cristo, e che dovevo consacrare la mia vita ai poveri”.
Non era il padre di Francesco, il suo. Ma è stato molto difficile fargli capire quel che stava accadendo.
“Portavo via da casa quel che mi serviva, o portavo qualcuno, in casa, di nascosto, per lavarlo. Ero agli inizi. Andavo alla Stazione Centrale, a cercare gli affamati, gli ammalati, finché non li cacciarono anche da lì. Presi l’auto di mia sorella: una Cinquecento, e fu il primo dormitorio”.
Fratello Biagio non ricorda le sue proteste, i suoi appelli. Per ottenere qualcosa.
Un edificio abbandonato, ulceroso, disfatto, da trasformare in qualcos’altro. Puoi sempre distillare dell’acqua pulita da quella che gli altri buttano via. Il suo cappello, tra i boschi, e al suo ritorno, a Palermo, è stato per anni la manica di un maglione.
A Fratello Biagio, dà una mano anche la Curia Arcivescovile. Il Cardinale Salvatore De Giorgi, che ha benedetto i nuovi locali, di frequente celebra la Messa nella Chiesa costruita all’interno della Missione di Via Archirafi. Molte parrocchie, in città, promuovono delle collette, e raccolgono cibo e vestiti.
Fratello Biagio accenna ad un sogno. Si stringe le mani, e guarda in alto. Teme la vanità del dirlo.
“Dio mi punirà”.
Un nuovo Ordine? Fratello Biagio non lo dice.
“Non voglio precorrere i tempi. Sia quel che sia. Ma sta maturando qualcosa. Un’associazione di laici nella fede: tre Sorelle, e don Pino, un salesiano, e Fratello Giovanni, che voleva andare in Africa, con i Dehoniani. Forse, un giorno nascerà qualcosa. Speriamo”.
Nulla sul suo stato laicale, sull’ordinazione sacerdotale. La sua barba è lunga, però, e la sua schiena porta i segni dei sassi, le sue articolazioni sono indebolite dall’umidità notturna. Ad Assisi, a Greccio, così come a Corleone, i francescani riposavano sulle pietre di minuscole cavità, scavate come alcove nella roccia.
Ha poco tempo, Fratello Biagio. In Via Archirafi, stanno per esser celebrati i funerali di un ragazzo, uno degli ospiti (“Era molto buono. Ha sofferto. Pensavamo riuscisse a farcela. Ha donato i suoi organi”).
La sedia si muove lentamente. Il motorino elettrico, mosso da una leva, stenta a ripartire, e s’affatica sui sassi.
Indica una casupola.
“Era una garitta, quella. Ci stavano i soldati, di guardia. Ne faremo una Cappelletta multireligiosa. Qui preghiamo tutti insieme, sai? Cattolici, ortodossi, musulmani, induisti, buddisti. Ognuno a suo modo”.
Va via, Fratello Biagio.
“Pace e bene. Pace e bene. Pace e bene”.
Lo segue una cagnetta. Si chiama Speranza.
Fratello Biagio sale su una vecchia Croma amaranto. La marmitta sbuffa come una locomotiva.
E i soldi, per tutto questo? I restauri. Gli arredi. Settecentoventi persone da accudire. Il cibo. Le medicine.
Fratello Dario, arrampicandosi per le scale del dormitorio, dice che i contratti – per la luce, il gas, il telefono - li pagano le istituzioni: il Comune, la Regione. Al resto, pensa la Provvidenza.
“Quando abbiamo bisogno di qualcosa”, racconta quest’avvocato in jeans, di trent’anni o poco meno, lontanissimo dalle sete fruscianti per i corridoi del Palazzo di Giustizia, “è la Provvidenza a pensarci. Se al mattino manca qualcosa, arriva al pomeriggio”.
I bar, i ristoranti, i negozi. Per i palermitani, Fratello Biagio è semplicemente “Biagio Conte”. Questo? Questo lo diamo a Biagio Conte. E’ già un modo di dire, un segno. E’ già storia, quest’uomo, a quarantatre anni (e non gli pesa, naturalmente: non gl’importa).
Fratello Dario dice che ci vorrà ancora un poco di pazienza.
“Le donazioni sono diminuite di molto, negli ultimi mesi. Le elezioni, la crisi economica, non so. Ora, comunque, va già meglio”.
Al primo piano, tanti letti in ferro s’affiancano e s’incrociano, in un mosaico fittissimo, e i colori dei vestiti, e delle borse, raccontano di un Continente lontano, e allegro. Chi sta ancora dentro, a ripulire i bagni, s’avvicina. Sono in quattro, cinque. Le loro storie, a dire il vero, un poco s’assomigliano.
Al secondo piano, è stato appena risistemato il tetto, con le travi di legno a vista, bene incerate. Fratello Dario ne è molto fiero.
“Ogni estate, vengono qui a lavorare dei gruppi dell’associazione degli Universitari Costruttori. Si danno il turno ogni settimana. Danno vita a tanti progetti, in tutta Italia, regalando una parte delle loro vacanze a chi ne ha bisogno”.
Nella vecchia caserma, s’alternano medici, infermieri, impiegati, pensionati. Una volta alla settimana. Due. Tre. Di giorno. Di notte. Conquistati dal Carisma di Biagio e dalla forza delle sue visioni.
“E’ concreto, Fratello Biagio. Detesta le attese, le burocrazie. Dice sempre: una pietra dopo l’altra, in alto s’arriverà”.

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