L'utopia, il sogno, la sfida, il terremoto, la paura: e gli artisti e le loro opere, naturalmente. Della genesi della città nuova di Gibellina, in questi quarant'anni, parecchio si è detto e moltissimo si è scritto - narrazioni de visu o de relato, con evidenti differenze - e straordinariamente tanto può essere ancora scoperto e raccontato. Ma inedito appare il racconto che adesso pubblica Davide Camarrone, che sceglie di parlare de "I maestri di Gibellina", (Sellerio editore Palermo, 114 pagine, 14 euro), componendo, tessera dopo tessera, le pagine di uno scritto che è un diario di emozioni di viaggio e incontri gibellinesi, per svelare uomini e acrobazie di chi, in tanti anni, ha lavorato dietro le quinte per realizzare le opere dei grandi artisti, accorsi all'invito di Ludovico Corrao per dar forma alla rifondazione di quel luogo. Del nomadismo della disperazione post sisma ne scrive proprio Corrao nell' introduzione al libro, (praticamente il suo ultimo scritto) raccontando di come il governo, pochi giorni dopo la catastrofe, non riuscendo neanche a immaginare una ricostruzione, offrisse navi per andare dall' altra parte del mondo, in Venezuela o in Australia, e di come «oggi, le città siciliane più importanti del Belice sorgono a migliaia di chilometri dalla Sicilia». Ma chi erano questi uomini di Gibellina, pronti ad arrampicarsi per giorni su una scultura a forma di stella alta trenta metri, straordinari saldatori di sogni? Artigiani siciliani, disponibili a costruire giganteschi cavalli per le scenografie che materializzavanoi racconti dei più celebri registi, e ancora pronti a rimanere giorni e giorni in bilico su una pietra per realizzare esattamente il disegno che un artista gli aveva lasciato lì, tra le loro mani, e di cui si sentivano orgogliosamente responsabili. E alla differenza tra artisti e artigiani, si badi bene, erano proprio questi ultimi a tenerci tanto da dire, come fa Vito Evola, figlio di Cristoforo, anch'esso scalpellino: «Noi siamo artigiani, ci sensibilizziamo nel nostro lavoro. Il braccio deve accordarsi alla mente dell'artista, senza interferire. Altrimenti si crea confusione». Così i vari materiali, la terra, il ferro, l'acqua, il fuoco, si intrecciano per dar forma ai progetti degli artisti - Arnaldo Pomodoro, Pietro Consagra, Emilo Isgrò, Carla Accardi, Enzo Cucchi, Salvatore Cuschera, giusto per nominarne alcuni - e nelle mani sapienti compiono quel salto mirabile che li proietta nella dimensione dell'unicità, grazie ad un lavoro che prende slancio dall'abilità del fare, vissuta come una grazia e mai come una possibilità mancante ancora di qualcosa. Damiano Arcilesi è un domatore di pietre da quando aveva otto anni: affronta i blocchi armato del suo mazzuolo e delle sue mani. Lui ha realizzato "L'uomo con il carico di lune" di Enzo Cucchi, maestro della Transavanguardia schivo e riservato, capace però di slanci e improvvise complicità. Racconta Arcilesi: «Sono andato con il mio datore di lavoro a scegliere personalmente il blocco di pietra. Mi ricordo che l'ho portato in cantiere e ho parlato con Enzo Cucchi dei dettagli, di come realizzare l'opera. Lui mi ha dato i suoi recapiti telefonici, potevo chiamarlo a qualunque ora e lui mi rispondeva sempre con gentilezza e simpatia. E alla fine ho realizzato quest'opera meravigliosa». «Ho realizzato», dice, senza paura. L'uomo della stella, la grande porta d'ingresso alla città che Pietro Consagra ha voluto donare a Gibellina, è invece Egisto Artale, che con lo scultore nel frattempo era diventato amico. Ricorda i regali preziosi dell'artista - preziosi perché di un amico si trattava - i giorni e le sere passate con l'ingegnere Alfonso Terranova, che si scapicollava da Palermo per fare calcoli statistici, sotto la Stella, alle due di notte, e controllare che tutto andasse bene, che i "petali" costruiti in officina, e poi issati - seimila chili l'uno - scintillassero sempre sotto il sole di Gibellina. Che orgoglio per Artale, che prima di fare il metalmeccanico faceva il cantante, girava per la Sicilia e aveva lavorato con la sua band con la televisione maltese e jugoslava, e che dunque un po' artista era anche lui. Come in fondo lo sono Carlo La Monica e Franco Cassarà, che al museo di Gibellina una mattina ha portato in dono i bozzetti e i disegni e i piccoli modellini - bozzetto che Consagra aveva realizzato in tanti anni, per tante sculture, ed erano ancora tutti nel suo studio. Maria Capo e Franca Ippolito sono due donne che hanno lavorato a ricami e intarsi di cotone e velluto. Per recuperare l'antica tradizione de li prisènti, disegnati da Alighiero Boetti, Carlo Ciussi, Renata Boero e altri, serviva il loro lavoro. Dalle loro mani sono venuti fuori i cammelli di Boetti, le bandierine per la festa di San Rocco di Consagra, i servizi in "sfilato" siciliano con i disegni di Carla Accardi, i costumi per "Le Troiane" di Thierry Salmon, le preziose vesti di scena de "La belle e la Béte" di Philip Glass. I grandi pannelli di ceramica che si affacciano sulla piazza che porta la data del terremoto, 15 gennaio, sono lavori di Carla Accardi e Pietro Consagra, entrambi trapanesi, artisti internazionali che hanno voluto donare la loro arte per la ricostruzione. «Grazie al terremoto», dice Pippo Ferrara, che con la storica cooperativa di ceramisti di Gibellina ha realizzato i pannelli. Racconta Ferrara, che dopo il terremoto era tornato a Gibellina: «Corrao era il sindaco e iniziò ad affidarci dei lavoretti, poi ci assegnò le collaborazioni con grandi artisti: Accardi, Consagra, Pomodoro. Quando ci chiamò ci disse: "Dunque ragazzi, c'è la signora Carla Accardi che sta preparando sei cartoni per dei pannelli in ceramica per la nostra città. Volete lavorarci?" Avevamo paura, pensavamo di non essere all'altezza, ma l'artista ci stette molto vicina. Poi l'incontro con Consagra, che volle lavorarci con le sue mani, mattonella per mattonella. Il rapporto con gli artisti era stupendo». Davide Camarrone compie una raccolta meticolosa, recupera fili che rischiavano di perdersi, riannoda luoghi, gesti, persone. E così la memoria scolpita, plasmata, forgiata, racconta di opere e giorni dell'arte contemporanea che adesso risuonano ancora, per tramandare la loro storia, che è storia di tutti.
Repubblica — 20 luglio 2010
Emanuela E. Abbadessa
In una Palermo feroce e bella c'è gente che vende e compra bambini. Il commissario Sara Salemi, vicecapo della Sezione minori, che conduce le indagini dev'essere pericolosamente vicina a scoprire i nomi degli insospettabili che ogni settimana vanno al Mercato con grosse auto scure a prendere i piccoli, se qualcuno ha deciso di aggredirlae pugnalarla senza pietà proprio dentro gli uffici della Questura. Da questo antefatto si dipana la trama mozzafiato de La crosta dell'Inferno, uscito in giugno da Rizzoli nella collana HD dedicata al romanzo di genere, "thriller, amore, azione, fantascienza, avventura". L'autore, celato dietro lo pseudonimo Simon Daniels, «conosce il mondo criminale siciliano e i suoi retroscena più inquietanti», come recita la stringatissima nota biografica, ma soprattutto conosce Palermo così bene da farne l'inquietante protagonista del suo romanzo sul più ignobile dei crimini. Sotto un cielo celeste «umido di lacrime», Palermo è una città di palazzi che rigurgitano storia: la Curia e la Cattedrale; il Palazzo dei Normanni; Palazzo Sclafani costruito per gareggiare in bellezza e possanza con Palazzo Chiaramonte, lo Steri. Ma è anche una città di lapidi in cui non c'è più spazio per aggiungere i nomi di nuovi eroi, primo tra tutti padre Pino Puglisi, ucciso dalla mafia il 15 settembre del '93 e al quale il romanzo è dedicato. Una metropoli di voci, di suoni e di pensieri che parla a chi sa ascoltarla e che, liberata da qualsiasi pericolosa tentazione di localismo, appartiene a una geografia letteraria che la imparenta alla Los Angeles di Easy Rawlins, l'investigatore creato dalla fantasia di Walter Mosley, o alla misteriosa Gotham City in cui per combattere il crimine non bastano gli uomini, occorrono i supereroi. Sara Salemi però non è un supereroe, è solo un bravo poliziotto che, morto suo padre, non ha altro a cui pensare se non al lavoro e ad Elle, un vespino del '67, naturalmente truccato, che ha comprato a un'asta giudiziaria. E supereroe non lo è nemmeno Marcello Porzio, il suo capo, un tipo rozzo dal passato discutibile, capace però di rivelare il suo essere autentico solo a chi può capirlo. Come Palermo. Per quanto Sara e Marcello aderiscano senza particolari sorprese ai loro personaggi, non cadono mai nello stereotipo grazie a una scrittura asciutta dove nessuna parola è di troppo e, al posto di troppe spiegazioni, si preferisce la sospensione, l' ellissi, il sottinteso, tutti espedienti dei quali la stessa Sara Salemi sembra espertissima grazie ai suoi colloqui con la signora Calderaro, matriarca di una famiglia in odor di mafia, sua dirimpettaia. Le vere sorprese, d'altra parte, sono tutte nell'intreccio che, sfidando anche il lettore più attento, sorprende con colpi di scena capaci di mettere in discussione le regole del giallo senza però mai tradirle davvero. La crosta dell'Inferno è un romanzo corale e crudele in cui la parola si fonde alla musica, quella dei Radiohead e quella di Janis Joplin, ad esempio, che compare in esergo col celeberrimo "Non venderti: sei tutto ciò che hai", e in cui l'originalità è assicurata da un uso sapiente di ben celate citazioni e rimandi (da Sciascia a Manzoni) e da uno scavo psicologico dei personaggi inedito, tutto sommato, per un romanzo di genere. Ai pensieri di Sara Salemi fanno da contrappunto quelli della Bestia, la micidiale macchina omicida che ha tentato di uccidere il commissario e alla quale, insospettabilmente è collegata l'intera vicenda della vendita dei bambini. Protetta dalla propria abilità, la Bestia si fa forte del fatto che Palermo sottovaluti la morte immaginando di poterla dominare. O, forse, la sua forza viene solo dalla povertà, dall' ignoranza e dall'indigenza. In questa città in cui la morte è sempre un fatto di soldi, c'è l' operaio che vendeva i bambini al fratello, l'ambulante che insieme alla moglie stuprava il figlio e lo vendeva per venti euro; c'è la donna che ha avuto sette figli e ha regalato l'ultima nata a un conoscente in cambio di un televisore e ci sono i ricchi con la villa a Mondello che affittano i bambini dalle loro stesse madri. Nulla di nuovo a dirla tutta: qualche secolo fa erano le città del Sud d'Italia a vantare il più alto numero di castrati perché evirando un bambino prima della pubertà la famiglia poteva sperare di farne un cantante più o meno famoso e magari guadagnarci qualcosa. E se poi la voce non fosse stata proprio quella di un Farinelli, la Chiesa avrebbe certamente accolto il giovane tra i pueri cantores. Ma anche dove tutto sembra perduto, Sara Salemi e Marcello Porzio non sono, fortunatamente, gli unici tutori di una legalità da difendere con le armi e spesso con la vita; c'è il questore, c'è Mariano il poliziotto, c'è Cesare Piave, il procuratore «con il pizzo d'ordinanza da ufficiale sabaudo». Vividissimo e umano, soprattutto, c'è padre Cosimo che ha lasciato Milano e la cattedra di Letteratura Inglese e nel «fegato di Palermo», lo Zen 2, ha fondato "La Madonna della Luce", sola ancora di salvezza per i ragazzini del quartiere, poco più di un ex centro sociale dove si sente il tanfo della miseria, l'odore acre degli stracci che spargono per terra lo sporco, il sudore degli adulti, il soffritto di cipolla e l'acido muriatico. Ma, inspiegabilmente padre Cosimo che era uno dei massimi esperti di John Milton e di Paradise Lost, in quella periferia estrema di una città estrema, ha fatto nascere un piccolo Paradiso dentro l'Inferno.
