giovedì 3 maggio 2007
I BAMBINI PERDUTI DI PALERMO
In un giorno qualsiasi, a Palermo, quattordici poliziotti investigano su tre o quattro casi di bambini violentati, torturati, stuprati.
Quattordici poliziotti della Squadra Mobile. Un pool. Ogni Squadra Mobile, in tutta Italia, ne ha uno, ad occuparsi di violenze su minori.
C’è un altro pool, in Procura, formato da otto pubblici ministeri che fra una violenza e l’altra, indagano su una rapina, un omicidio, una truffa.
Sono decine i casi aperti. Sui quali, non si può perder tempo. Bisogna lavorare bene, e in fretta.
A guidare i quattordici poliziotti, è una donna, Rosaria Maida. Sguardo dolce e polso d’acciaio. Palermo può essere una città durissima. Pochi giorni fa, il Questore, Giuseppe Caruso, che ha arrestato capi vecchi e nuovi di Cosa nostra, ha rimesso a posto cronista e vocabolario, in un’intervista: niente domande difficili, era il senso, e poi, alla lettera, “io sono uno sbirro”.
Questi sono tra i pochi nomi che si possono fare. Del resto, dei casi più recenti di violenze su minori, piovuti sulla città come un lungo temporale, nelle scorse settimane, occorre tacere ogni dettaglio.
Del quattordicenne che ha abusato di una bambina di tre anni.
Dell’uomo, ammalato di Aids, che ha compiuto atti sessuali sulla figlia di altre persone conosciute in una comunità.
Che tipo di Comunità? Di recupero?
Nessuna risposta.
Non può esser detto, tagliano corto gli investigatori, il nome di quell’uomo di trentotto anni che ha violentato una bambina di tredici mesi, figlia della sua convivente, in un quartiere periferico di Palermo: un quartiere X, il nome del quale, ovviamente, non può esser detto.
Non può esser detto il nome della bambina: per non segnarla, a vita, più a fondo del marchio ricevuto, e per non farne un bersaglio della pubblica maldicenza (nella comune inversione della colpa, dal carnefice alla vittima).
Né nomi né altro. Con quali parole si potrebbe riferire il volto sgomento delle infermiere, delle più dure, avvezze ad ogni segno di morte, o il pianto del medico, intento alla medicazione?
Non possono esser detti i nomi di quei dieci ragazzini che insieme, per mesi, nel loro Istituto Professionale, in un quartiere popolare della città, hanno profittato di una quattordicenne, portatrice di un handicap, di una tragedia che si fa piccola, persino, dinanzi alla nuova; e ignari delle loro efferatezze, raccontavano quelle gesta, le mostravano, riprese a bassa risoluzione sui telefonini.
Non può esser detto il nome dell’architetto che ferì le sue bambine: sarebbe doloroso, per la Palermo bene, scoprirsi infetta.
Non può esser detto il nome del nonno, profittatore della nipotina: infangherebbe la categoria dei nonni.
Non può esser detto il nome del bidello, di un asilo di un paese vicinissimo a Palermo, che straziò sette bambine, e che non fu allontanato per tempo.
Non può dirsi, in casi del genere, il nome del colpevole, giacché la vergogna, improvvisa, può assalirlo come una razza marina, e pungerlo e paralizzarlo, dalle membra al cuore, come un maglio che pesa sul torace e non lascia respiro. Accadde nel palermitano, poco tempo fa, quando un contadino ritrovò una bambina legata col fil di ferro al pilone di un ponte, nascosta alla vista dei passanti, la bocca incerottata. Avrebbe dovuto morire, la bambina, e imputridire, e nascondere così, nel disfacimento, anche al bisturi del patologo, le violenze subite dal fidanzato di una famigliare, il quale non aveva trovato il coraggio di ucciderla e di sotterrarne il cadavere. Fu fermato, il sospetto, e torchiato a dovere, e lui confessò ogni cosa: il suo nome si riseppe, e quando i parenti inferociti diedero l’assalto alla caserma e alla camera di sicurezza, lui si appese alle sbarre, il collo avvolto in un lenzuolo.
Non può esser detta quella città sfuggente che s’incista nel ventre di Palermo e la fa più crudele verso i suoi figli, matrigna come tante altre città, in Italia.
Non possono esser dette le denunce anonime che dieci anni fa presero a perseguitare i due sacerdoti che nel quartiere dell’Albergheria avevano raccolto, nel loro oratorio, i segni dello stupro sui volti pallidi dei bambini, riferendoseli tra le lacrime: gli scatti, e i silenzi, e le diffidenze, e poi, le ripetizioni di certi atti sessuali, gesti che, di certo, non potevano appartenere a dei bambini.
Tre anni fa, prima l’uno e poi l’altro, i due sacerdoti finirono in esilio, in altre città siciliane. Qui la riflessione sull’impedimento potrebbe condurre a silenzi insospettabili. Eppure, a loro si doveva l’avvio della prima grande inchiesta giudiziaria sulla pedofilia, prima nell’intera storia europea, culminata in due processi, con diciotto imputati e settantuno vittime.
L’Albergheria, o “Briarìa”, un tempo era stato borgo separato, città nella città, enclave popolare fra la Chiesa e il Nobilato degli stucchi e dei palazzi, degradando poi dalla solidarietà delle antiche corporazioni all’abbandono dei tufi anneriti, delle corde tese fra ghisa e ghisa, con gli abiti miserevoli offerti alla misericordia del sole.