Repubblica — 27 giugno 2010
Salvatore Ferlita
Distruggi la mia città. Bruciala. Macina ogni sasso, riducilo in polvere. Radi al suolo Palermo e spargi il sale sulle sue rovine, perché a nessuno venga in mente di ricostruirla. La ripete mille volte, il commissario Salemi, guidando il vespino: la sua letterina a Babbo Natale è acido solforico. Potresti cominciare da piazza della Vittoria, pensa. Qui la Storia ti assale a ogni angolo, come un rigurgito che sale dagli intestini della città, dal suo groviglio di fogne e canali di scolo, e ti gocciola addosso. Maleodorante. Indelebile. Provi a scansarla e ti travolge un metro più avanti. La Storia non ha pietà né dei vivi né dei morti. Guai a scivolarci sopra. Il commissario le conosce bene, le storie della piazza. Ce ne sono tante, tra i cumuli d' immondizia che marciscono intorno ai cassonetti, da settimane, in quest' autunno miserabile. La piazza è un cimitero di lapidi senza iscrizioni, una fossa comune di segreti e tradimenti. Sul fianco destro, c' è la curia: di tanto in tanto, padre Pino Pugliesi bussava al portone dell' arcivescovado chiedendo aiuto per i bambini che sottraeva alla mafia di Brancaccio. Nel 1993, Cosa Nostra lo punì con un colpo di pistola alla nuca. La curia è unita da un arco alla cattedrale. All' ingresso sono stati incisi angeli e mostri, che forse erano fratelli.
Incipit del libro di Simon Daniels (Davide Camarrone) La crosta dell' inferno, Rizzoli, 234 pagine, 16 euro.
È UNA sensazione strana, quella che si prova leggendo La crosta dell' inferno (Rizzoli, 234 pagine, 16 euro) di Simon Daniels (pseudonimo di Davide Camarrone): la scrittura è uno scivolo, di quelli che ti spezzano il respiro; una cascata d' inchiostro, che non ammette resistenze, trascinandosi ogni cosa. La materia narrata, greve, maleodorante, invece ti induce allo stallo. Talmente disgustosa da trasformarsi in una diabolica zavorra, in un contrappeso insostenibile. Da qui, una doppia velocità: le accelerazioni dello stile, essendo le frasi come dei cavi attraversati da continue scariche elettriche, e dunque la lettura che si fa come in una corsia preferenziale, a tutto gas; e i rallentamenti necessari per tornare a respirare, per sgravarsi di un peso. Si tratta di un romanzo-verità che è pure un hard boiled ambientato in una Palermo atroce, al centro del quale si muove il commissario Sara Salemi, vicecapo della Sezione Minori della Polizia, donna di sensualità spigolosa, il cui identikit rispecchia le tipiche caratteristiche di certi investigatori che non chiedono mai, quelli per intenderci alla Sam Spade o alla Philip Marlowe. La Salemi è un tipo solitario, poco avvezza a fare la madre di famiglia, non ha amici; sa bene quando far ricorso a un linguaggio gergale, e di solito è laconica, a volte elusiva. Insomma, un commissario con le carte in regola per affrontare un' indagine pericolosa: alcuni episodi di violenza su minorenni che la conducono dritta all' inferno. Inchiesta che le costa quasi la vita: un giorno viene infatti aggredita dalla "Bestia" in uno sgabuzzino della questura: vuole toglierla di mezzo procurandole il massimo di sofferenzae sfidando le forze dell' ordine con inaudita tracotanza: «Deve aver maneggiato - dice il signor questore alla Salemi - dell' esplosivo al plastico, se le hanno fatto quello che le hanno fatto»; «si è infilata in qualche deposito di munizioni, è vero? In una bella casamatta piena fino al tetto di candelotti di dinamite!». La scoperta infatti di un vasto giro di pedofilia nel centro storico della città ha fatto del commissario un bersaglio da colpire prima possibile, trasformandola da temibile cacciatrice in una preda da eliminare per mettere al sicuro gente insospettabile, professionisti e padri di famiglia che indossano una maschera cortese e perbene. È una Palermo mai finora raccontata quella disegnata da Simon Daniels, un nuovo e terribile girone dell' inferno, in cui si muovono un nonno che insegna al nipote come tagliare la coca; un padre e una madre che per un televisore regalano la figlia a un conoscente; anziani annoiati apparentemente inoffensivi, che custodiscono in una baracca di lamiera il loro giocattolo, «una ragazza di diciannove anni, incapace di parlare e di star ferma con lo sguardo»; un operaio che vende i suoi due bambini, di sette e otto anni, al fratello; un ambulante che insieme alla moglie stupra il figlio di otto anni e lo vende per venti euro. Un' umanità svilita, ridotta a uno stato più che bestiale, possibilmente relegata in un quartiere dello Zen 2, «il fegato di Palermo, maledizione e consolazione, spugna, filtro di ogni sozzura». Ma questo è solo il sembiante marcio e impresentabile di una città che, sotto la cenere, nasconde le sozzure più immonde. Perché a giovarsi del degrado morale e civile del capoluogo isolano, è proprio il salotto buono, tutto lustrini e paillettes, con le lauree e le specializzazioni incorniciate negli studi, le fuoriserie nei garage,i milioni di euro nei conti in banca. Sara Salemi ha messo mano in questo verminaio immondo, fatto di agenzie di viaggi specializzate in tour sessuali, a spese quasi sempre di minorenni, di siti internet che aprono e chiudono con estrema facilità, senza lasciare una traccia. Con la pazienza del ragno, nascondendo la nausea sotto una corazza caratteriale impenetrabile, ha ascoltatoi racconti delle piccole vittime, ha estorto confessioni, ha sfidato le intimidazioni, infischiandosene della sintassi dei facinorosi. Certo, le tenebre di questa Palermo perversae demoniaca, vengono ogni tanto squarciate dalla luce, seppur flebile, che emanano suor Chiara, dall' età indefinibile, la pelle liscia liscia, che accudisce bambini sfortunati, quelli venduti e comprati al Mercato; o padre Cosimo, accusato di molestie sessuali («tocca i bambini, cerca i baci, li fa spogliare»)e condannato in primo grado. Lui aveva confermato ogni cosa: «Li ho toccati, quando li accompagnavo al campo di calcio, o li separavo durante le liti furibonde... li ho baciati e li ho abbracciati per consolarli, per spegnere il fuoco delle lacrime... li ho spogliati per vestirli dei vestiti che gli compravo con le offerte della domenica...». Ma sono lampi improvvisi, bagliori evanescenti: l' oscurità più profonda non si lascia affatto intimidire. Sara Salemi, che quasi miracolosamente sopravvive all' attentato, passa al contrattacco, affiancata da Marcello Porzio, il suo capo, «un animale da caccia nato per la giungla, la lotta, il sangue», inabissandosi nuovamente nelle viscere di Palermo. E in questa discesa agli inferi, ne vede di tutti i colori, muovendosi tra storie di mafia e la presenza dei servizi segreti. Il ritmo della storia si fa sempre più incalzante, da togliere il fiato; l' oggetto dell' indagine sempre più respingente e maleodorante. E nonostante il lieto fine, da giallo classico, Palermo rimane un' immonda crosta dell' inferno.
Famiglia Cristiana - 28 febbraio 2010
Laura La Pietra
Non tace nulla, l'africana Fatima. Arrivata nella redazione del Corriere della Sera, ha un solo scopo: raccontare ciò che ha vissuto Osea Boucouba, cronista dalla pelle nera fintosi clandestino per un reportage e rinchiuso in un campo di concentramento libico. Il romanzo di Camarrone, tratto dal racconto pubblicato ne Il sogno e l'approdo (Sellerio), fa riflettere sulle difficoltà affrontate, in Italia e in patria, dagli stranieri irregolari, e piace per la figura della "donna memoria" che parla in prima persona, come in trance, di altrui vicende e del giornalista che ne raccoglie la voce.
Il Mondo - 5 febbraio 2010
Antonio Calabrò
(...) Una grande storia di persone in cerca di dignità sta al centro di Questo è un uomo di Davide Camarrone: l'avventura di un giornalista, Osea Boucouba, figlio di immigrati, naturalizzato italiano, inviato speciale di un grande quotidiano, che si immerge sotto falso nome nell'inferno degli immigrati irregolari, per documentarne le sofferenze e denunciare le violenze cui sono sottoposti, in Italia e nelle terre dei rimpatri forzati. Sino all'epilogo drammatico. La lezione di Primo Levi e del suo Se questo è un uomo, testo essenziale per capire il cuore di tenebra delle persecuzioni anti-ebraiche e delle violenze razziali, resta purtroppo d'attualità.
Oggi - 3 febbraio 2010
Grazia Lissi
Davide, autore in ascesa.
Davide Camarrone ha firmato il soggetto e la sceneggiatura di Ce ne ricorderemo di questo pianeta, premiatissimo documentario su Leonardo Sciascia. Nel nuovo romanzo, Questo è un uomo (Sellerio), protagonista è Osea, un giornalista nero che indaga sui centri di prima accoglienza.
Il Giorno, Il Resto del Carlino, La Nazione - 17 gennaio 2010
Laura Cinelli
È L’ORRORE affidato a un racconto, è la Memoria raccolta da una donna, è l’umanità dolente, quella degli immigrati, che parla attraverso un filo sottilissimo che dall’Italia porta all’Africa e ai nuovi campi di sterminio. Intenso e avvincente il nuovo libro di Davide Camarrone «Questo è un uomo» (Sellerio). Novanta pagine da leggere tutte d’un fiato perché il ritmo della scrittura e il contenuto drammatico portano dritto al cuore. E all’attualità. «Questo è un uomo» è la storia di Osea Boucouba, un giornalista figlio di immigrati, colto, intelligente, curioso che per sperimentare il percorso dei disperati, si finge uno di loro. E passa, dallo sfruttamento sul lavoro, alla ‘vendita’ ai caporali al campo di lavoro in Libia... alla morte. Fatima è la nobile senegalese a cui Osea affida il suo racconto, la donna-memoria che porta un giorno nella redazione di un giornale il reportage del ‘clandestino’, servo di oscuri contadini e trafficanti spietati, inghiottito fino allo stremo dalla più grande migrazione della storia umana e dalla più indegna persecuzione moderna dopo la Shoah.
Camarrone, un racconto struggente che, visto oggi, dopo i fatti di Rosarno, fa ancora più male.
«Purtroppo sì. Vede, in questi giorni non si fa altro che parlare di razzismo e di paura. Il razzismo però è un’ideologia che si compone di teorici, scienziati, intellettuali che predicano la superiorità della razza. In Italia questo non c’è più, ma c’è la paura dell’altro, che non conosciamo. Per cultura, per abitudini di vita, perché magari abbiamo letto o visto centinaia di film sull’America e non sappiamo nulla dell’Africa. Se a tutto questo aggiungiamo la crisi economica, le infiltrazioni della criminalità, l’esasperazione... ecco Rosarno».
Il suo libro è scritto come un‘reportage’. Perché, per rendere più immediata la tragedia umana?
«Credo che un autore debba calarsi nei personaggi come fa un attore in teatro. Io sono partito da un’idea semplice: quella dell’impossibilità di comunicare l’orrore. Settant’anni fa, nonostante i giornali, il cinema... i governi riuscivano a tenere nascosti i campi di lavoro e di sterminio. Oggi no. E mi chiedo come sia possibile fingere di ignorare ciò che succede a pochi passi da casa».
Lei ha ‘vissuto’ i campi di accoglienza?
«Da giornalista osservo. E annoto l’indifferenza. Ho sempre ammirato ciò che aveva fatto Fabrizio Gatti (giornalista dell’Espresso ndr) che si era finto curdo e aveva raccontato dall’interno i Cpt. Così sono partito per questo mio viaggio a ritroso nel tempo.E ho scritto di Osea, un giornalista italiano di origini africane, di Fatima la donna-memoria che incarna il mito, la tradizione. Mi sono riletto Primo Levi, quelle parole su vittime e carnefici, sulla degradazione umana... Perché fingiamo oggi di non sapere quello che accade a Kufra? In fondo basterebbe andare in rete e cliccare su Kufra.com».
Dunque il suo libro come denuncia civile?
«Vede, l’immigrazione si può vedere come un problema (e non si troverà mai la soluzione) o come un cambiamento. Se continueremo ad avere paura di questi flussi di persone, di questa migrazione planetaria che si sposta da una parte all’altra della Terra, non arriveremo mai a nulla. Prima accettiamo il cambiamento, meglio è».
Immigrati siamo stati anche noi. E’ un fenomeno antico. Il problema, semmai, è come affrontarlo oggi...
«Senza arrenderci all’evidenza, a ciò che appare. Accettando il fatto che prima si andava a cercar lavoro all’estero per poi tornare in Italia e costruirsi la casa. E oggi invece i migranti, in quel paese dove immigrano, ci restano. Perchè sono i più colti, i più giovani, quelli che hanno un progetto per il futuro a partire su quei barconi. Si pagano il viaggio, affrontano la corruzione, le rapine, gli stupri... e lo fanno in nome di un progetto di vita consapevole».
Ma i politici litigano.
«Perché guardano all’urna elettorale e non al Paese. Il cambiamento va governato».
E come, dopo Rosarno?
«Cominciamo dalla scuola, cominciamo a spiegare ai giovani che l’Italia non è più quella di una volta. Inseriamo nei programmi ministeriali anche la storia degli altri. I nostri ‘ospiti’ ci sembreranno meno ostili, meno mostruosi».
La gente però ha paura...
«E di cosa? Delle discese all’inferno di questa povera gente? Delle condizioni bestiali in cui vivono? Dello sfruttamento economico che per venti anni abbiamo loro imposto senza dire una parola? I criminali, i fanatici ci sono sempre stati ed è contro di loro che bisognerà attrezzarsi meglio. Ma gli altri... Dovremmo ascoltare il messaggio antico, quello che ci arriva dalla Storia: “Mai più”. E comportarci tutti, di conseguenza. In nome della dignità umana».
Adn Kronos - 31 dicembre 2009
Non è una storia vera, ma lo potrebbe essere. Gli ingredienti ci sono tutti e i reportage quotidiani di immigrati morti in mare, dispersi, sfruttati, ne sono la dimostrazione. In 'Questo è un uomo' del giornalista palermitano Davide Camarrone (Sellerio editore Palermo, 90 pagg., 10 euro), viene raccontata la storia di uno straniero, appunto. Il suo nome è Osea Boucouba, figlio di immigrati, ma naturalizzato italiano e inviato speciiale di un quotidiano. A un certo punto della sua vita, si fa inviare dal suo giornale in Africa a seguire le rotte degli immigrati. Ma di lui non si hanno più notizie. A cercarlo è una donna, che "indossava una veste colorata di giallo, rosso, e verde e ciascuno dei colori virava su una tonalità inconsueta; sul capo portava un foulard di seta grezza che ripeteva esattamente quei colori; era alta, di proporzioni assai generose, ed era, soprattutto, nera: di un nero così intenso e vellutato che avrebbe potuto ricordare certi giorni nei quali il sole non ha pietà di alcuno e prosciuga le carni, le brucia, e certe notti del deserto, quando la luna si nasconde, svelando le stelle", come scrive Camarrone.
La donna si presenta, per più giorni ripetutamente, alla portineria del 'Corriere della Sera'. "Je voudrais parler avec un journaliste", ripete come una nenia, ma non riesce nel suo intento, quando finalmente riesce a richiamare l'attenzione di un anziano giornalista, aggiunge: "de Boucouba Osea". Il nome fa sussultare chi l'ascolta. La donna si chiama Fatima ed è una nobile senegalese di una famiglia di griot, è una donna-memoria, di quelle genti che di generazione in generazione sono addestrate dalla nascita a ripetere fedelmente le storie dei villaggi. Camarrone descrive anche l'avventura di Osea nel campo di detenzione di Kenafra in Africa. "Sono diventato un altro uomo - scrive Osea - Mi hanno costretto a diventarlo. Loro". Un crudo racconto poi della sua esperienza di italiano 'nero'.
Il romanzo breve è tratto dall'omonimo racconto pubblicato dalla stessa casa editrice a febbraio nell'antologia 'Il sogno e l'approdo' curata da Antonio Sellerio.
Avvenire - 19 dicembre 2009
Fulvio Panzeri
Il ritorno alla forma del racconto lungo o se si vuole del romanzo breve, fa davvero bene alla narrativa italiana. Così in questo autunno, dopo l’intensissimo Il peso della farfalla di Erri De Luca, che tocca con estrema e lucida forza il tema della morte, ecco un’altra opera altrettanto intensa e drammatica, uno di quei libri che risollevano le sorti di un’annata letteraria modesta, ma con punte di diamante da scoprire come in questo caso, il secondo libro del siciliano Davide Camarrone, classe 1966, autore di numerosi saggi, testi teatrali, nonché il soggetto e la sceneggiatura di un docudrama dedicato a Leonardo Sciascia. E Camarrone sceglie proprio, in questo suo nuovo testo che rende omaggio tematicamente a Primo Levi e al suo Se questo è un uomo, fin dal titolo che diventa Questo è un uomo, di lavorare nella tradizione dell’invettiva morale assai cara a Sciascia e del grande autore siciliano mutua la secchezza e l’essenzialità del racconto, che adotta un realismo metaforico, in cui un’inchiesta giornalistica finisce per aprire le porte sull’inferno delle condizioni dei clandestini, sulla loro «prigionia», su ciò che avviene una volta riportati sulle coste africane, con un sospetto che viene denunciato nel racconto, quello dell’esistenza di veri e propri campi di prigionia, in cui la disperazione dei clandestini neri diventa dolore acutissimo, tanto da far mettere in discussione qualsiasi diritto e qualsiasi tutela della condizione umana. La storia viene da lontano, da una delle stanze di Via Solferino, dove lavora un giornalista nero, cittadino italiano, figlio di un nigeriano, ingegnere, e di una somala, professoressa. Per un’indagine giornalistica che metta in luce le condizioni in cui vivono i clandestini nei centri di accoglienza e dove finiscono una volta rispediti a casa, pensa di essere lui la persona giusta, la meno sospettabile, per fungere da infiltrato, senza farsi riconoscere come giornalista, in modo da osservare con i propri occhi la realtà. Il destino non sarà così benevolo rispetto ai presupposti da cui nasce il viaggio. Osea Boucouba viene trattato veramente da clandestino e lui, che non rivela la vera identità, è costretto a subire il destino dei disperati che vengono caricati su navi fatiscenti e rispediti nel proprio continente. Di lui si perdono le tracce e si crede che sia scomparso in mare, come tanti altri clandestini. C’è però un’ultima possibilità, per far venire a galla la verità di cui è vittima lui stesso come tanti altri africani. La tomba non è il mare, ma un campo di detenzione libico nel deserto, dove però la memoria è ancora un valore sacro e viene raccolto da donne come Fatima, che è la vera protagonista di questo racconto lungo, che gira in una Milano per lei sconosciuta alla ricerca di qualche giornalista del quotidiano, al quale raccontare la storia di Osea. È bellissima la sua dimensione metaforica, che si impone su tutto il romanzo, quella di custode della memoria, una memoria che non può essere né taciuta, né dimenticata. È lei a incarnare totalmente la voce di Osea, a farla rivivere nella sua redazione e nel libro: «Io, Fatima, sono una donna memoria. Io sono colei che ha il dono della parola e racconta le storie degli altri: quelle di chi ha vissuto nel tempo che non c’è più e quella di chi vive il nostro stesso tempo». In questa sua metafora di custode della verità mette a nudo la notte disperata dei migranti di tutto il mondo, la loro tragica odissea in cerca di condivisione e soprattutto di giustizia sociale. Camarrone scrive con uno stiletto, affonda nelle pieghe del «non detto» della vergogna, con un sogno che illumina questo Natale: "Io desidero bontà, non sacrifici, e la conoscenza di Dio più degli olocausti".
Thriller Magazine - 10 dicembre 2009
Chiara Bertazzoni
Siamo sicuri che l'orrore dei campi di concentramento si sia esaurito con la fine del secondo conflitto mondiale? E' certo che, memori di quanto ci ha insegnato la storia, non permetteremo che lo scempio si ripeta?
Ai giorni nostri, forti del progresso, delle conoscenze, del "villaggio globale" di internet, conosciamo davvero quello che succede nel mondo?
Su tutti questi interrogativi invita a riflettere Davide Camarrone nel suo romanzo "Questo è un uomo" edito, da poche settimane, da Sellerio.
Un volume conciso e diretto, che segna il ritorno in libreria di un autore siciliano che ha saputo ritagliarsi il suo spazio sugli scaffali e che affronta il tema, oggi più che mai attuale, dell'emigrazione e delle sue tragedie.
L'impianto di questo romanzo breve è costruito su basi sia narrative sia giornalistiche, perchè l'autore decide di raccontare una vicenda verisimile, che attinge alla realtà dei fatti che ogni giorno popolano i telegiornali, fondandola, però, su una struttura narrativa e romanzesca solida e calibrata.
Osea Boucouba è un giornalista del Corriere della Sera. E' figlio di immigrati, naturalizzato italiano, da due anni ha lasciato Milano per un servizio più impegnativo: vuole provare sulla sua pelle e documentare la clandestinità dall'Africa all'Italia. Da quel momento di Osea si perde ogni traccia. Fino al giorno in cui Fatima, una griot (donna memoria), si presenta alla redazione di via Solferino e racconta ai colleghi di Osea la storia che lui stesso le ha narrato.
Un reportage, dicevamo, ma costruito come un romanzo giallo, attorno alla scomparsa di un giornalista. Un romanzo, anche, che vuole, però, far riflettere, dare fastidio, invitare ad aprire gli occhi per uscire dalle rassicuranti certezze e conoscere davvero quello che accade nel mondo.
E lo fa attraverso una storia diretta e rapida, implacabile nella sua verità, che deve essere solo un primo passo verso la ricerca e la consapevolezza di quanto accade fuori dai confini del nostro paese.
Europa - 27 novembre 2009
Andrea Geloni
Questo è un uomo torna fin dal titolo, con un rispettoso e dolente omaggio, a Primo Levi.
Ci torna per necessità, perché ha bisogno di dire: signori, è ancora così. Oggi, 2009. Il mondo guarda altrove, la barbara Italia difende con i forconi i propri indifendibili privilegi.
Gli africani devono tornare a casa loro. Bene: mettiamo che ad aspettarli non ci sia una casa. Mettiamo che ad aspettarli ci sia Auschwitz.
Ce ne accorgeremmo? Qualcuno ce lo racconterebbe? Che differenza c’è tra l’opinione pubblica tedesca degli anni Trenta e noi, che abbiamo tutti i mezzi del mondo ma che alla fine – telecomando alla mano – ci facciamo raccontare quel che ci fa più comodo sentire? Davide Camarrone penetra al centro di questo incubo. Il suo libro (bellissimo, anche da fuori, edito da Sellerio) è il romanzo di un giornalista e quindi è per metà finzione e per metà racconto – vero o orribilmente verosimile – dell’inferno degli emigranti che attraverso la cara amichevole Libia cercano una nuova vita – o meglio: una vita – nel loro vago sogno europeo.
Osea Boucouba è un giornalista italiano. Lavora a Milano, in via Solferino.
Solo, è un giornalista vero.
Non gli basta la stima e l’affetto dei colleghi anziani, a cominciare da Paolo Ventimiglia, che prossimo alla pensione gli fa da mentore incontrando in lui la medesima passione.
Osea vuole andare a vedere.
I suoi genitori a venire dall’Africa ce l’hanno fatta. Lui in Europa c’è nato e qui ha studiato e lavora. Ma è uno di quelli, e deve andare a vedere.
Sarà tutto diverso da come aveva letto o sentito raccontare. Sarà un inferno dal quale non sarà lui a tornare, ma il suo racconto, tramite una nobile senegalese che lo ha conosciuto e che lavora in lavanderia vicino alla redazione.
Questo è un libro estremamente importante. Breve, duro, implacabile.
Portatevelo dietro – sta in una tasca – vi dovesse capitare di rimanere in un ascensore bloccato con certi fanatici della “sicurezza”.
Leggeteglielo a forza.
Bellissimo e struggente il panorama che emerge di un giornalismo che resiste, l’affetto di una redazione intera per quella donna che viene a portare la storia di Osea, la calma dignità dei genitori di Osea.
Che bella Italia esce da queste pagine.
Umiliata e offesa, eppure fiera, rispettosa. Gente che non si stanca di lavorare per la verità anche quando ha così poco valore. Come la vita di tanti uomini che mandiamo – tranquillamente, oggi – a morire.
A Sud'Europa
Chiara Furlan
Figlio di immigrati, naturalizzato italiano, diventato inviato speciale del Corriere della sera, Osea Boucuba decide di fingersi
Clandestino per raccontare la tragedia dell'emigrazione dall'Africa all'Italia. Un reportage che lo fa tornare alle sue origini e gli costerà la vita. Personaggio d'invenzione nel romanzo breve “Questo è un uomo” (Sellerio, pp 90, euro 10) del giornalista della Rai di Palermo Davide Camarrone, Osea è una figura molto vicina alla realtà di tanti clandestini e profughi di oggi. Una realtà alla quale si guarda, dice Camarrone, che la ha conosciuta da vicino per il suo lavoro, «senza rendersi conto che siamo di fronte alla più grande migrazione della storia umana. Un fenomeno che è destinato a crescere e che non può essere ridotto al problema della sicurezza».