Quei sacerdoti misero a dura prova la doppiezza di quelle madri che concedevano le carni dei loro figli per poche migliaia di lire e li carezzavano con mano tremante, e protettiva, riaccogliendoli nei loro uteri svuotati per sempre, dinanzi alle domande: “Ma che è successo a suo figlio?”. Nessuna risposta poteva venire.
Non possono esser riportati gli interrogatori dei bambini, i loro racconti, strappati a fatica dagli psicologi e dai pubblici ministeri, sulle violenze, camuffate dai regali, o rese esplicite da pratiche d’autentica tortura.
Non può esser detto il nome di quel ragazzo che oggi sarebbe alto e forte, se le sue fondamenta, con lo stupro, prolungatosi per anni, non fossero state incise fino all’osso, e i nervi bruciati dal contatto con il fuoco; di quel ragazzo che trascorre le sue giornate su un fondo di letto, perdendo le parole, impermeabile agli sguardi, il volto disarticolato da milioni di frenetiche compulsioni, tante da raggiungere la più perfetta immobilità, la memoria come un lago stagnante, senz’acqua nuova.
Pochi si costituirono “parte civile”, ovvero dalla parte della civiltà, e i processi si trascinarono nella polvere prodotta dai codici e dalle cronache dei giornali, nello sfarinamento delle pagine, perdendo accusatori e accusati, il tempo e le ragioni stesse dell’accusa.
A chiederlo, per le strade della “Briarìa”, nessuno ti dirà in quale fondaco si svolsero quei sabba per soli uomini, e dove forse ancora si svolgono, incuranti d’ogni precetto, e comandamento.
Ma ogni stregoneria esige un rogo, nel costume antico di questa città, che corre dietro ad ogni capopopolo e sa lasciarsi alle spalle l’eco delle proprie urla. Così, fu segretamente accolta come una rivalsa antimorale, la denuncia di quei baci e di quei toccamenti che di lì a poco costò ad un altro sacerdote, un prete antimafia, l’allontanamento, un altro esilio, ed un rinvio a giudizio.
Per non dire, anche stavolta, delle voci disseminate ad arte per sviare le indagini sull’uccisione di un altro sacerdote, che i bambini – nel ’93, a Brancaccio, in casa dei boss Graviano – aveva tentato di ricondurli sulla strada buona, sottraendoli alla via della mafia. Voci che suonano ancora come una bestemmia.
Non può esser detto in quali altre zone della città matrigna si abusi dell’innocenza, e quanti e quali siano – a richiesta dei sociologi, di chi fissa la morale e il suo infrangersi in soglie di normalità e di eccezionalità – i “casi” di violenza, l’età delle vittime, il censo dei carnefici (con la professione, i precedenti giudiziari, i traumi e le tare conseguenti, tali da indurre alla ripetizione della violenza).
Il fenomeno, posto che sia conoscibile fino in fondo, attraversa le classi sociali e gli individui, e si replica come un tessuto canceroso, inarrestabile. I torturati mutano in torturatori, e crescono le violenze su minori da parte di altri minori. Sono più rari i casi simili a quello di Marco Marchese, stuprato a dodici anni, ed ora, a venticinque, fondatore di un’associazione contro la pedofilia (Marco vuole che il suo nome sia detto).
Forse, quella trasversalità della ferocia contro i bambini - eletta a codice interpretativo - riguarda anche la mafia, i suoi adepti e le sue masse: come si spiegherebbe allora l’empietà con la quale il figlio tredicenne di un pentito fu ucciso e sciolto nell’acido? Al termine di un sequestro lungo due anni, e non prima che gli fosse mozzato un braccio, con il quale, un giorno egli si sarebbe certamente vendicato: fu pure quello un atto esemplare.
Quel che non si potrebbe dire, a Palermo vien detto in continuazione, vero o falso che sia: del potere e dei suoi peccati, delle vie lunghe e tortuose da preferirsi alle vie brevi. Si dicono i nomi, a voce alta, e in pubblico, o vi si allude, per mostrarsi a parte di un meccanismo più grande, fra le tribune concorrenti del bene e del male.
Quel che procura dolore, invece, non si dice ancora abbastanza. Di frequente, infatti, il lupo si nasconde in casa, ed ha il volto di un patrigno, di uno zio, di un vicino premuroso, di un insegnante o di un compagno di scuola poco più adulto: tentati, tutti quanti, dall’oscurità.
Forse, qualcosa sta cambiando, e l’aumento delle denunce, a Palermo, non è il sintomo di un aggravarsi della malattia, bensì di una possibile guarigione.
“La gente comincia a fidarsi di noi”, dicono alla Squadra Mobile, tra le scrivanie ingombre di fascicoli.
“Le denunce arrivano dalle famiglie per lo più durante le separazioni e i divorzi, o dalle scuole, dalle comunità, dai servizi sociali. E così, quasi sempre - salvi i casi emersi in Ospedale - le violenze vengono alla luce in ritardo. I bambini si confidano con gli assistenti, gli educatori, gli insegnanti, o questi ultimi notano comportamenti sessualizzati, prematuri”.
Poi, chi parla, smette la divisa e aggiunge, da cittadino: “Noi facciamo il nostro lavoro fino in fondo. Ma non basta. Bisogna occuparsi dei bambini anche dopo le indagini e i processi: della loro sopravvivenza fisica, e di quella psicologica. Quelli che hanno i soldi, si possono permettere uno psicologo a vita, per superare l’Inferno. Gli altri, si mettono a turno alla Usl: un consulto ogni sei mesi”.
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