Da qui il titolo del libro «Questo è un uomo» che è un esplicito riferimento a Primo Levi e un invito a diventare consapevoli di quello che sta accadendo. «È un titolo denuncia ma anche un appello a conoscere. Non possiamo dire di non sapere - dice l'autore - e se sappiamo non siamo innocenti. Dopo la Shoah si disse “mai più una tragedia cosi”, eppure ne abbiamo una simile davanti a noi». Per Camarrone, 43 anni, palermitano, è chiaro che «sono fenomeni molto diversi fra loro ma ci sono una serie di eventi che fanno pensare alla Shoah. Navigare in 300 su un barcone di 17 metri quadri, che vuol dire 4-5 persone per metro quadrato, dove per l'eccessiva vicinanza è impossibile accorgersi che chi ti sta accanto sta morendo, è simile a quello che accadeva sui vagoni piombati dei treni che portavano verso i campi di sterminio. La rilettura di Primo Levi, un'esperienza umana di meno di 70 anni fa, che si svolse nella disattenzione e indifferenza colpevole, ha dimensioni simili a quella dell'immigrazione attuale». Nel romanzo a riconsegnare la memoria di Osea è una nobile donna senegalese - di una famiglia di griot in cui le cosiddette donne-memoria sono addestrate a ripetere fedelmente le storie dei villaggi - che in questo caso riporta in redazione parola per parola il reportage di Osea Boucuba. «Quello che ho scritto nel libro è pura invenzione ma ha una funzione simbolica. Osea è uno dei profeti minori della Bibbia. Partendo da una posizione di sicurezza decide di raccontare dall'interno cosa accade ai clandestini, ma non c'è un limite accettabile nella ricerca della verità e paga con la vita. A un certo punto - spiega il giornalista - capisce che potrebbe tornare indietro ma non lo fa perchè ha un compito da assolvere». “Questo è un uomo” nasce da un racconto omonimo, uscito nel febbraio scorso da Sellerio nell'antologia Il sogno e l'approdo ed è stato portato in scena da Alessandro Haber e Caterina Deregibus. «La storia - spiega Camarrone - è identica. Finora non abbiamo guardato a questo fenomeno con onestà. Il primo passo deve essere la consapevolezza. Ho parlato con tanti immigrati e clandestini. Ho ascoltato le loro storie, sono persone come noi, molti hanno studiato, hanno famiglie. Sono precipitati nell'inferno ma è un inferno che riguarda tutti e in cui potremmo precipitare anche noi».
Repubblica — 08 novembre 2009
Salvatore Ferlita
La convinzione che «ogni straniero è nemico - si legge nella pagina d'apertura di Se questo è un uomo di Primo Levi - giace in fondo agli uomini come una infezione latente». «Quando essa si manifesta - continua Levi - quando il dogma inespresso diventa premessa maggiore di un sillogismo, allora, al termine della catena, sta il Lager». Si tratta di un'infezione misteriosa e latente che ciclicamente si palesa, provocando nuovi, terribili stermini. Come nel caso dei clandestini che quasi quotidianamente vengono caricati su barconi pencolanti, per lasciarsi alle spalle l'inferno quotidiano. E il più delle volte, ad attenderli è solo un altro tipo di Geenna, di baratro demoniaco e di perdizione. Questa nuova shoah Davide Camarrone ha voluto raccontare nel suo romanzo Questo è un uomo (Sellerio, 90 pagine, 10 euro), nato dalla costola dell'eponimo racconto presente nell' antologia Il sogno e l'approdo. Racconti di stranieri in Sicilia (Sellerio), dove compaiono testi di Santo Piazzese, Maria Attanasio, Giosuè Calaciura, Gaetano Savatteri e Lilia Zaouali. Camarrone, che ha al suo attivo due romanzi, Lorenza e il commissario e I diavoli di Melùsa, non ha alterato nulla, rispetto alla stesura precedente: ha solo disteso la scrittura, laddove era necessario; ha migliorato la sua prosa, calibrando il passo con più sapienza. Insomma, ha realizzato un'opera di perfetta e delicata ingegneria letteraria, raddoppiando il numero di pagine, facendo dei personaggi della storia, che nel racconto erano pure intuizioni liriche, dei simboli. Ne è venuto fuori un romanzo difficile da definire: siamo a cavallo tra il finto reportage e il memoriale di secondo grado. Perché va subito detto, a scanso di equivoci, che non c'è nulla di vero in questa narrazione, essendo però tutto verosimile. Si legge a un certo punto: «Le identità non contano in questa storia, e non vi è alcuna differenza tra vero e falso»: non potrebbe esserci migliore incunabolo per addentrarsi nella selva oscura tratteggiata dall'autore. In questo caso dunque, per citare Franco Fortini, la letteratura è una menzogna che dice la verità. Una verità che si spalanca su uno scenario da incubo: campi di lavoro, di prigione, deserti disseminati di cadaveri, mari che restituiscono brandelli di corpi. Al centro della storia c'è la figura di Osea Boucouba, figlio di immigrati africani, cresciuto in Italia, dove ha studiato Giornalismo col massimo dei voti. Dopo avere frequentato brillantemente un master, si presenta alla redazione di una delle grandi testate giornalistiche, con sede a Milano. Inizia subito a collaborare, per diventare pian piano inviato speciale. Un giorno, Osea, che nel frattempo s'è guadagnato la stima dei colleghi e del direttore, manifesta l'intenzione di raccontare la discesa agli inferi della clandestinità in Italia. Dopo una delicata vertenza, ottiene l'imprimatur. Prende un aereo per Palermo, e da lì, dismessi gli abiti borghesi, si reca in provincia di Trapani, ad Alcamo, per lavorare in nero in un'azienda agricola: il suo compito è quello di riempire d'uva le cassette, caricarle sui camion e poi scaricarle. Da lì, dopo qualche giorno, si sposta ad Agrigento, dove si sta costruendo una superstrada. C'è bisogno di manodopera irregolare in un grosso cantiere. Ma qualcosa va storto, arrivano subito le forze dell'ordine, e i clandestini vengono prima trasferiti nel centro d'accoglienza di Bonagia, un carcere da cui è impossibile evadere, per poi essere condotti in Libia, a Kenafra, «uno di quei posti che voi chiamate inferno» si legge nel romanzo. Laddove Osea farà una brutta fine. Questa laica e tragica via crucis viene narrata, quasi sotto possessione, dalla voce di Fatima, una donna memoria, colei che ha il dono della parola e racconta «le storie degli altri: quelle di chi ha vissuto nel tempo che non c' è più e quelle di chi vive il nostro stesso tempo». Fatima è capace di mandare a memoria l'intera storia di un popolo e di trasmetterla, intatta, di generazione in generazione. A Kenafra, Fatima incontra Osea, che le racconta la sua peregrinazione, per farne una «testimone auricolare», per dirla con Elias Canetti. E così, pian piano, si srotola il racconto di una tremenda, disumana metamorfosi: la precedente esistenza di Osea Boucouba viene annullata. L'inviato speciale diventa «la vittima» che deve individuare «il boia e la macchina delle torture». E il lettore, di conseguenza, assiste alla demolizione di un uomo, all'abominevole e ambiguo rapporto tra cavia e carnefice, che non è mai un demonio, ma un uomo come noi, che ci rassomiglia, che ha lo stesso nostro volto. Con questo romanzo, in ultima analisi, Camarrone ci vuole dire che ogni tentativo di tenere a galla una forma moderna di umanesimo non potrà fare altro che ripartire da Kenafra: l'inferno in terra per un'umanità perennemente dannata.
Metro - 5 novembre 2009
Antonella Fiori
Un giornalista scompare nel nulla. Si chiama Boucouba Osea, è nigeriano di nascita ma lavora in un importante quotidiano milanese. Per scoprire la condizione dei tanti clandestini arrivati dall'Africa si veste da straccione e vive il dramma dell'essere respinto, l'inferno dei campi di detenzione libici. La sua storia ci arriva attraverso Fatima, una donna africana che la racconta ai suoi colleghi nel bel libro di Davide Camarrone "Questo è un uomo". Libro di denuncia costruito come un giallo, un monito a non pensare che una nuova Shoah non possa più accadere.
Perché far raccontare la storia di Boucouba Osea a una donna?
La voce di Fatìma è la voce del Sud del mondo, una voce che noi generalmente non ascoltiamo anche se la sentiamo. In questo modo, il racconto di Osea, che è diventato uno di noi, che è un giornalista integrato in una redazione, ci torna indietro attraverso l'altro assoluto, Fatima.
Molti dicono che l'Italia è un Paese razzista.
Non credo, ma è un Paese che ha paura.
Nel libro si parla del campo di concentramento libico di Kufran ed è chiaro il legame coi campi di sterminio nazisti sin dai titolo che riprende Primo Levi. Da che punto di vista?
In due sensi. "Questo è un uomo" significa: "vedete a che cosa può ridursi l'umanità" ma anche "questo è un uomo", un giornalista in questo caso, che non rinuncia ad andare fino in fondo per conoscere la verità.
Come definirebbe un clandestino oggi?
I cosiddetti clandestini che arrivano da noi sono i migliori, i più forti dei loro Paesi: abbandonano le loro terre, affrontano il deserto, poi il mare. La definizione migliore è quella di eroi.
Gazzetta del Sud - 5 novembre
Giuseppe Amoroso
Neppure un «misero raggio di speranza» squarcia l'atmosfera plumbea di Via Solferino, «battito irregolare» del cuore di Milano, in un pomeriggio avanzato di novembre. Indossa una vistosa veste colorata la donna, dalla pelle di un nero intenso, che si avvicina alla portineria del «Corriere della Sera» chiedendo, in francese, di parlare con un giornalista. Quando, dopo due giorni, viene ascoltata, pronuncia un nome che risveglia ricordi e un'«immediata sensazione d'affanno» nell'anziano Paolo Ventimiglia, cronista prossimo alla pensione: quel nome, «de Boucouba Osea», appartiene a un inviato speciale, un italiano figlio di nigeriani, che, partito da due anni per un reportage sul traffico di clandestini dall'Africa, non ha dato più notizie di sé. Carico di temi aspri e angosciosi, programmaticamente adottati non solo come mezzo di diagnosi dei mali della nostra società, ma anche di antidoto, di schermaglia arroventata," "Questo è un uomo" (Sellerio editore) di Davide Camarrone rappresenta una realtà drammatica non aggredendola direttamente ma richiamando a frammenti alcuni fatti emblematici e riuscendo così a manifestarla in una qualità espressiva più duttile e, insieme, ambigua, un'apertura a giochi di riflessi, a misteriosi nodi di verità e di finzione («Le identità non contano in questo libro, e non vi è alcuna differenza fra vero e falso»). Resta però intatta la pietra dura delle cose.
Ora, nella biblioteca del quotidiano, la donna, di nome Fatima, una nobile senegalese dotata di segreti poteri, una «donna memoria», vale a dire colei che racconta le storie degli altri e le tramanda in una «ripetizione fedele», fa riemergere come in uno stato di trance la vicenda di Osea, incontrato in un campo di concentramento libico. S'incarna, nella trasognata narrazione di Fatima, l'itinerario che ha portato Osea, sotto mentite spoglie, dal disumano lavoro in un'azienda agricola di Alcamo e in un cantiere agrigentino per la costruzione di una superstrada alla detenzione in un centro di accoglienza (dove non ha potuto rivelare la propria identità) e quindi al rimpatrio nell'inferno di Kenafra. Asciutto, implacabile nella denuncia della violazione di ogni elementare diritto umano, il libro di Camarrone è un registro di spunti sentenziosi che danno all'atmosfera allarmata ritmi di commento, filigrane di paesaggi che appartengono ai lampi del pensiero, microeventi che, sganciati dalle occasioni contingenti, assumono un valore sacrale e impareggiabile, sillabati in un moto di pietà, in immagini fragili e resistenti tenute insieme dall'alternanza di passato e presente.
La Sicilia - 3 novembre
Mauretta Capuano
Figlio di immigrati, naturalizzato italiano, diventato inviato speciale del Corriere della sera, Osea Boucuba decide di fingersi clandestino per raccontare la tragedia dell'emigrazione dall'Africa all'Italia. Un reportage che lo fa tornare alle sue origini e gli costerà la vita. Personaggio d'invenzione nel romanzo breve 'Questo e' un uomò (Sellerio, pp 90, euro 10) del giornalista della Rai di Palermo Davide Camarrone, Osea è una figura molto vicina alla realtà di tanti clandestini e profughi di oggi. Una realtà alla quale si guarda, dice Camarrone, che la ha conosciuta da vicino per il suo lavoro, "senza rendersi conto che siamo di fronte alla più grande migrazione della storia umana. Un fenomeno che è destinato a crescere e che non può essere ridotto al problema della sicurezza". Da qui il titolo del libro 'Questo e' un uomò che è un esplicito riferimento a Primo Levi e un invito a diventare consapevoli di quello che sta accadendo. "E' un titolo denuncia ma anche un appello a conoscere. Non possiamo dire di non sapere - dice l'autore - e se sappiamo non siamo innocenti. Dopo la Shoah si disse 'mai piu' una tragedia cosi", eppure ne abbiamo una simile davanti a noi". Per Camarrone, 43 anni, palermitano, é chiaro che "sono fenomeni molto diversi fra loro ma ci sono una serie di eventi che fanno pensare alla Shoah. Navigare in 300 su un barcone di 17 metri quadri, che vuol dire 4-5 persone per metro quadrato, dove per l'eccessiva vicinanza è impossibile accorgersi che chi ti sta accanto sta morendo, è simile a quello che accadeva sui vagoni piombati dei treni che portavano verso i campi di sterminio. La rilettura di Primo Levi, un'esperienza umana di meno di 70 anni fa, che si svolse nella disattenzione e indifferenza colpevole, ha dimensioni simili a quella dell'immigrazione attuale". Se quello che accade a poche centinaia di chilometri da casa nostra ha "queste caratteristiche drammatiche - dice Camarrone - forse dobbiamo riferirci a quella tragedia per sentire il peso di quello che stiamo vivendo". Nel romanzo a riconsegnare la memoria di Osea è una nobile donna senegalese - di una famiglia di griot in cui le cosiddette donne-memoria sono addestrate a ripetere fedelmente le storie dei villaggi - che in questo caso riporta in redazione parola per parola il reportage di Osea Boucuba. "Quello che ho scritto nel libro è pura invenzione ma ha una funzione simbolica. Osea é uno dei profeti minori della Bibbia. Partendo da una posizione di sicurezza decide di raccontare dall'interno cosa accade ai clandestini, ma non c'é un limite accettabile nella ricerca della verità e paga con la vita. A un certo punto - spiega il giornalista - capisce che potrebbe tornare indietro ma non lo fa perché ha un compito da assolvere". 'Questo e' un uomò nasce da un racconto omonimo, uscito nel febbraio scorso da Sellerio nell'antologia Il sogno e l'approdo ed è stato portato in scena da Alessandro Haber e Caterina Deregibus. "La storia - spiega Camarrone - è identica. Finora non abbiamo guardato a questo fenomeno con onestà. Il primo passo deve essere la consapevolezza. Ho parlato con tanti immigrati e clandestini. Ho ascoltato le loro storie, sono persone come noi, molti hanno studiato, hanno famiglie. Sono precipitati nell'inferno ma è un inferno che riguarda tutti e in cui potremmo precipitare anche noi".
Gazzetta del Sud - 1 novembre
Adelmo Guerini
"Questo è un uomo" di Davide Camarrone appena uscito da Sellerio (pagg. 104, euro 10,00) è una storia di finzione, ma potrebbe benissimo essere un vero reportage e non solo perché come un reportage estremo è scritto, ma anche perché è assolutamente verosimile, nelle peripezie terrificanti che racconta. E gli elementi con cui è costruito - i luoghi, i personaggi - non contengono, presi uno per uno, niente di falso, che non sia rintracciabile in altre storie vere, documenti, testimonianze, servizi. Non è mai accaduto, è possibile che accada, forse accade in questo momento.
Una donna che «indossava una veste colorata di giallo, rosso, e verde e ciascuno dei colori virava su una tonalità inconsueta; sul capo portava un foulard di seta grezza che ripeteva esattamente quei colori; era alta, di proporzioni assai generose, ed era, soprattutto, nera: di un nero così intenso e vellutato che avrebbe potuto ricordare certi giorni nei quali il sole non ha pietà di alcuno e prosciuga le carni, le brucia, e certe notti del deserto, quando la luna si nasconde, svelando le stelle», si presenta, per più giorni ripetutamente, alla portineria del "Corriere della Sera". «Je voudrais parler avec un journaliste» ripete, e quando finalmente riesce a richiamare l'attenzione di un anziano giornalista, aggiunge: «de Boucouba Osea».
Il nome fa sussultare chi l'ascolta. Osea Boucouba, figlio di immigrati, naturalizzato italiano, inviato speciale del giornale, due anni prima aveva lasciato Milano per un servizio più impegnativo: aveva scelto di perdersi nel cuore di tenebra della clandestinità dall'Africa all'Italia per raccontarlo. Adesso questa donna tranquilla e altera viene a riconsegnarne la memoria. Si chiama Fatima, è una nobile senegalese di una famiglia di griot, è una donna-memoria, di quelle genti che di generazione in generazione sono addestrate dalla nascita a ripetere fedelmente le storie dei villaggi. E la sua memoria di griotte, quasi a riconnettere attraverso il tempo e lo spazio, dalle sue origini ancestrali al modernissimo quotidiano, il filo vitale dell'informazione che non si può spezzare, porta in redazione parola per parola il reportage di Osea Boucouba, il quale è stato clandestino, ha lavorato servo di oscuri contadini o di trafficanti spietati ed è stato inghiottito nella marea della più grande migrazione della storia umana e della più grande persecuzione. Forse, dopo quella che Primo Levi ha reso eterna in "Se questo è un uomo".
Balarm Magazine – Novembre 2009 (32)
Adriana Falsone
È come una lenta discesa agli inferi. Là dove non esistono più diritti, dove la dignità umana viene calpestata. E dove si muore per fame e stenti. Ecco “Questo è un uomo”, l’ultimo libro di Davide Camarrone. Una storia di immigrazione: ma al contrario. È il racconto di un giornalista di colore, italiano a tutti gli effetti, che decide di ripercorrere il viaggio, di speranza e disperazione, compiuto tanto tempo prima da chi ha lasciato il proprio paese per venire in Italia, alla ricerca di un sogno, fatto di pace e normalità. Ma qualcosa va storto. Ecco che ce lo racconta lei, una donna memoria, una sorta di “cuntastorie africana”, depositaria di storie che qualcuno deve ascoltare. «Viviamo in un mondo in cui nessuno si accorge di quel che accade intorno a noi - spiega Camarrone - Nessuno sembra accorgersi di quel che accade nel nostro mondo, così come accadde con i lager nazisti: dei campi di lavoro in Italia, dei campi di prigionia in Libia, dei deserti disseminati di cadaveri, del mare che di tanto in tanto restituisce corpi umani. Non penso che l’uomo sia naturalmente votato al male e all’affezione. Penso però che nessuno sembra interessarsi al prossimo. Stiamo assistendo senza rendercene conto alla più grande migrazione della storia umana, una vicenda epocale che sta cambiando il mondo. Nel giro di poco tempo il nostro paese non sarà più uguale. Il problema è che questo cambiamento non è affatto accompagnato da punti di riferimento e, come dire, educazione.
Abbiamo paura, quasi terrore, del diverso. Perché spesso manca l’informazione. Su quello che loro hanno passato e vissuto. Sulle loro condizioni disumane. E ne siamo atterriti. Senza motivo». Davide Camarrone, giornalista in Rai dal 1999, si è occupato spesso di problemi legati all’immigrazione. Ha firmato il soggetto e la sceneggiatura di “Ce ne ricorderemo di questo pianeta”, un docudramma dedicato a Leonardo Sciascia, premiato in numerose rassegne dedicate al cinema documentario e ha scritto “Lorenza e il commissario” nel 2006 per Sellerio e “I Diavoli di Melùsa” nel 2007 per Rizzoli. Questo è il suo ultimo romanzo nato da uno scritto incluso nella antologia “Il sogno e l’approdo. Racconti di stranieri in Sicilia”: «La storia in qualche modo c’era ma ho sentito il bisogno di raccontare bene fatti e personaggi. Di trasformare una storia in romanzo. In molti mi hanno domandato se questo romanzo fosse tratto da una storia vera. La mia risposta è questa: non c’è niente di vero, ma non posso dire in tutta coscienza che una sola parola di quello che ho scritto sia falsa. I luoghi che descrivo nel romanzo, sono veri. I campi di detenzione in Libia per esempio, ci sono, ma nessuno ne parla. I viaggi che gli immigrati compiono per raggiungere l’Italia sono terribili. Subiscono di tutto e per mesi mettono a repentaglio la propria vita. Narrativamente li potremmo definire degli eroi. Non sono affatto clandestini nel senso canonico del termine. Clandestino è chi smarrisce la propria storia. Loro la portano dentro, con sé. Al contrario, clandestini, rischiamo di diventarlo noi se continuiamo a ignorare quello che ci accede intorno, dimenticando da dove veniamo». Osea Boucouba, il protagonista del romanzo, è un cittadino italiano: si è laureato con lode in giornalismo alla Statale di Milano e poi, grazie a una borsa di studio, ha conseguito anche un master a Parigi. Poi ha iniziato la collaborazione con un grande quotidiano, fin tanto che un bel giorno ha proposto al direttore un reportage sulle condizioni nei cosiddetti centri di prima accoglienza. Vuole ripercorrere la strada dei suoi fratelli verso la Sicilia. Per infiltrarsi, in incognito, userà il nome del padre: del resto nessuno sospetterà di lui che è nero. Camarrone ha appena finito di scrivere un altro romanzo, ma preferisce non aggiungere troppi dettagli. O almeno non adesso. E poi in primavera pubblicherà un altro libro per Rizzoli: «Per me un libro ben fatto è luminoso. Ti accorgi che è buono se, sfogliandolo a caso, riesce comunque ad appassionarti. Ecco perché dei libri che ho letto, più che la trama ricordo le emozioni che ho provato leggendolo».
Fatima è una donna-memoria e per tre giorni cerca senza sosta di contattare un giornalista del Corriere della Sera: ha una storia da raccontare, quella di Osea Boucouba. L’ha conosciuto in un campo di detenzione nel deserto libico, un campo di sterminio. Là si muore per il caldo, gli stenti, la fame e le percosse. Boucouba è un giornalista in incognito: dopo essere stato in un centro siciliano di prima accoglienza, è stato trasferito a Tripoli in una nave prigione. Sa che non farà mai ritorno a casa, in Italia e così decide di affidare a lei il suo racconto. Fatima è una di quelle donne-memoria che sanno tenere a mente l’intera storia del proprio popolo. Quando comincia a raccontare, il lettore vede le immagini scorrere davanti alle parole, come in un film.
Fiera del Libro di Torino
14 maggio 2009
Ore 20.00
Sala Gialla
Grandi Ospiti
Dibattito con Giosuè Calaciura e Davide Camarrone
Spettacolo: "Sotto un velo di sabbia"
Regia di Sandro Tranchina
Con Alessandro Haber e Caterina Deregibus
Musiche di Mario Incudine eseguite da Silvio Natoli
Tratto da due racconti di Giosuè Calaciura e Davide Camarrone pubblicati in "Il Sogno e l'Approdo" - Sellerio
Un'iniziativa di Ivan Tagliavia per "Scenario Mediterraneo"
L’Isola crocevia di strade di mare, di incroci di viaggi e approdi provvisori, terra di culture diverse: il tema dello straniero e il Mediterraneo in sei racconti inediti con al centro la Sicilia.
«La Sicilia taglia in due il Mediterraneo» scriveva Braudel per spiegare il destino storico dell’Isola: di crocevia di strade di mare, di incroci di viaggi e approdi provvisori. È forse difficile, prima di tutto per i siciliani stessi, immaginarsi come terra di semplici immigrati, come immobile luogo di accoglienza. Più naturale vedersi come terra di stranieri, in cui nuovi approdi aggiungono altre lontananze alla lontananza essenziale, nuovi esotismi ai già esistenti. In cui il viaggio per arrivare si interseca con altri viaggi, senza concludersi con un definitivo arrivo. Per questo, quando si è chiesto a sei famosi scrittori siciliani di scrivere un racconto ciascuno sul tema dello straniero e il Mediterraneo, con al centro la Sicilia, nessuno di loro ha scelto la cifra realistica, personaggi e vicende ordinari, ma tutti hanno giocato con l’associazione tra l’essere stranieri in Sicilia e il perdersi, e l’indefinito, il cercare di sospenderne il tempo, il sogno. Maria Attanasio racconta di un condominio fantascientifico, una specie di utopia negativa in cui una donna estraniata si ritrova prigioniera. Giosuè Calaciura immagina un approdo sognato di migranti che sfocia nella visione disperata, nell’allucinazione. Davide Camarrone mette sulla bocca di una donna-memoria la vicenda di un giornalista (un figlio di immigrati cittadino italiano) che vuole ripercorrere la strada dei suoi fratelli verso la Sicilia e si perde nelle nuove Auschwitz che ci fronteggiano ancora con la domanda di Primo Levi: chiedetevi se questo è un uomo. Santo Piazzese ricorda un verosimile viaggio segreto nella «luccicante oscurità», forse per espiare forse per seduzione, del fisico danese Niels Bohr a Palermo. Gaetano Savatteri raffigura un vecchio senatore Alessandro Manzoni a cui raccontano di una colonna infame eretta poca fa in Sicilia. Lilia Zaouali inscena una commedia degli equivoci piena si speranza sull’«orientalismo», cioè sui costumi dell’Oriente immaginati dagli occidentali, ma stavolta l’invenzione e la proiezione di un tradizionalismo esotico avvengono tra una figlia che vive a Palermo e la madre tunisina venuta in visita.
Repubblica - 31 dicembre 2008
Salvatore Ferlita
(…) E in attesa della nuova avventura del commissario di Vigàta (…), gli appassionati di gialli e noir potranno rincuorarsi leggendo (…) il terzo romanzo di Davide Camarrone, che ancora non ha un titolo definitivo. (…) Nel poliziesco di Davide Camarrone (…), che uscirà probabilmente a marzo, troveremo finalmente come protagonista una donna, dopo troppi commissari e marescialli rigorosamente coi pantaloni. Si chiama Giulia Schemmari ed è vicecapo della Sezione minori della Polizia di Stato a Palermo. Un giorno la Schemmari viene aggredita in uno sgabuzzino della questura. Il responsabile riesce a dileguarsi ma lei sopravvive. Nonostante il questore le suggerisca di prendersi un mese di convalescenza, Giulia si rimette subito a indagare sul caso di cui si stava occupando. Il romanzo di Camarrone condurrà il lettore in una Palermo orrida e immorale: una sorta di discesa agli inferi. E sempre il giornalista e scrittore palermitano firmerà uno dei sei racconti inediti che daranno forma all' antologia "Strade di mare" (Sellerio), in cui verrà declinato il tema dello straniero, dell' altro da sé: racconti tutti quanti ambientati sulle rive del Mediterraneo. Si intitolerà "Questo è un uomo" il testo di Camarrone, in cui si narra di Osea, immigrato di seconda generazione, giornalista, italiano a tutti gli effetti, che si finge clandestino. Rinchiuso in un Cpt siciliano, viene espulso e "rimpatriato" in Libia dove patisce sofferenze e degradazione fino all' annientamento. Accanto all' autore dei "Diavoli di Melùsa", troveremo Gaetano Savatteri (…), Santo Piazzese (…), Giosuè Calaciura (…) e Lilia Zaouali (…). Da questi racconti saranno ricavati degli spettacoli teatrali con la regia di Marco Baliani, noto per le sue esperienze nel teatro di narrazione. (…)
Premio Letterario "Luigi Capuana" - Mineo
Secondo Premio per la Narrativa edita "I Diavoli di Melùsa"
Davide Camarrone
Premio Letterario Città di Leonforte - XXX Edizione
18 ottobre 2008
Primo Premio per la Narrativa edita
"I Diavoli di Melùsa"
Davide Camarrone
La giuria del Premio, per anni guidata da Carlo Muscetta, era presieduta da Nicolò Mineo, Ordinario di Letteratura Italiana presso l'Università di Catania.
Left - 16 maggio 2008
Filippo La Porta
Tutti i grigi del Noir.
Se ne ne parla come della nuova epica. Ma il genere più di moda produce libri tutti uguali. Ogni tanto si riaccende la polemica intorno al giallo o noir italiano e alla sua presunta capacità di rappresentare il reale, la società, la politica. Antonio Debenedetti mi rimproverava sul Corriere della sera perché non avrei visto quanto il noir soddisfi bisogni diffusi e dia corpo a fantasie collettive. Va bene, però la mia impressione è che estremizzare troppo i dati del quotidiano significhi infine eluderli. L’iperbole cruenta del serial killer può essere un modo per rimuovere gli orrori banali e implosi del quotidiano. Prendiamo un’interessante antologia recente come test utile alla nostra riflessione, ma anche come esempio che potrebbe invece smentire la mia tesi: Tutto il nero dell’Italia, a cura di Chiara Bertazzoni (edizioni Noubs). Nella prefazione Valerio Varesi, dopo aver premesso che «sarebbe sciocco sostenere che solo i racconti noir o gialli hanno la prerogativa di essere sociali», osserva giustamente come dall’antologia emerga soprattutto «l’Italia delle diversità, l’Italia delle regioni e dei tanti campanili», con le sue differenze che nessuna omologazione tv potrà cancellare. Mi limito a tre racconti, del nord, del centro e del sud. «Ritratto sui Navigli» di Matteo Fraccaro ci immerge in un’atmosfera allucinata, luttuosa e onirica, quasi da racconto scapigliato. Chi narra incontra il suo maestro pittore dopo che si è suicidato, tra misteriosi personaggi femminili e altre morti misteriose. Di Milano si dice che «qualunque sia il colore degli edifici, dei tetti o degli alberi, tutto emana grigio» mentre l’intera realtà assomiglia a un «mastodontico fermo immagine in cui bianco e nero si miscelano». «La sera del civico 33» di Silvia Pantaleo è ambientato in un quartiere periferico romano, il Quadraro, tra piccoli spacciatori, ragazzi di vita, moto di grossa cilindrata, balordi e infami, protettori “maleodoranti” ma dotati di incredibile retorica. È singolare come l’effetto di realtà tipicamente pasoliniano si ritrovi più in un racconto di genere che in tanti romanzieri contemporanei che dichiarano di ispirarsi al poeta friulano. «Saldi per racket» di Davide Camarrone ci introduce nel mondo della criminalità palermitana, tra estorsioni, intimidazioni, piccoli eroi comuni, e un commissario che quando legge i verbali della giornata lascia tutto quello che sta sopra i tre anni di galera mentre sotto i tre anni si limita a molestie sessuali e rumori notturni: «Sono sacri, femmine e sonno». La forza di questi racconti non sta tanto nella scrittura, a volte un po’ ingenua, spesso priva di quell’ironia indispensabile a ogni narrativa di genere, quanto in una sorprendente capacità di rivelazione a proposito dell’«Italia delle diversità». Non ci si sofferma tanto sullo splatter o sul plot giallistico quanto sulla descrizione precisa di un ambiente, di un’atmosfera. Il mio preferito è «Una questione di equilibrio (indagine in due caffè)» di Igor De Amicis, dove l’omicidio di un’usuraia a Teramo diventa quasi un rito collettivo, una feroce simulazione di giustizia, per riparare uno “squilibrio”. E il finale, insieme edificante e perverso, «aveva ripreso a nevicare, il cielo era di un bianco abbagliante, l’aria era fresca e sapeva di buono», è quasi Simenon.
La Provincia di Lecco - 25 febbraio 2008
La danza della morte, lugubre messinscena di una più dolorosa realtà, accoglie i lettori nella «magica» Sicilia raccontata da Davide Camarrone, giornalista e scrittore, nel suo ultimo romanzo «I diavoli di Melusa». La vicenda si ispira al caso giudiziario di Salvatore Gallo che nel secondo dopoguerra era stato condannato per l'omicidio del fratello, senza che si fossero mai trovati nè l'arma del delitto nè il corpo. Neanche la riapparizione in paese del «morto vivo» potè rendere giustizia al povero Gallo, chiuso per anni in prigione, prima della revisione del processo grazie alla modifica del Codice di procedura penale provocata proprio da questo caso. Un giallo che diventa civile nel montaggio di Camarrone che inquadra la storia, «interpretata» dai fratelli Leonardo e Vincenzo Caltabellotta, nei contorni dell'economia della Sicilia anni Cinquanta. Le vie di Melusa (l'immaginario paese dove è ambientato il romanzo) sono grigie come il cielo, appesantito dalle nubi di fumo degli impianti che tanto assomigliano a quelli di Gela, Agusta, Priolo e Melilli. A raccontare la storia è Giulio, il farmacista compagno di studi di Alfredo Caltabellotta, figlio del presunto fratricida. Alfredo, dopo anni di lavoro all'estero e con il fegato devastato dal cancro, decide di tornare a Melusa, per scoprire la verità e riabilitare la memoria del padre. Camarrone si addentra nei budelli ritorti di una giustizia che neppure dinanzi all'evidenza sa riconoscere il proprio errore. È il gennaio del 1949, quando Vincenzo Caltabellotta sparisce e suo fratello Leonardo viene condannato all'ergastolo. Le prove "schiaccianti", in un'inchiesta che fa acqua da tutte le parti, sono il sangue di capra trovato nel terreno dei due fratelli e il sogno della moglie di Vincenzo, che racconta di avere avuto la premonizione dell'omicidio. L'impalcatura dell'accusa cade sotto i colpi di un abile cronista e delle ricostruzioni fatte da Alfredo. Ma per la giustizia è troppo tardi.
Il Foglio - 27 novembre 2007
(dalla recensione de "L'Isola senza Ponte" di Matteo Collura)
(...) Collura, sul ponte, non indica scelte, anche se la sua analisi sociale e antropologica è costruita attorno ai temi dell’insopprimibile “isolitudine”. La Natura stessa ha reciso il legame di carne con il “resto” geografico. Una volta tagliato il cordone ombelicale, sembra suggerire l’autore, è inutile riattaccarlo. Ma c’è un tema sul quale l’agrigentino scende in campo. Un argomento sul quale ha insistito recentemente anche un altro giovane scrittore siciliano: Davide Camarrone, nei suoi “I diavoli di Melusa”, edito da Rizzoli. Entrambi divengono attori del dibattito che riguarda lo sfacelo delle periferie e delle zone industriali dell’isola. Per entrambi il degrado estetico determina il degrado morale. Perché dal degrado delle cose al degrado delle coscienze il passaggio è facile (...)
Famiglia Cristiana - 25 novembre 2007
G. A.
Melùsa, un paese immaginario, ma non troppo, in una Sicilia devastata dall'industria petrolchimica e dal cemento. È in questa realtà che Davide Camarrone, giornalista Rai della sede di Palermo, ambienta la sua seconda opera. Un giallo che si dipana tra le morti legate alle attività delle raffinerie e una giustizia che mostra un volto ottuso e arrogante. Protagonista del romanzo è Giulio, un anziano farmacista che riceve la visita inaspettata di un vecchio compagno di studi, Alfredo Caltabellotta, figlio dell'"assassino", ritornato in Sicilia dopo molti anni. Il bravo Camarrone racconta una storia contorta con un tratto stilistico che lo avvicina ai grandi della letteratura siciliana.
Gazzetta del Sud - 23 novembre 2007
Giuseppe Amoroso
Si snoda per i vicoli di Melùsa vecchia il «serpente» della processione di diavoli e streghe che, secondo un antichissimo rito contadino, raccolgono per le vie tutto ciò che possa bruciare per poi fare un gran rogo fuori le mura del paese, al di là delle quali, negli ultimi tempi, sono sorti quartieri nuovissimi che hanno cominciato a contendere spazio alla campagna resa inutile dal sorgere di stabilimenti petrolchimici. Inclinata da un sotterraneo senso di mistero, la descriizione delle grigie pietre delle strade invia sui primi scenari di I diavoli di Melùsa (Rizzoli, pp. 220, euro 17,00) la stanca luce di un'attesa fragile, rifratta in tante piccole storie locali (fra figure di transito e palazzi nobiliari) che sembrano voler differire l'inizio del racconto. Davide Camarrone manifesta la sua predilezione per le atmosfere rarefatte con la scelta di parole essenziali ma dentro una sfera vaga: veri aculei lessicali ad alta potenzialità figurale, che intendono veicolare nella suspense il processo narrativo puntando su motivi deputati ad assumere un significato spesso volutamente incerto, simbolico, e a far intravedere il profilarsi di trame spostate sovente verso l'orlo del racconto. Si presentano paesaggi come visioni eccezionali, qualche volta in funzione della scrittura e dei suoi flussi evocativi più che dell'esigenza inderogabile della trama, mentre si diffonde un'opprimente aria cinerina in cui gli sfondi si identificano con un orizzonte troppo vicino. A cinquant'anni dal processo che ha visto condannare il padre Leonardo per l'uccisione del fratello Vincenzo (di cui non si è trovato il corpo), riappare a Melùsa, stanco, malato e prossimo a morire, Alfredo Caltabellotta. Medico nell'inferno del Vietnam, tornato in Sicilia per riabilitare il ricordo del padre, cerca l'aiuto del vecchio amico Giulio, il farmacista che tiene le redini della narrazione. Sorpreso da una misteriosa inquietudine, ruota intorno a se stesso quel microcosmo che si scheggia in uno sventolio di immagini inquinate. Il romanzo va avanti e indietro nel tempo, si immerge nelle udienze del paradossale processo del «Morto Vivo» (ispirato al noto caso Gallo) seguendolo attraverso una minuziosa serie di documentazioni: atti giudiziari, articoli di giornali, testimonianze, lettere, diari, passati al vaglio fra «le incrostazioni retoriche e le inutili descrizioni». E fa, di contro, affiorare dal buio «figure stinte» che, con puntualità, interagiscono con nuovi sfondi e fatti del presente: l'oasi dell'isola di Filicudi, brani di racconti di Alfredo, intimidazioni mafiose, la comparsa di un omuncolo dal passo caprino, la chiave di una cassetta di sicurezza, la vendita di un terreno per un progetto miliardario, un suicida e un assassino che si è visto «morire intorno, in pochi anni, mezza Melùsa». Alla fine anche un migliaio di persone che suonano e cantano «musica casareccia, buona per una contraddanza». Un po' appartata, una veggente che ha visto davvero alcuni eventi.
Cult - 20 novembre 2007
Simonetta Trovato
Una bella prova, questa di Davide Camarrone, di certo molto più matura della precedente: "I diavoli di Melùsa" scava a fondo in certa Sicilia di ieri, ma si aggancia senza remore ad una brutta realtà di oggi, fatta di fumo, di cancro, piccoli malformati, inquinamento. Una vecchia storia - una storiaccia che coinvolge due fratelli, sembrerebbero Caino e Abele, ma forse non è vero - fa da spunto ad un romanzo interessante e nuovo in cui il giornalista Rai dimostra ottima padronanza della penna ma soprattutto un'intrigante curiosità. E un'ottima memoria, visto il gioco, che sembra piacere parecchio a Camarrone, dei continui rimandi alla cronaca siciliana, magari spostata di luogo, ma sempre affabulatoria.
ANSA - 9 novembre 2007
Francesco Nuccio
La danza della morte, lugubre messinscena di una più dolorosa realtà, accoglie i lettori nella ''magica'' Sicilia raccontata da Davide Camarrone, giornalista e scrittore, nel suo ultimo romanzo ''I diavoli di Melusa'' (edito da Rizzoli, 220 pp., 17 euro).
In un'atmosfera da messa nera, appesantita dalle ciminiere del petrolchimico, la vicenda si ispira al kafkiano caso giudiziario di Salvatore Gallo che nel secondo dopoguerra era stato condannato per l'omicidio di suo fratello, senza che si fossero mai trovati né l'arma del delitto, né il corpo. Neanche la riapparizione in paese del ''morto vivo'' poté rendere giustizia al povero Gallo, chiuso per anni in prigione, prima della revisione del processo grazie alla modifica del Codice di procedura penale provocata proprio da questo caso.
Un giallo che diventa civile nel montaggio di Camarrone che inquadra la storia, ''interpretata'' nel romanzo dai fratelli Leonardo e Vincenzo Caltabellotta, nei contorni dell'economia deviata della Sicilia anni Cinquanta, dove gli impianti petrolchimici sostituiscono i campi e provocano tumori e bambini deformati.
Le vie di Melusa (l'immaginario paese dove è ambientato il romanzo) sono grigie come il cielo, appesantito dalle nubi di fumo degli impianti che tanto assomigliano a quelli di Gela, Agusta, Priolo e Melilli. La Sicilia è ancora quella di Sciascia, quella strana isola in cui ''la macchina della giustizia si muove a vuoto, o peggio ancora, arrotando chi, per distrazione propria o per spinta altrui, si trova a sfiorarla''.
A raccontare la sporca storia, dove i colpevoli sono le vittime, è Giulio, il farmacista compagno di studi di Alfredo Caltabellotta, figlio del presunto fratricida. Alfredo, dopo anni di lavoro all'estero e con il fegato devastato dal cancro, decide di tornare a Melusa, il luogo del fattaccio, per scoprire la verità e riabilitare la memoria di suo padre: un doloroso viaggio nel passato, tra superstizioni mai accantonate e tradizioni popolari. Camarrone si addentra nei budelli ritorti di una giustizia ottusa e arrogante, che neppure dinanzi all'evidenza sa riconoscere il proprio errore. E' il gennaio del 1949, quando Vincenzo Caltabellotta sparisce dalla città e suo fratello Leonardo viene condannato all'ergastolo. Le prove 'schiaccianti' che inchiodano Leonardo, in un'inchiesta che fa acqua da tutte le parti, sono il sangue di capra trovato nel terreno di proprietà dei due fratelli e il sogno fatto dalla moglie di Vincenzo, che racconta di avere avuto la premonizione dell'omicidio durante la notte. L'impalcatura dell'accusa cade sotto i colpi di un abile cronista e delle ricostruzioni fatte da Alfredo. Ma per la giustizia è comunque troppo tardi.
Giornale di Sicilia - 6 novembre 2007
Giancarlo Macaluso
«Riescono a venire al mondo bambini d'ogni tipo, pure senza mani e piedi e con due teste, anomalie genetiche più frequenti qui che altrove». Il «qui» è un posto della Sicilia facilmente individuabile leggendo il romanzo di Camarrone (I Diavoli di Melùsa, Rizzoli, pp. 224, 17 euro). Nelle pance le puerpere portano l'orrore, e non lo sanno. Toccherà a una ginecologa, moglie di un farmacista (vero protagonista del libro), svelare a quelle povere madri la vita che attende le loro creature. Nate male, senza un occhio, senza una gamba, senza un pezzo di cuore, senza un pezzo della vita. Di chi è la colpa? Forse di quei fumi che ammorbano l'aria. Di quelle ciminiere chiamate petrolchimico nate mezzo secolo prima con la splendente prospettiva di dare lavoro.
Una Sicilia tragica quella descritta da Camarrone, alla sua prima prova con la casa editrice milanese dopo avere esordito per il grande pubblico con Sellerio, cui fa da controcanto una terra magica, sulfurea persino, come sbucata da un passato remoto. E i «diavoli di Melùsa», quelli dei travestimenti delle feste a metà tra religione e paganesimo, stanno a ricordarlo.
Quelle fabbriche stanno laddove prima c'erano orti e vigne, fattorie e prati. Terre tutte vendute agli uomini che dovevano far progredire la Sicilia. Proprio in quelle langhe il 21 gennaio del '49 si verificò uno strano fatto di sangue. Un fratricidio per questioni di interesse, si disse. Ma senza cadavere. Ché era scomparso. Un uomo finì in carcere accusato della morte del congiunto che dopo tre anni e mezzo, però, viene ritrovato vivo e vegeto. E allora?
La soluzione del giallo Camarrone la affida a una curiosa coppia. Da un lato c'è il simpatico farmacista Giulio Borgese, uno che scherza con i clienti e si appassiona agli annunci parrocchiali. Avvisi esilaranti (ma veri), come questo: «Il costo per la compartecipazione all'incontro su "Preghiera e digiuno" è comprensivo dei pasti». Oppure: «Tema della catechesi di oggi: "Gesù cammina sulle acque". Tema della catechesi di domani: "In cerca di Gesù"». Impagabile.
Dall'altro Alfredo Caltabellotta, medico giramondo, bravissimo scrittore di storie per ragazzi mai pubblicate in Italia. Un uomo che torna in paese per morire. È corroso da una cirrosi che lo spegne giorno dopo giorno. Ma lo tiene ancora in vita un desiderio ha alimentato per tutta la sua esistenza: fare luce su quel vecchio episodio che portò in galera suo padre, Leonardo, accusato di avere assssinato il fratello per una questione di eredità. Il suo vecchio morì ancora prima di sapere che il fratello era vivo. Alfredo Caltabellotta, alla fine dei suoi giorni, sa che da solo non ce la farà a chiarire l'enigma, a comprendere che cosa realmente accadde quel giorno. E chiede aiuto a Giulio, suo vecchio compagno di studi, il marito della ginecologa alla quale sempre più spesso tocca far nascere bimbi senza un occhio, senza un pezzo di cuore, senza un pezzo della vita.
I Love Sicilia - 26 ottobre 2007
Margherita Gigliotta
Il secondo romanzo di Davide Camarrone, scrittore e giornalista, s’intitola “I diavoli di Melùsa” (Rizzoli – pp. 220 – 17 euro). Dopo il fortunato debutto con “Lorenza e il Commissario”, un thriller internazionale edito lo scorso anno da Sellerio, Camarrone torna a raccontare della Sicilia.
Una Sicilia arcaica, stavolta: magica, alle prese con la promessa industriale, risoltasi poi in una grave devastazione ambientale, causata dagli stabilimenti petrolchimici e dalla crescita disordinata delle città.
Il giallo è ambientato nell’immaginaria Melùsa, un paesino arroccato in cima all’immaginaria provincia di Cattolica Iblea, ed ha per protagonisti due vecchi amici che si ritrovano mezzo secolo dopo il loro addio. Entrambi hanno in comune la passione per la medicina: Giulio è diventato farmacista (dopo un breve passaggio alla facoltà di medicina), mentre Alfredo ha continuato gli studi, è stato in giro per il mondo e si è anche dedicato alla scrittura, divenendo un famoso autore di fiabe per bambini.
L'incontro tra i due vecchi amici è segnato dal destino. Una forte ed antica motivazione spinge Alfredo, della vita, segnato da un cancro devastante, a chiedere l'aiuto e la complicità del compagno di studi di un tempo.
C'è un mistero da risolvere: un mistero velato dalla mala giustizia, una storia familiare tormentata che ha segnato in maniera netta la vita di Alfredo: quella di suo padre Leonardo e di suo zio Vincenzo. A Giulio è affidato il gravoso compito di far luce sul presunto omicidio di Vincenzo, avvenuto secondo gli inquirenti dell'epoca per mano del fratello Leonardo, e legato, dicono gli accusatori, a questioni d’interesse.
Il processo condurrà ad un trionfo della giustizia, e ad una sconfitta della verità.
Davide Camarrone prende spunto dal celebre caso del “Morto Vivo”: la vicenda di Salvatore e Paolo Gallo, che si svolse tra le province di Caltanissetta, Ragusa e Siracusa nella metà del secolo scorso, per raccontarci le intrigate e spesso oscure trame giudiziarie di una Sicilia lontana nel tempo, che s’intrecciano al drammatico presente dell’Isola.
Quest’attualità fa dei “Diavoli di Melùsa” un Giallo civile.
Thriller Magazine - 18 ottobre 2007
Chiara Bertazzoni
Il 1949. Due fratelli che litigano spesso. Una proprietà da vendere. La sparizione misteriosa di uno dei due. L'accusa di omicidio e l'ergastolo per l'altro. Dopo più di cinquant'anni la storia torna a galla grazie a Alfredo Caltabellotta, il figlio del presunto assassino, che, prima di morire, torna a Melùsa, sua città natale, e decide di rendere giustizia alla memoria del padre. Per fare questo coinvolge l'amico Giulio, che porterà avanti le ricerche anche dopo la sua morte.
Questa in breve la trama di I diavoli di Melùsa, secondo romanzo di Davide Camarrone, edito da Rizzoli e disponibile in libreria da alcune settimane.
Dopo il precedente Lorenza e il commissario, l'autore decide di raccontare una Sicilia "magica", come lui stesso la definisce, una Sicilia che torna alle origini e lo fa con abilità e determinazione.
Il romanzo nasconde, infatti, diversi piani di lettura: passato e presente, realtà e tradizione, verità e menzogna, torti antichi e minacce attuali. Tutti questi elementi si intersecano a formare una trama avvincente e appassionante, dal gusto variegato e dalle tinte forti, che mescola i toni avvincenti del legal thriller, alla tradizione regionale della "mitica" città di Melùsa, il tutto condito da alcuni elementi che prendono le mosse da fatti di cronaca reali.
Forse si potrebbe approfondire l'analisi delle diverse parti, ma il gusto di questa Sicilia emerge prepotente dalle pagine e perciò non c'è bisogno di aggiungere molto altro.
In conclusione un romanzo completo, maturo, di un autore che con quest'opera ha sicuramente fatto il salto di qualità e che si può definire senza dubbio all'altezza del miglior Camilleri.
Giudizio: 4 stelle
Il Centro - 17 ottobre 2007
Ugo Perolino
«Tutto il nero dell’Italia» è una raccolta di racconti di genere scritti da 20 autori, uno per regione, dalla Valle d’Aosta alla Sicilia. Il volume, pubblicato dalla casa editrice Noubs di Chieti (210 pagine, 13 euro, prefazione di Valerio Veronesi, con nota di Mauro Smocovich) e curato da Chiara Bertazzoni, è una vetrina di giovani talenti, ma ha soprattutto il merito di offrire uno spaccato generazionale senza filtri.
Quasi tutti gli autori di questa antologia hanno attraversato o attraversano una esperienza di precariato, lavoro nero, disoccupazione cronica o prolungata. Molti racconti rappresentano una realtà di corruzione e affarismo politico, di malcostume, violenza burocratica, di ipocrisia e cinismo che velano il saccheggio avido del denaro pubblico.
Ciò che colpisce nelle piccole note autobiografiche riportate in fondo al volume, e che costituisce un denominatore comune, è l’indeterminazione dell’essere e dell’identità sociali.
Fabio Mazzoni vive ad Aosta, di «giorno è bibliotecario all’università, di notte viviseziona i suoi autori preferiti»; J. P. Rossano, torinese, si definisce «ex schermidore e scrittore di noir»; Marinella Lombardi (Forlì, 1969) «suona il pianoforte, legge libri di varia natura e ama viaggiare»; Paolo Agaraff «nasce tra il 1966 ed il 1969 ad Ancona ove conduce un’inconsapevole ed oscura esistenza»; e così via.
Se da questi brevi riassunti biografici si passa ai testi narrativi, l’atonia lascia il passo ad una rabbia compressa.
«Laspeziasouvenir» dello spezzino Alessandro Zanoni racconta di un ruspista che rimane intossicato dalla diossina contenuta in alcuni fusti che sta interrando in una discarica abusiva. L’uomo, che lavora in nero, non può denunciare il fatto e muore avvelenato senza assicurazione e senza pensione di reversibilità.
«Più grigio che noir» del molisano Mirco Cantoro è la storia di un giovane tecnico assunto a tempo determinato da un’agenzia pubblica per falsificare i risultati delle centraline di rilevazione dell’inquinamento dell’aria. Dietro la diffusione di dati taroccati si nasconde una truffa ambientale che vede coinvolti politici e imprenditori locali. Alla lunga, però, crescono i casi di tumore ai polmoni, e tra i primi, per ironia o vendetta della sorte, c’è proprio il fratello del protagonista.
«E non è ancora finita» del campano Valerio Lucarelli sarebbe la solita storia di una multinazionale che, dopo aver ottenuto sussidi e incentivi statali, delocalizza le produzioni nell’est europeo licenziando centinaia di operai. I piani di salvataggio si rivelano ulteriori occasioni di guadagno, ma non per chi ha perso il lavoro: giochi finanziari, cambi di proprietà, ricapitalizzazioni, privatizzazioni, scatole cinesi. Ma il protagonista del racconto a un certo punto impazzisce, sequestra e stupra la nipote del presidente dell’azienda.
«Una questione di equilibrio» del teramano Igor De Amicis dipana sullo sfondo incolore della provincia una vicenda di usura, sesso, ricatti, invisibili odi che tracimano e trovano un precario equilibrio nell’omicidio di una insospettabile pensionata.
Il palermitano Davide Camarrone è scrittore sottile ed ironico, che in «Saldi per racket» porta in scena personaggi e caratterizzazioni tipiche di una certa tradizione narrativa siciliana.
«Tutto il nero dell’Italia» è un’antologia diseguale, dove i racconti hanno differenti valori, tonalità, stili, e gli autori provengono da condizioni geografiche e sociali lontane, e hanno età ed esperienze diverse. Ma questa eterogeneità è anche un valore, perché offre a chi legge un panorama non addomesticato, una testimonianza acuta non soltanto della realtà che viene rappresentata, ma più ancora del modo di rappresentare l’Italia contemporanea, dei linguaggi di una generazione (i trenta-quarantenni) e delle sue frustrazioni, del sentimento di apatia e disincanto.
I DIAVOLI DI MELÙSA di Davide Camarrone: ispirandosi a un fatto di cronaca, il caso Gallo, fulgido esempio di malagiustizia, il romanzo di Camarrone riflette la metaforica contraddizione fra le tradizioni pagane di cui è venata la Sicilia e il vero diavolo del presente con le sue forme di manipolazione dell'innocenza: lo stabilimento petrolchimico di Gela.
Il Foglio - 12 ottobre 2007
Per ogni omicidio ci vuole un cadavere. Per ogni cadavere un'arma del delitto. Ma Melùsa è una città fantasma, esoterica e superstiziosa, popolata di strani personaggi. Un luogo magico dove l'interpretazione delle leggi procede per approssimazione, dove non c'è differenza tra un certificato di morte e una testimonianza di esistenza in vita.
Il romanzo di Davide Camarrone tocca i nervi scoperti di una Sicilia plumbea anni Cinquanta, affogata nell'ottusità di una giustizia arrogante e incapace di autocritica. Una Sicilia riletta a colpi di flashback attraverso un diario contemporaneo, dal 19 settembre all'8 aprile 2007, che riscopre l'isola, mezzo secolo dopo, ancora più tetra, per i danni genetici di uno sviluppo industriale senza regole.
Ragiona di intrecci scomodi, I diavoli di Melùsa. Di attentati e di ricatti. Di bambini malformati e di un petrolchimico con le ciminiere che funzionano giorno e notte. "Un mostro diventato dio, capace di trasformare la struttura genetica dei suoi abitanti". Racconta di aborti spontanei aumentati del doppio negli ultimi anni e di malattie che colpiscono l'apparato genitale maschile, mentre i pesci vengono tirati su con ami-calamite. E queste orditure l'autore le scopre vestendo i suoi panni. Divenendo alter ego di un giornalista che non ha perso il gusto per l'inchiesta. Lo fa ragionando sul presente, modificando i tratti della storia in piena libertà, mutuando Sciascia "nella conoscenza di quel che è stato e nella libertà che un autore può concedersi di plasmare la storia è la comprensione del presente".
Camarrone, scrittore e giornalista palermitano, classe 1966, che con Sellerio aveva pubblicato il giallo Lorenza e il commissario, non cede mai al sensazionalismo e mescola con abilità fantasia e realtà, possibili scenari e ipotesi credibili che hanno un unico comune denominatore: il male genera altro male.
Il filo conduttore è il caso Gallo, un caso giudiziario-kafkiano chiuso prima di ogni indagine. Protagonisti due fratelli litigiosi. Dopo la scomparsa di uno dei due, il presunto "caino" viene condannato all'ergastolo con l'accusa di aver ucciso il fratello, il quale anni dopo tornerà a circolare indisturbato come un morto vivo, senza che questo muti di una virgola il verdetto del tribunale e l'infamia per la famiglia. Un caso giudiziario in un paese, l'Italia, definito all'epoca dal Times "inaffidabile, privo di cuore e di colonna vertebrale". Uno degli errori giudiziari più clamorosi nella "preistoria" della Giustizia, un caso che per Camarrone è motivo per parlare di Verità. A volte apparenti. A volte evidenti: come l'innocenza di chi non ha ucciso nessuno.
Repubblica - 3 ottobre 2007
Salvatore Ferlita
Da un presunto intrigo internazionale, «roba da telefilm americano», con tanto di tesoro nascosto da qualche parte, a un giallo civile, nato sotto l'egida di Leonardo Sciascia. Da Lorenza e il commissarrio (Sellerio), dunque, a I diavoli di Melùsa (Rizzoli, 220 pagine, 17 euro), la strada percorsa da Davide Camarrone porta dritto all'inferno del polo petrolchimico isolano, nel nauseabondo quadrilatero della Sicilia: Gela, Augusta, Priolo e Melilli. Una sorta di demoniaco girone dantesco, che negli ultimi anni ha conosciuto la ribalta a causa dei danni procurati all'ambiente e alla popolazione. I casi di tumore superiori alla media, la catena di bambini malformati, i guasti irreversibili del paesaggio, oramai agli onori della cronaca grazie alle proteste, alle indagini, agli studi promossi dall'Organizzazione mondiale della sanità, diventano ora, nelle pagine di Camarrone, alimento per una storia che ripropone, nella finzione romanzesca s'intende, anche uno dei casi giudiziari destinati a passare alla storia degli errori giudiziari più clamorosi: quello di Salvatore Gallo, condannato all'ergastolo per l'omicidio del fratello Paolo che in realtà, sette anni dopo, si ripresentò vivo e vegeto.
Un episodio di mala giustizia, posto sotto un'epigrafe sciasciana, tratta da Nero su nero: «Dice un vecchio avvocato: una volta, su cento casi che mi capitavano, novantotto erano di colpevoli e due di innocenti. Ora è il contrario: novantotto innocenti e due colpevoli»; fin qui l'avvocato. Ed ecco la chiosa di Sciascia: «Spero che la sua sia una esperienza eccezionale, ma spesso mi assale il sospetto che la macchina della giustizia si muova a vuoto o, peggio, arrotando chi, per distrazione propria o per spinta altrui, si trova a sfiorarla».
Nel romanzo di Camarrone, la macchina della giustizia arrota Leonardo Caltabellotta, fratello di Vincenzo: i due non si amano, spesso discutono animatamente sulle sorti delle loro proprietà. Un bel giorno, dopo l'ennesima lite violenta, Vincenzo sparisce e Leonardo viene arrestato. Il caso è risolto prima ancora di avviare l'indagine. Trascorsi cinquant'anni da quella triste vicenda, Alfredo Caltabellotta, figlio di Leonardo, col fegato divorato dal cancro, torna nel suo paesino d'origine, Melùsa. È mosso da una motivazione impellente: la volontà di rimettere le cose a posto, per cancellarre l'ignominia. Ha con sé un dossier scottante, che ha messo assieme nel tempo, collezionando articoli di giornale, sentenze, testimonianze. Al limitare della morte, dunque, Alfredo, che quasi non si regge in piedi, chiede soccorso al suo amico d'infanzia e collega universitario: si chiama Giulio e fa il farmacista. Il romanzo comincia il lunedì 19 marzo 2007: l'autore è molto abile nell'ambientare la storia e i personaggi, disegnando una Melùsa demoniaca.
I diavoli e le streghe, una volta all'anno, diventano i padroni assoluti del paese: rito antropologico, legato alla religiosità blasfema dei siciliani, ma anche malevola profezia, divinazione inquietante. Quasi subito si evince che la popolazione di Melùsa non ha affatto da temere questi drappelli satanici, retaggio di antichi riti, ma deve guardarsi dai moderni spiriti del male, le presenze infernali delle ciminiere, nella parte nuova di Melùsa. Quando Alfredo e Giulio si incontrano, e il primo spiega le ragioni della visita,le sue preoccupazioni legate al poco tempo che gli resta da vivere e al peso oramai mal sopportabile che da anni trascina, si assiste a tutta una serie di flashback, messi in moto da due cd rom che stanno nella borsa di Alfredo. Giulio si mette al computer, tra un malore e l'altro dell'amico, e si trova di fronte a una sorta di materiale che si intitola "L'innocenza di mio padre". Si inabissa in questo mare di parole, Giulio, e riappare la Melùsa di un tempo, scossa da quell'omicidio subito rubricato come delitto d'interesse, maturato lentamente negli anni, tra due fratelli che s'odiavano.
A dare l'allarme, quel maledetto giorno, la moglie di Vincenzo, una specie di malena: il letto freddo come unapietra, i segni premonitori che accompagnano quella scomparsa. E poi, il sopralluogo dei carabinieri: il sangue trovato nella tenuta dei fratelli Caltabellotta (al centro degli interessi di un certo Amedeo Lipari), la capra, il cappello, il buio della notte. Indizi tutti di una presenza demoniaca. Il sospettato numero uno, Alfredo, viene incarcerato, processato e condannato alla velocità della luce. L'inchiesta, manco a dirlo, fa acqua da tutte le parti, come l'impalcatura dell'accusa. Ad accorgersene, un cronista dal fiuto infallibile (Nino Majorca), cui si deve un'indagine parallela che va in direzione del Petrolchimico e degli interessi loschi di un politico. Il tutto, tra le innumerevoli intimidazioni ai danni di chi denuncia gli scempi delle raffinerie. Una storia nera, quella di Camarrone, da intendere non nel senso di noir, quanto alla luce di quello che scriveva Sciascia: la nera scrittura sulla nera pagina della realtà.
Panorama - 21 settembre 2007
Eleonora Voltolina
Portarsi dentro per più di mezzo secolo la «disgrazia di famiglia». Poi, a un passo dalla morte, rimescolare le carte: raccogliere le prove, ricostruire il passato pezzo per pezzo, tornare a casa, sul luogo del delitto, per ristabilire la verità.Così comincia I diavoli di Melùsa, appena pubblicato da Rizzoli. Davide Camarrone racconta la storia di un uomo che torna in Sicilia per chiudere la questione più importante della sua vita: sessant’anni prima il padre era finito in prigione con l’accusa di fratricidio. Al suo fianco ritrova un amico d’infanzia, testimone, insieme alla moglie, delle devastazioni ambientali causate da uno stabilimento petrolchimico.
Un romanzo sorprendente, quasi il copione di una puntata del telefilm del momento, Cold Case, in cui gli investigatori indagano su casi vecchi di decenni, che parte da un fatto di cronaca realmente avvenuto: «Mi sono ispirato al caso Gallo, un contadino condannato negli anni Sessanta per l’omicidio del fratello senza che nemmeno fosse stato rinvenuto il cadavere» racconta l’autore a Panorama. «Venne poi scagionato quando la vittima fu ritrovata, viva e vegeta». Clamoroso errore giudiziario trasformato nella metafora della difficoltà di distinguere il bene dal male.
Camarrone ha iniziato a scrivere a 17 anni sullo storico quotidiano L’Ora di Palermo; oggi lavora nella redazione siciliana della Rai. Non a caso uno dei personaggi chiave del libro è un cronista testardo che non si accontenta della verità preconfezionata: «Il giornalista deve avere il coraggio di essere scomodo per il potere, e anche per il lettore. Non può dare al pubblico solo quello che il pubblico vuole». E scomodi sono certamente i due temi principali del libro: malagiustizia e ambiente. Camarrone in proposito si dichiara relativamente ottimista: «Sento che in Italia su questi temi sta crescendo una nuova cultura. Tante persone oggi ragionano fuori dagli schemi, senza farsi imbrigliare dalle appartenenze politiche» conclude «è questo il miracolo italiano: nel caos più totale si riesce a immaginare il futuro».
Repubblica - 25 agosto 2007
Filippo Maria Battaglia
Dalla Sellerio alla Rizzoli: a fine settembre, Davide Camarrone torna in libreria, ma questa volta pr i tipi della casa editrice milanese. Il nuovo libro si intitolerà I diavoli di Melùsa e come il precedente Lorenza e il commissario, sarà ambientato in Sicilia.
Il giornalista Rai cambia editore ma non genere: la sua seconda opera sarà sempre un giallo, anche se questa volta verterà sulle morti legate alle attività dei petrolchimici isolani. Protagonista del romanzo sarà Giulio, un anziano farmacista che riceva la visita inaspettata di un suo vecchio compagno di studi, Alfredo, ritornato in Sicilia dopo molti anni ed ora gravemente malato. Sarà quest'ultimo a convincere l'amico di infanzia ad intraprendere un'infinita ricerca per scoprire il mistero della scomparsa di un vecchio zio, datata 1949. Quell'allontanamento aveva infatti causato l'arresto del padre, accusato infondatamente del fratricidio e morto in prigione dopo un attacco cardiaco. A distanza di sessant'anni, Alfredo vorrà vederci chiaro e chiederà aiuto all'amico. Ma la ricerca metterà a repentaglio la stessa vita del protagonista della storia, facendo emergere negligenze e malefatte dell'imprenditoria petrolchimica negli anni del boom economico.
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